04/06/2010

Vitalità del capitalismo liberista: negazione della ‘crisi’ del sistema industriale

Si continua a parlare di ‘crisi’ del sistema industriale mentre stiamo assistendo all’incredibile dimostrazione di vitalità che ci fornisce lo stesso di reagire spontaneamente assumendo nuovi assetti organizzativi della produzione capaci di indirizzare la nuova governance globale ben al di là di qualsiasi capacità delle vecchie istituzioni nazionali e soprannazionali di progettare accordi di armonizzazione internazionale.

È stato il sistema industriale ad avviare la sua stessa graduale internazionalizzazione contro gli interessi e i vincoli che le istituzioni dei vecchi Stati Nazione hanno cercato di mettere in atto. È stato il particolare comparto d’industria ‘finanziario’ a escogitare i meccanismi tecnici che hanno raccolto sul libero mercato quelle dosi di risparmio che hanno alimentato l’industrializzazione globale della produzione e distribuzione di beni e servizi contro ogni tentativo che gli organi centrali d’emissione avessero potuto opporre a questa rivoluzione liberista imponendo di aderire alla vecchia regolamentazione dei flussi finanziari nel rispetto dei criteri che assicuravano la stabilità economica a ristretto beneficio dei sistemi stato-industria nazionali nel paradigma di reciproca competizione tutelata da forme di protezionismo.

In quest’ottica è facile capire che il sistema industriale NON stia attraversando alcuna ‘crisi’ ma che invece si stia assistendo alla ‘crisi’ del sistema istituzionale che curava la governance dei sistemi industriali nazionali che oggi si trovano costretti proprio per l’accelerato successo dimostrato dal sistema industriale globalizzato ad adeguare le procedure che garantiscano il loro ‘servizio’ a misura sia delle sue nuove esigenze produttive sia delle aspettative maturate dei consumatori e risparmiatori globali.

Il mercato essendo ormai stato esteso oltre i vecchi confini degli Stati Nazione, in esso trovano pari diritto di cittadinanza istanze di tutte le nazioni coinvolte nei nuovi processi produttivi. Ciò significa che il ‘mercato’ coinvolge le aspettative e le esigenze nutrite da una massa enorme di consumatori-produttori-risparmiatori di beni e servizi (tra cui quelli statali e politici) che è caratterizzata da un profilo di motivazioni totalmente diverse ma fortemente integrate dalla comune partecipazione alla stabilità del sistema industriale globale rispetto a quanto non siano invece i suoi tradizionali profili di adesione a schemi politici nazionali ancora frammentati ed appiattiti sulle più peculiari diversità religiose, culturali e etniche.

Le aspettative di maggiore benessere che possono essere soddisfatte dal sistema industriale nel paradigma del capitalismo-liberista che è trasversale e trasparente alle tradizionali motivazioni religiose, culturali e etniche cui si arroccano ancora le legittimità delle istituzioni dei vecchi Stati Nazione.

È insomma evidente per chi abbia occhi per vedere e orecchie per ascoltare chi stia vivendo la sua ‘crisi’ oggi tra il sistema industriale oppure il sistema delle istituzioni politiche nazionali; in tutte le nazioni al di là del loro regime politico o grado di sviluppo attuale.

Esiste anche un altro tipo di ‘crisi’ sollecitato dal trionfante successo dell’industrializzazione globale. Questo successo si manifesta con la riorganizzazione della catena delle fasi produttive su base internazionale che riesce a estendere la partecipazione ai benefici della produzione e diffusione della ricchezza a masse che fino a ieri ne erano escluse e risultavano in condizioni umanamente inaccettabili di diseredati di ogni diritto civile e politico. Ebbene la riorganizzazione delle fasi produttive su base transnazionale impone di affidare quelle più man-power intensive alle popolazioni più numerose e povere per accentuare ogni possibile innovazione tecnologica nei paesi più industriali poveri di mano d’opera ma ricchi di know how tecnologico. Ciò richiede da un lato forti investimenti a sostegno delle fasi più capital-intensive della catena produttiva e, d’altro lato, impone inevitabilmente una temporanea ‘congiuntura’ di esodo dalle vecchie mansioni trasferite ai paesi in via di sviluppo di maestranze che troveranno migliore occupazione e reddito in nuove mansioni produttive integrate al mercato globale ma che soffrono temporaneamente per la chiusura dei vecchi impianti e per la modifica che la nuova realtà occupazionale comporta per le abitudini comportamentali e culturali fino ad oggi regolamentate da procedure interne agli Stati Nazione. Procedure tutelate da privilegi ormai obsoleti alla luce delle nuove esigenze produttive imposte dalla competitività internazionale che è in corso di rapido consolidamento e che costringe le aziende a scelte innovative per localizzare i nuovi impianti produttivi.

È anche chiaro che le istituzioni nazionali, in ‘crisi’ per colpa del successo del sistema industriale, cerchino di addebitare i disagi ‘congiunturali’ al sistema industriale evidenziandone i soli aspetti di disagio (seppure congiunturali) senza evidenziarne gli aspetti positivi (in itinere per il rilancio del benessere ma già fruibili sul piano dei consumi più economici e diversificati).

Essendo nulla la capacità di controllo esercitabile dalle vecchie istituzioni degli Stati Nazione sul fenomeno della globalizzazione, è evidente che esse, prima di dichiarare la loro impotenza vogliano tutelare la propria legittimità arroccandosi a difesa di regimi di vita e abitudini comportamentali non più sostenibili sul piano economico stigmatizzando qualsiasi iniziativa che alimenti la crescita della globalizzazione.

Essendo le istituzioni degli Stati Nazione le uniche detentrici della legittimità di una governance obsoleta e incapaci di negoziare i lineamenti di una nuova governance, che sarebbe comunque gestita da nuove istituzioni soprannazionali, è comprensibile che esse tentino di frenare l’avvento del nuovo ordine globale gettando discredito sull’efficiente sistema industriale che ha generato la globalizzazione con i suoi benefici in via di consolidamento per tutti i paesi che vi partecipano e i suoi disagi ‘congiunturali’ in quanto dovuti alla sola fase temporanea della riorganizzazione delle cooperazioni produttive su scala mondiale.

Il getto di discredito avviene ipotizzando che i disagi siano la prova della ‘crisi’ finale del sistema produttivo il cui crollo, spesso predetto e mai verificato, è ormai imminente e richiede quindi di essere ‘modificato’ in modo da porlo in condizioni di ottemperare ai criteri vigenti nell’ambito dei sistemi stato-industria dei vecchi Stati-Nazione. È una ricerca di conservazione dei privilegi elitari di cui hanno goduto i paesi più industrializzati fino all’avvento della globalizzazione a spese del sottosviluppo di quelli meno sviluppati. È un atteggiamento privo di prospettive future e che propone un carattere reazionario più che conservatore a fronte dell’inaugurazione della fase più democraticamente estesa della produzione e distribuzione di benessere e di partecipazione ai principi del capitalismo-liberista; il fondamento della liberal-democrazia.

Insomma è chiaro che la ‘crisi congiunturale’ che stiamo attraversando è dovuta alla transizione dagli assetti produttivi pregressi a quelli più convenienti per tutti (ed obbligati dalla competitività) dell’era globalizzata dell’economia e che essa è una situazione di ‘crisi’ (disagio) che è tanto più rapidamente superabile quanto più le vecchie istituzioni corporative ottocentesche accettassero di abbandonare i vecchi e non più sostenibili privilegi sintetizzabili nel welfare state riservato ai cittadini del Nord a spese di quelli del Sud. Le vecchie istituzioni corporative dovrebbero a questo fine accettare un ruolo soprannazionale nell’ambito di istituzioni soprannazionali non ancora demandate di adeguati poteri da parte del potere politico degli Stati Nazione destabilizzati dal fenomeno travolgente della globalizzazione. Essi tentano ancora di ricavarsi in modo opportunistico e ‘locale’ spazi privilegiati nel contesto istituzionale in fieri sfruttando le proprie posizioni nel gioco condotto dai due paesi egemoni, USA e Cina.

Questo gioco è rischioso e protrae i rischi della transizione esaltati da una speculazione internazionale non più controllabile da alcuna delle vecchie e inefficaci vecchie istituzioni demandate a quel fine.

Fortunatamente l’esaltazione dei rischi e i disagi delle crisi congiunturali affliggono in modo alquanto indiscriminato e analogo tutti gli Stati Nazione più industrializzati. Tutti afflitti dall’insostenibilità dello stato sociale d’antan, anche se in intensità diversa commisurata alla diversa solidità dei loro sistemi stato-industria. La comune loro soggezione al rischio e ai disagi unita alla universale insostenibilità dello stato sociale ed alla crescente interdipendenza dei sistemi industriali nazionali, sta costringendo tutti i paesi e le loro istituzioni ad aderire a politiche interne sempre più compatibili con le esigenze del nuovo mondo industriale globalizzato. Ciò indipendentemente dal colore ideologico che li ispira (ormai sempre più privi di senso) o dalla loro adesione ad uno stesso sistema valutario.

Ciò che si può fare per alleggerire i disagi della transizione è attenersi solo a misure a carattere attendista ed ‘omeopatico’ confidando nell’avvento di un rilancio della crescita produttiva globale. infatti qualsiasi altra misura di intervento finanziario, anche gli investimenti in infrastrutture industriali, sottrarrebbe risorse alle aziende private e rischierebbe di produrre risultati troppo tardivi o perfino sproporzionati rispetto alle reali esigenze che emergeranno in ogni singolo paese a seguito dell’attesa crescita.

Interventi minimali lascerebbero la massima parte delle scarse risorse finanziarie a disposizione delle aziende private le quali, se non oberate da una fiscalità parassitaria e improduttiva, sapranno certamente adeguarsi al nuovo assetto che offrirà loro il mercato globale una volta consolidata la crescita.