04/06/2010

Approccio italiano alla futura governance globale

I sistemi industria-stato degli Stati Nazione più competitivi stanno dissipando le proprie risorse nello sterile tentativo di ricavarsi spazi privilegiati nell’ambito delle istituzioni soprannazionali cui verranno demandate dei compiti di garantire il rispetto delle regole necessarie alla stabilizzazione del nuovo mercato industriale su base globale.

Ciò vale per la Francia, la Germania, il Giappone e in minore misura per il Regno Unito.

L’Italia, che è certamente il sistema stato-industria meno competitivo e con minori tradizioni storiche non ha invece alcuna speranza di poter ‘negoziare’ spazi privilegiati nella futura governance che possano dare una tutela al sistema industriale del paese in continuità di interessi tra stato e privati. Non solo essa è anche l’unico paese industrializzato che, nella sua storia di Stato Nazione, non ha mai dato tutela ai prevalenti interessi industriali del paese; la piccola e media impresa. Anche lo stato fascista ha creato un apparato di stato che è stato poi sfruttato ‘contro’ gli interessi industriali più vivaci del paese per alimentare, per pure ragioni politiche, un’industria di stato prevalentemente monopolista o parassitaria in molti comparti industriali; ENI, RAI, IRI, Federconsorzi, etc..

Il sistema industriale più competitivo ha sviluppato il suo potenziale di flessibilità, creatività innovativa e autonomia di finanziamento grazie all’esigenza di dover sopportare l’onere aggiuntivo che incombeva sulle sue spalle, oltre a quello strettamente di impresa; recuperare l’improduttività dei grandi gruppi industriali (sia statali che privati) tutelati da uno stato illiberale e protezionista.

Dopo queste considerazioni puramente storiche, anzi estraibili dalla cronaca delle agevolazioni ‘mirate’ che hanno contrassegnato la crescita del debito pubblico e la separazione tra il parassitario e improduttivo paese legale e il competitivo e spesso ‘illegale’ paese reale, si può tentare di immaginare quale linea di azione possa essere la più redditizia per gli interessi di tutto il paese in materia di politica internazionale.

Si parla spesso di ‘bancarotta’ del paese come questa evenienza avesse un qualsiasi senso concreto. Un paese non può andare in bancarotta, esso può attraversare periodi di cambiamento di contesto internazionale che gli riservino conseguenze più o meno gravose rispetto alle opportunità che esso potrebbe sfruttare e che ogni cambiamento offre a qualsiasi sistema produttivo. In epoca di globalizzazione, la perdita del carattere di ‘nazionale’ da parte del sistema produttivo è elemento marginale nel contesto delle paventate ‘bancarotte’ e comunque è stato attraversato dall’Italia (come da altri paesi) più volte nella sua storia nazionale.

Le invasioni succedutesi del territorio nazionale e la partecipazione delle aziende italiane a sistemi produttivi di altri Stati Nazione non è una novità né ha distrutto la peculiarità delle aziende italiane fino ad oggi. In epoca di globalizzazione questa forma di appartenenza a sistemi produttivi difformi dallo Stato Nazione Italia risulta anche meno stigmatizzabile. Non per nulla esistono movimenti politici in tutta Europa che si prefiggono di ricostruire bacini di interessi industriali, economici e culturali che trascendano i vecchi confini degli Stati Nazione (avviati inevitabilmente su un percorso di graduale perdita di sovranità con devoluzione delle tradizionali competenze amministrative in due direzioni verso le istituzioni soprannazionali e verso le istituzioni territoriali interne) grazie a meccanismi decisionali pienamente democratici all’insegna dell’auto-determinazione.

Al progredire della globalizzazione, le industrie nazionali più competitive sono soggette a due tipi di azione. L’esodo dal paese caratterizzato dalla minore competitività stato-industriale. Ciò avviene per i grandi gruppi industriali da ENI, ENEL, Generali, BNL, Fiat, etc. che si aprono a partecipazioni azionarie e decisionali estere per la perdita di qualsiasi forma dei tradizionali sostegni illiberali alla loro competitività per conservarne il loro carattere di società-di-bandiera nazionale (finanziamenti di Stato, rottamazioni, accordi consociativi Confindustria-stato-sindacati, etc.).

L’altro tipo di azioni è invece seguito dalle aziende di proprietà familiare, dimensioni più piccole e detentrici di un elevato potenziale di know how, di flessibilità operativa e di adattività ambientale. Esse sono radicate al territorio più periferico ma trovano grande successo sui mercati internazionali senza dover subire quelle forme di vessazione economica loro imposte dai due protagonisti illiberali della storia dello Stato Nazione; la tassazione vessatoria, i vincoli sindacali, la sottomissione al sistema di ‘indotto industriale’, la inefficienza dei servizi erogati dallo stato.

Liberarsi da questi vincoli tradizionali compensa abbondantemente il tessuto più competitivo delle piccole e medie imprese industriali italiane delle nuove difficoltà che presenta, al fianco delle maggiori opportunità, il sistema più liberale del mercato globale. D’altronde nessuno degli altri Stati Nazione potrebbe sperare di esercitare tutele illiberali e selettive sulle proprie aziende nazionali a discapito di quelle italiane di maggiore potenziale utilità universale.

Tendendo a mente questo paradigma in cui viene percepita la sfida globale dalla stragrande maggioranza dei produttori di ricchezza italiani (manovalanza, maestranze, PMI, liberi professionisti, ‘lavoro nero’) si può capire come sia assolutamente poco credibile qualsiasi investimento che volesse tentare di dare sostegno alla produzione sottraendo risorse finanziarie alle aziende private (già in crisi in questo settore) per tentare un improbabile rilancio d’efficienza al sistema stato-industria che non ha mai dato risultati positivi e che ha solo favorito una fascia di aziende ormai in via di esodo dall’Italia o che comunque sono abbondantemente già internazionalizzate; oltre ad avere contribuito a indebitare il paese. Non c’è un adeguato tempo né uno stato credibile cui affidare le risorse necessarie per tentare un accelerato processo di ammodernamento strutturale del paese. Ammodernamento che comunque verrà imposto alle obsolete istituzioni d’interesse pubblico (stato, sindacati, banche, assicurazioni, energia) dall’estensione del contesto industriale globale ad includere nel sistema integrato anche gli ambiti produttivi più locali italiani.

Tutto qui, lo stigmatizzato fatalismo italico, la cinica sfiducia, lo scetticismo verso le istituzioni non sono altro che saggio accumulo di esperienza storica che ha insegnato che nessuna delle paventate catastrofi né delle minacce di provvedimenti repressivi provenienti dalle istituzioni di stato è mai degno di attenzione in quanto si tratta di messaggi dettati da opportunismo di conservazione di privilegi illiberali che inoltre si dovrebbero esercitare da parte di istituzioni inefficienti se non perfino corrotte e corruttibili in tempi così ristretti da renderne incredibile l’esecuzione perfino alle più efficienti istituzioni esistenti all’estero.

Interventi di legge finanziaria del tipo cui stiamo assistendo non solo risultano i meno dannosi tra quelli astrattamente proponibili da parte delle più elevate ‘menti sottili’ ma accelerano anche l’avvento in Italia di una governance che riuscirà ad imporre istituzioni amministrative più adeguate alla realtà globalizzata e più eque e moderne in Italia nei confronti delle aspettative e delle capacità della maggioranza dei produttori-consumatori-risparmiatori (PMI, maestranze, professionisti, etc.).

L’assenza di interventi strutturali da parte del legislativo agevola la permanenza in stato di inadeguatezza totale delle istituzioni del più giovane e inefficiente Stato Nazione che sta morendo senza alcun rammarico da parte dei suoi cittadini meno privilegiati.

È solo una fortuna che le opposizioni politiche (le ‘sinistre’ sindacali e nel legislativo) e le opposizioni intra-istituzionali (le molte ‘caste’ di giornalisti, magistrati, enti inutili o marginali, notai, generi di monopolio, etc.) sappiano bloccare così mirabilmente ogni tentativo istituzionale di ammodernare il sistema statale in Italia. Questa situazione di stallo (resistere, resistere, resistere) associata all’accelerazione con cui cresce la globalizzazione industriale riesce a rendere inutile qualsiasi tentativo di ammodernamento dall’interno che lo Stato Nazione tra i più inefficienti in Europa condurrebbe goffamente, troppo lentamente, a costi troppo elevati e con risultati certamente marginali se non perfino deteriori rispetto alle effettive esigenze di migliori servizi auspicate dal tessuto ghettizzato delle PMI.

Berlusconi e il suo redditizio gruppo industriale hanno già ammodernato in modo evidente sia il comparto di industria mediatico (TV, stampa, pubblicità, editoria multimediale, etc.), sia quello politico (ormai tutti sono federalisti, bi-partitici, pro- o anti- Berlusconi, ‘presidenziali’, etc.). Ora gli dobbiamo anche questo attendismo statale in materia di ‘programmazione industriale’ (che ha infettato irresponsabilmente per oltre cinquant’anni lo scenario italiano) e il suo dinamismo personale in politica estera. Oltre alla accelerazione di recupero all’economia legale delle risorse da sempre gestite dalle ‘mafie’ nell’ambito dei settori più ‘illegali’ dell’economia industriale (droga, prostituzione, bische clandestine, eco-mafia, contraffazione finanziaria e commerciale, etc.). Maroni e Frattini sono due eccellenti ‘spalle’ per Berlusconi in questa sua linea politica così come Tremonti è la sua insostituibile ‘spalla’ in materia finanziaria nazionale. Letta è l’eccellente Richelieu-Kissinger-Tayllerand che intrattiene relazioni diplomatiche con tutti i centri di potere ostili potenzialmente. Gli altri sono solo delle figure che in cinematografia sono chiamati figuranti (comparse, generici, cascatori, caratteristi, etc.) il cui ruolo è totalmente sostituibile senza gravi danni d’immagine o di continuità di azione. Il tempo che passa aiuta Berlusconi a giungere al momento in cui la stabilizzazione della governance globale saprà surrogare lo Stato Nazione di cui stiamo celebrando i centocinquant’anni di stentata e sofferta unità nazionale.

Se l’avvio della ‘liberazione’ è avvenuta con la caduta del sistema statalista e autoritario fascista nel 1945, la vera ‘liberazione’ sta arrivando in Italia con il crollo del regime illiberale e statalista del consociativismo DC-PCI-PoteriForti-Sindacalismo iniziato con Craxi, accelerato dal ‘crollo del muro’ e rallentato dalle caste di tutte le corporazioni parassitarie alla ricerca della tutela dei loro interessi particolari all’insegna dell’anti-Berlusconiano ‘resistere, resistere, resistere’ che è riuscito finora a impedire ogni tipo di riforma dello stato, della previdenza sociale e del diritto del lavoro ormai riconosciute ed accettate universalmente necessarie per ‘liberare’ l’Italia dai ‘lacci e lacciuoli’ che si oppongono alla fertile crescita economica promossa dalla libera manifestazione della creatività produttiva del ‘provincialismo’ italiano permanente nei millenni sotto ogni regime indipendentemente dall’’unità nazionale’ che non ha certamente gratificato il sistema Italia di alcun apporto di particolare simpatia (tranne forse il breve periodo del governo DeGasperi-Einaudi – presto spento dalle elite DC post-fasciste).