03/03/2011

Stabilizzare la “globalizzazione industriale”

Dopo duemila anni di regimi istituzionali gestiti nella legittimità degli Stati Nazione nati col crollo della prima versione della governance globale (Impero di Roma), siamo appena riusciti a negoziare goffe forme di ‘libera circolazione’ di beni, servizi e persone col Trattato di Schengen firmato da un ridotto numero di Stati in un’Europa solidamente ispirata da principi culturali omogenei. Questa libera circolazione è sottoposta al rispetto di un complesso di regole che ne limitano i diritti eventualmente revocabili.

In questo spirito, sostenere che l’era della globalizzazione possa fondarsi sul criterio d’indiscriminata offerta d’‘accoglienza’ a emigranti da paesi spesso caratterizzati da enormi diversità culturali rispetto a quelli che li dovrebbero ‘accogliere’, è certamente un’utopia destinata a fallire dopo avere creato enormi conflitti sociali e dissipazione di risorse economiche.

Inoltre ipotizzare l’’accoglienza’ come criterio ispiratore della convivenza soprannazionale risulta incoerente totalmente con le stesse ragioni che hanno invece assicurato successo all’internazionalizzazione industriale.

Questo su un piano logico organizzativo.

Sotto il profilo umano poi, sostenere l’accoglienza e la massiccia libera circolazione delle persone, risulta anche un criterio individualmente e socialmente irrispettoso della dignità umana. Contrario quindi alle basi stesse su cui si fonda la civiltà ‘Occidentale’.

Mentre infatti ‘accogliere’ il viandante e ‘salvaguardare’ lo straniero o l’esule e perfino il singolo apolide è uno dei primari criteri su cui si fonda l’’ospitalità’, l’’accoglienza’ ai nomadi o alle masse di ‘migranti’ è avvertita come minaccia alla stabilità sociale delle comunità accoglienti. In altri termini, solo quantitativi di piccole dimensioni sono ritenuti compatibili con la stabilità sociale.

Nell’epoca della prima globalizzazione il segreto del consenso ricevuto dalle istituzioni di Roma nel mondo è risieduto nello spirito ‘federale’ in cui è progredita l’estensione della sua governance. I popoli vinti restavano autonomi nella loro cultura ‘locale’ purché accettassero pienamente la supremazia delle istituzioni di Roma come se costituissero una sorta di rete infrastrutturale di ‘tecnologie organizzative’ di interesse pubblico (da rispettarsi cioè universalmente). Rete infrastrutturale caratterizzata da componenti ‘tecnologici’ normativi e materiali capaci coi loro standard industriali di facilitare l’efficacia dei servizi essenziali per lo sviluppo delle attività economiche. Si aveva una rete amministrativa di governatori e pretori che erogavano e difendevano la ‘Giustizia di Roma’ – Pax Romana. Esisteva una rete di funzionari - prefetti, censori, questori, edili - che garantiva l’esistenza di standard tecnici uniformi per la manutenzione delle infrastrutture civili (acquedotti, strade, ponti, porti, immobili, etc.). Esisteva la rete centrale e periferica di zecche e una parallela rete fiscale di pubblicani che cercava di garantire i flussi finanziari necessari per lo sviluppo e la stabilità del sistema economico. Esisteva la rete di proconsoli e tribuni che assicurava la gestione diffusa di presidi militari dotati di addestramento, di equipaggiamenti ed il rispetto di criteri di impiego standard (armi, armamenti, opere di difesa ed offesa).

La prima globalizzazione ebbe termine proprio per l’implosione delle reti inadeguate ad assicurare stabilità al sistema produttivo che avevano sostenuto nelle sue fasi di nascita, estensione, consolidamento e crescita di diffuso benessere; la governance istituzionale fu superata dal successo del suo stesso sistema industriale.

Durante tutta l’epoca di Roma Imperiale il benessere si diffuse capillarmente senza richiedere massicce dosi di migrazioni interne. Ogni nuova conquista entrava nel sistema economico scambiando il valore dei propri apporti al precedente sistema che garantiva creazione di valore aggiunto grazie ai servizi di pubblica utilità di Roma Imperiale. La circolazione interna di persone era libera in quanto necessaria per scambiare i beni e i servizi ‘industriali’. Chi circolava all’interno del sistema Imperiale era garantito dalla lingua, dalle leggi, dal sistema di sicurezza, dalla moneta, dalle comunicazioni e dai servizi di ospitalità privati e pubblici (locande, terme, etc.).

Le orde ‘barbariche’ restarono confinate all’esterno dei confini del sistema ‘globalizzato’ finché il sistema stesso non implose per inadeguatezza della governance istituzionale che non riuscì a stimolare le oligarchie al potere ad innovarsi rispetto alle nuove esigenze, potenziale ed aspettative sociali.

Il medioevo in Italia vide l’assimilazione delle orde barbariche nell’ambito delle comunità ‘locali’ a spesa di processi disumani grondanti sangue e lacrime; non fu una scelta né meriterebbe di essere suggerita come tale.

Le orde di barbari che distrussero il tessuto culturale in tutta Europa furono una tragedia umana e sociale apportata da ‘volkswanderungen’ di ridotte dimensioni ma di enorme differenza culturale e di grande peso rispetto alla dimensione demografica delle comunità ‘accoglienti’.

L’epoca degli Stati Nazione istituì la legittimità della tutela della cultura ‘nazionale’ contro ogni invasione di etnie diverse. Il nazionalismo, il protezionismo, il razzismo e l’integralismo religioso hanno tutelato i diversi paesi nella costruzione di sistemi industriali che, gradualmente, hanno condotto alle soglie di un potenziale di crescita del benessere che richiede ormai di abbattere le vecchie frontiere per poterne fruire appieno.

La governance degli Stati Nazione è ormai inadeguata alle esigenze produttive ed alle diffuse aspettative dei consumatori globali.

L’avvento della seconda versione storica della globalizzazione industriale impone oggi di concepire criteri di governance che riescano ad assicurare la crescita del benessere senza imporre le tragedie sofferte dalla società a causa delle volkswanderungen medievali. Ciò è possibile e deve essere eticamente privilegiato rispetto ad altre soluzioni più ‘naif’ emergenti solo per l’assenza di adeguati criteri e strutture di governance globale.

Occorre che si possa configurare uno stile di governance che tenga conto di almeno tre fattori che sempre caratterizzano le diverse realtà sociali: la resilienza nei confronti dell’avvento del nuovo, il potenziale degli insediamenti, la specifica collocazione geopolitica. Il primo elemento presenta elementi culturali destinati ad indurre atteggiamenti politici ‘locali’ e trans generazionali di medio-lungo termine al cambiamento imposto da fattori ‘alieni’. Il secondo nasconde le aspettative, spesso sommerse, di fronte alle opportunità offerte ai cittadini attivi ‘locali’ da un fenomeno di carattere ‘esogeno’. Il terzo offre agli investimenti industriali tutti gli elementi di breve, medio e lungo termine sulla cui base programmare una gamma d’iniziative produttive idonee ad agevolare la sicurezza operativa, la stabilità politica e la gradualità del consenso nei confronti di una governance credibile, rispettosa ed efficace.

Questi elementi sono indispensabili in quanto, come avviene in ogni periodo di cambiamenti macroscopici e accelerati, le comunità ‘locali’ aumentano il loro atteggiamento di ‘prudente’ chiusura in sé alla ricerca di elementi di ‘continuità’ e di ‘stabilità’ per esse familiari nei comportamenti sociali sperimentati nel passato.

Di fronte all’avvento di fenomeni esogeni, incontrollabili dalle istituzioni preposte alla governance nazionale e fortemente destabilizzanti le abitudini interne, è ‘naturale’ che le comunità ‘locali’ consolidino il consenso attorno alle istituzioni politiche ‘locali’ costringendo quelle ‘nazionali’ ed inadeguate a ‘devolvere’ parti delle loro competenze alla periferia caratterizzata da maggiore disomogeneità di esigenze e di aspettative.

Si innesca un processo di ‘catastrofe’ istituzionale che viene denominato in modo erroneo ‘federalismo’ in quanto si tratta di un fenomeno che procede in senso inverso all’aggregazione ‘nazionale’ di precedenti ed ‘autonome’ entità.

È un processo di consolidamento ‘locale’ di sottosistemi socio-economici che formano una sorta di ‘placche’ quasi-stabili del vecchio sistema destabilizzato che smottano liberandosi dai vecchi vincoli cercando nuovi assetti sui quali consolidare una stabilità smarrita; questo fenomeno è quello che avviene in Natura in ogni sistema complesso dotato di sollecitazioni al cambiamento.

Questo fenomeno ‘naturale’ di devoluzione dalle istituzioni centrali del sistema nazionale verso quelle locali e periferiche, innesca inevitabilmente un analogo fenomeno nei confronti di eventuali, incipienti istituzioni soprannazionali. Infatti si tratta di una destabilizzazione istituzionale che mentre procede in senso ‘federale’ con immediatezza in quanto dispone di ‘tradizionali’ vincoli di passate e consolidate relazioni locali, ricerca in sede soprannazionale l’esistenza di ogni possibile affinità sulla quale fondare comportamenti politici più efficaci nei confronti del fenomeno che risulta sempre meno ‘esogeno’ al crescere del livello gerarchico che ispira la ricerca di istituzioni cui affidare una nuova governance concertata su accettabili basi di credibilità.

Visto dall’alto ogni sistema complesso vive costanti fasi di diversa intensità di riassetto della configurazione di stabilità che, mentre ne conserva la forma complessiva di struttura gerarchica e piramidale, ne modifica in modo drammatico la configurazione interna; è insomma una costante ‘catastrofe’ (cambio di forma) che gode di una ‘legge naturale’ di spontanea ricerca di stabilità che giustifica la denominazione di sistemi critici auto-stabilizzanti.

Dopo queste premesse di carattere ‘scientifico divulgativo’ che occorre tenere sempre presenti nella ricerca di assicurare una governance pragmatica e credibile ai sistemi complessi, potrebbe esaminarsi l’evoluzione dei processi geo-politici in corso sia nelle loro dimensioni ‘locali’ sia in quelle ‘gerarchicamente superiori’ (G2, G8, G20, etc.).

Ciò che avviene infatti ai livelli intermedi (UE, NATO, NAFTA, etc.) inevitabilmente risulta più lento e meno efficace rispetto alla velocità con cui procede l’avvento del fenomeno ‘internazionalizzazione industriale’ (esogeno rispetto a tutte le vecchie istituzioni degli Stati Nazione e dei loro accordi soprannazionali: ONU, NATO, FMI, BMI, etc.) che ha imposto la ricerca del ‘nuovo ordine globale’ pervadendo diffusamente ogni realtà politica. Ciò che avviene prioritariamente è una ‘tenaglia’ di processi che potranno successivamente creare i prerequisiti per agevolare la ricerca di nuove istituzioni governance intermedie (regionali). In altri termini confidare nell’efficacia delle attuali istituzioni soprannazionali come l’UE per assumere scelte di fronte ad eventi ‘locali’ ma fortemente coinvolgenti in modo diverso per le singole realtà nazionali, è solo un demagogico attendismo in assenza di adeguato consenso interno; come avviene in Italia di fronte ai ‘regime change’ che hanno luogo in Nord Africa.

Trascurando quanto avviene in sede gerarchicamente superiore (G2) rispetto alla destabilizzazione in corso nei singoli paesi islamici in quanto gli interessi di Cina ed USA collocano i singoli regime change in contesti di interessi finanziari, industriali e commerciali totalmente estranei alle realtà più ‘regionali’, possiamo dare una chiave di lettura ‘omogenea’ con la quale cercare di comprendere quanto sta avvenendo in Nord Africa.

In piena analogia con ciò che accade in paesi più industrializzati (Balcani) o con ciò che accadde in epoche passate all’avvento di fenomeni di traumatici cambiamenti sociali (Riforma in Europa).

Il Nord Africa (dall’Egitto al Marocco) si compone di enormi estensioni territoriali ricche di materie prime, che spesso costituiscono la fonte principale di reddito nazionale, e di popolazioni non numerose residenti in estensioni territoriali molto ridotte attorno alle poche aree che hanno consentito nei secoli lo sviluppo di tipi di economia pre-industriale (la lunga striscia del Nilo e la lunga ma ridotta fascia costiera dal delta del Nilo a Gibilterra.

Attorno a queste limitate fasce di stabile densità demografica, si è sviluppata nei secoli una cultura ‘locale’ a carattere tribale che è stata tradizionale anche in Europa o nei Balcani prima dell’avvento della rivoluzione industriale nell’’800. In Italia, in Irlanda, nell’Est Europa la struttura delle istituzioni politiche ha ereditato lo spirito ‘tribale’ attorno alle famiglie egemoni del potere economico e culturale ‘locale’ fino a tutt’oggi non ostante i loro necessari ‘adattamenti’ formali alle esigenze organizzative del mondo industriale (sindacati, partiti, associazioni, etc.). Lungo la tradizione del ‘tutto cambi affinché nulla cambi’ del principe di Salina si è sviluppata anche in Europa una cultura politico-istituzionale all’insegna del ‘meglio testa di sardina che coda di pescecane’.

Questa cultura politica ‘locale’ che è presente anche in Europa, è egemone in tutti i paesi pre-industriali ma coinvolti dalla industrializzazione globale a ritmi accelerati e traumatici per i loro assetti più tradizionali.

Il processo ‘esogeno’ della globalizzazione garantisce l’apporto di reddito a ciascuno dei sistemi istituzionali dei paesi in questione. Paesi che per analogia del fenomeno includono anche taluni di quelli ubicati in altre aree e in modo particolare quelli adiacenti l’area geo-politica del Nord Africa (Libano, Siria, Arabia Saudita, Kuwait, Oman con l’esclusione degli Emirati Arabi Uniti, dell’Iraq e dell’Iran i primi per il ruolo del Dubai nell’ambito della Wall Street Estesa che ha ormai consolidato i suoi legami tra Medio Oriente e G2, i secondi per i loro stretti legami tra Europa e Asia Centrale che li rende totalmente critici per lo stesso G2).

I paesi del Nord Africa invece sono in grande misura estranei agli interessi geo-strategici del G2 concentrati più nell’Africa continentale sub-sahariana cui appartengono analoghe realtà ‘locali’ come la Somalia o Ciad, Gabon, Zimbabwe, Eritrea e perfino il Sudan.

In tutti questi paesi destabilizzati dall’irreversibile globalizzazione, i ‘capi tribù’ locali restano solidi punti di riferimento per le popolazioni stabilmente residenti e possono trasformarsi rapidamente in determinatissimi e crudeli ‘signori della guerra’ qualora avvertano di perdere il loro potere politico locale e i privilegi associati alla spartizione delle nuove fonti di reddito nazionale provenienti dal fenomeno nuovo, redditizio ed esogeno ma condizionabile nella sua stabilità tramite aumento del ‘rischio politico’ incombente sulla stessa sua fonte ed innescabile dal loro grado di disponibilità di assicurare consenso politico. Ciò vale per ogni giacimento di risorse minerali e energetiche ma anche per i transiti degli oleodotti, gasdotti e un domani per gli acquedotti che costituiranno un potente mezzo per assicurare la stabilità degli insediamenti socialmente significativi.

Se si stanno disgregando i sistemi istituzionali della vecchia governance concordati nell’agonizzante periodo degli Stati Nazione (il post-colonialismo coi confini ‘nazionali’ astratti di stampo europeo attribuiti ad intere regioni geografiche – in Nord Africa ne è esempio l’unione di Cirenaica e Tripolitania così come in Asia ne è esempio la divisione di India e Pakistan o l’unione di Pakistan e Bangladesh coll’’omissione’ del Kashmir dei Sikh), è naturale si tenti di ricostruire un’accettabile, nuova configurazione di stabilità istituzionali partendo proprio dai ‘capi tribù’ per evitarne la conversione in ‘signori della guerra’ ostili alla sicurezza degli interessi industriali globalizzati e acquisirli invece nel ruolo di protagonisti egemoni della politica ‘locale’ in funzione di garanti della crescita del benessere economico nella conservazione della continuità del consenso sociale.

I potenziali ‘signori della guerra’ sono ben noti di nome a chiunque visiti o viva nelle varie comunità locali, la loro corruttibilità (come quella d’ogni buon politico ‘di razza’ in ogni epoca e paese) è provata da millenni di esperienza, i referenti quindi di qualsiasi negoziazione di do-ut-des che rendano accettabile per la stabilità della governance globale un assetto di stabilità istituzionale ‘locale’ sono facilmente individuabili.

Ciò che non è ancora disponibile è un solido e credibile criterio che sostenga la negoziazione dei rapporti tra le esigenze in fieri della globalizzazione industriale (in quanto ancora ‘in fieri’) e le aspettative delle diverse comunità ‘locali’ (che spesso sono composte da miscele d’incompatibili aspettative di continuità culturale e di rapida crescita di benessere – ‘aspettative’ spesso ‘sommerse’ e nutrite da protagonisti vecchi e nuovi in reciproco conflitto che devo essere accompagnate ad emergere fino a esprimere ‘richieste’ che possano essere prese in considerazione e di cui si possa programmare la soddisfazione negoziata secondo procedure capaci di assicurare stabilità, credibilità ed efficacia alle nuove istituzioni politiche ed alle loro relazioni.

Ma allora diventa chiarissimo il motivo che conduce oggi ad un’apparente impasse istituzionale di fronte al propagarsi di casi crescenti di regime change da parte delle istituzioni dei vecchi Stati Nazione ‘Occidentali’.

Queste istituzioni infatti stanno sperimentando i limiti della loro efficacia d’azione sia alla luce delle proprie comunità nazionali (in fase di chiusura in sé di fronte alla perdita di vecchi assetti sociali ed economici dai quali dipendeva il benessere fruito nel criterio della legittimità dei welfare state), sia alla luce degli interessi industriali nazionali (grazie all’esodo dei principali gruppi industriali o comunque ai loro nuovi rapporti ed alle delocalizzazioni industriali) nel nuovo contesto geopolitico globale in cui i vecchi ruoli dei sistemi stato-industria nazionali hanno perso il peso originario e sono ancora alla ricerca di consolidarne uno nuovo ed accettabile dai partner più competitivi che affollano il sistema industriale globalizzato (Cina, USA, India ma anche Dubai, Hong Kong, Singapore dove si sono estese le procedure preposte alle decisioni finanziarie che un tempo erano privilegio della City di Londra, di Zurigo, di Wall Street e di Chicago).

Sotto questo aspetto ci sarà da ridere quando un ‘signore della guerra’ della Tripolitania come Gheddafi avrà raggiunto un accordo di nuova stabilità in Libia con gli altri 4 o 5 ‘signori della guerra’ della Cirenaica dopo che i vari Obama ‘change-yes-we-can’ si saranno sbilanciati unilateralmente e dovranno rivedere quindi le loro posizioni oppure distruggere il nuovo ordine nazionale di quel paese così importante per le forniture energetiche.

Un mondo sta celermente morendo e i vecchi protagonisti stanno cercando di costruire le linee di stabilità a sostegno della governance del nuovo sistema industriale cominciando a negoziare in gerarchia le sfere dei propri nuovi interessi (G2 e Wall Street Estesa).

Solo quando questi primi accordi avranno raggiunto un consenso, su di essi potranno poi poggiarsi gli accordi dei protagonisti ‘regionali’ caratterizzati da un grado di minore competitività e da un peso politico in relazione con essa. Non conviene accelerare l’intervento ai livelli gerarchici inferiori (come è in corso in Egitto, in Libia e in analoghe realtà di terzo livello) da parte dei protagonisti primari (Cina e USA). Né è possibile che essi siano surrogati in quelle dinamiche da paesi gerarchicamente di terzo livello (UE o Russia).

Occorre attendere il tempo necessario perché il sistema industriale si integri con l’offerta della governance nella sua gerarchia di sviluppi. Ogni tentativo di accelerazione richiederebbe l’aggregazione a quello scopo di protagonisti di peso politico secondario i quali attualmente sono in reciproca competizione anche se legati da relazioni economiche istituzionalizzate (l’UE è uno dei casi emblematici). Ogni tentativo di aggregare in una coalizione politica questi interlocutori gerarchicamente di peso secondario è destinato a fallire per le ostilità che esso solleva all’interno dei promotori del tentativo (tra Francia e Germania ad esempio) o nella cerchia dei più immediati partner (UK e Italia ad esempio) o nella schiera degli ulteriori partner che formano il valore aggiunto della ‘coalizione’ (ad esempio la Spagna, l’Irlanda, i paesi dell’Est Europa, la Grecia). Una volta innescata questa competizione politica all’interno della potenziale ‘coalizione’ i protagonisti di peso maggiore si trovano privi della credibilità necessaria per negoziare verso i presunti protagonisti di livello gerarchico superiore già egemoni sullo scenario politico. Spesso inoltre mancano le risorse finanziarie che permettano di consolidare un’armonia politica all’interno della coalizione economica (fallimento della costituzione europea e delle iniziative concertate nei confronti stessi di eventi internazionali più occasionali (come il caso di Egitto e Libia oggi). La mancanza di credibilità e di efficacia dei tentativi di convertire la coalizione dal suo assetto di istituzione economica in istituzione politica diminuisce il consenso politico delle comunità afflitte dalle conseguenze immediate degli eventi (sbarchi a Lampedusa). Le comunità afflitte dagli eventi si rintanano ancor più in atteggiamenti ‘localisti’ e in scelte istituzionali di spirito ‘federale’. Ogni tentativo statale di ostacolare queste ‘naturali’ tendenze alla devoluzione di responsabilità e risorse alle istituzioni ‘locali’ assume l’aspetto di insensibilità nei confronti dei ‘propri cittadini’ e di connivenza con gli alieni che vengono così ‘percepiti’ come barbari distruttori del benessere e dell’armonia sociale.

Si otterrebbe la conseguenza più ‘moderna’ della diffusione del benessere industriale; portare opportunità di crescita alle comunità più periferiche anziché sradicare da esse il capitale umano di maggior valore (i giovani emigranti) e costringere gli emigranti e le comunità accoglienti a subire dolorose esperienze di assimilazione dei ‘diversi’ con destabilizzazione sociale di entrambe le comunità – sia di emigrazione e di immigrazione.

Le comunicazioni oggi son più che mature per soddisfare la percezione d’appartenenza dei giovani al nuovo mondo globalizzato così come esse sono più che mature ed accessibili economicamente in ogni località da permetterne l’impiego a sostegno della cooperazione industriale in quasi tutti i comparti economici (media, turismo, trasporti, commercio, formazione professionale, educazione primaria e secondaria, edutainment, etc.). Le reti Wi-max e quelle virtuali offrono capillarmente opportunità sociali, politiche e industriali alle giovani generazioni senza obbligarle alle disumane emigrazioni di massa e volkswanderung di un passato troppo stentato da proporne la replica al Sud qualora non indispensabile per la crescita della qualità di vita. Un passato inoltre che il Nord è riuscito ad assorbire sull’arco di varie generazioni mentre oggi la rapidità in cui procede la globalizzazione imporrebbe l’assorbimento nell’arco di pochi decenni; una fonte di traumi e di ‘conseguenze post-traumatiche’ per la psiche individuale e di gruppo – terrorismo e delinquenza.

Cosa fare allora?

Il problema è chiaro ma non risolubile senza l’accettazione del cambiamento in corso dei pesi di importanza geopolitica tra i vecchi Stati Nazione.

Qualora questi accettassero il fenomeno nel suo procedere gerarchico sarebbe allora possibile ‘non ostacolare i due conduttori privilegiati’ (il G2); ‘escludere ogni ricorso a vecchie istituzioni soprannazionali’ (NATO, ONU, etc.); concordare provvedimenti e soluzioni comunitarie per intervenire negli eventi occasionali (Libia, Egitto, Tunisia, etc.); strutturare quegli interventi sulla base della sicurezza reciproca e tutela del benessere delle comunità ‘locali’ afflitte dal tracollo istituzionale (impiantare centri attrezzati di assistenza civile nelle specifiche comunità afflitte aprendone i servizi per la durata delle emergenze a tutti i potenziali migranti); negoziare quegli insediamenti con i rispettivi ‘capi tribù’ locali ispirandone l’insediamento in una evoluzione successiva di cooperazione industriale allo sviluppo di lungo termine che coinvolga i leader locali a sostenere le iniziative a fronte di benefici personali percepibili ed al consolidamento del loro consenso politico; avviare joint venture tra aziende comunitarie e locali di piccola e media dimensione attorno ad iniziative di sviluppo industriale di più ampio interesse industriale (trattamento acque, gestione idrica, servizi e impianti rurali, trasporti merci, produzione energetica, manutenzione impianti locali, sistemi Radio-TV, etc.).

Questo sul fronte degli eventi occasionali di destabilizzazione delle istituzioni politiche locali.

Sul fronte invece delle relazioni industriali di più lungo respiro e dimensione economica occorrerebbe fare una riflessione su ciò che la globalizzazione industriale ha creato col suo successo.

L’aumento di risorse energetiche è stato travolgente, la diffusione del benessere economico è stata rapida e universale creando richieste enormi di prodotti e servizi. Queste ultime richieste hanno sollevato grandi aspettative di cambiamento nelle abitudini e nei consumi presso le giovani generazioni trasversalmente ai due sessi. I consumi di generi di lunga durata (abbigliamento, apparati, impianti, strumenti, etc.) sono stati soddisfatti dalla aumentata produzione e scambi commerciali di beni e servizi industriali. I consumi invece dei prodotti alimentari non ha trovato adeguata soddisfazione da parte delle eccedenze produttive del Nord per il protezionismo che caratterizza il comparto d’industria rurale. Le resistenze opposte all’introduzione in servizio degli OGM e delle tecniche di conservazione dei generi alimentari hanno impedito il salto di qualità nella produzione di derrate alimentari ‘localmente’ nei paesi in via di sviluppo frenando anche la diffusione delle nuove tecniche e tecnologie di produzione energetica, di trattamento e di gestione delle risorse idriche.

L’energia, oltre che la ‘finanza’ è l’unico limite allo sviluppo della globalizzazione a-misura d’uomo. Infatti, avendo disponibilità di energia a basso prezzo, l’acqua sarebbe accessibile pressoché ovunque e molte produzioni di prodotti rurali più Manpower intensive potrebbero essere de-localizzate in località periferiche (in Africa, in Sud America, in Asia, in Ucraina) mentre le produzioni rurali più capital intensive potrebbero restare concentrate nei paesi più dotati di alte professionalità e know how industriale (Canada, USA, Nuova Zelanda, Australia, etc.).

Questa ‘rivoluzione finale’ della globalizzazione industriale avverrà certamente e avvierà l’era della logistica industriale, dopo quella della produzione manifatturiera, dell’industrializzazione dei tradizionali comparti di industria, della finanziarizzazione delle produzioni industriali (attuale fase preliminare della globalizzazione industriale).

Infatti, una volta decise le forme di delocalizzazione e le venture produttive in ogni comparto d’industria, il Nord dovrebbe sviluppare su base globale le reti tecnologiche infrastrutturali a sostegno della loro massima redditività economica e finanziaria sul mercato globale. Ciò è possibile sul piano tecnologico e organizzativo e manca solo della volontà e stabilità politica; un bene di cui occorre attendere pazientemente l’avvento dalle negoziazioni in corso della nuova governance globale.

Le reti Wi-max consentono ormai di produrre e distribuire ovunque veicolo privati e industriali attrezzati di ogni mezzo d’accesso ai servizi a valore aggiunto via satellite; vedi l’accordo Ford-Apple per il sistema Sync. Ma vedi anche le tendenze dei massicci investimenti strategici dei gruppi finanziari su aziende fino a pochi anni fa inesistenti JPMorgan-Twitter e Skype, GoldmannSachs-FaceBook, etc..

La multimedialità virtuale ha ormai consolidato sistemi personali di visione tri-dimensionale già in uso per applicazioni militari in tempo reale (head up display nei caschi dei piloti).

Le tecniche di simulazione in tempo reale di addestramento professionale consentono ormai la formazione in operazioni distruttive o di eccessivo rischio in campo militare, chirurgico, manutenzione di impianti, etc..

Le comunicazioni integrate digitali associate alle macchine a controllo numerico come attuatori e alle tavole di progettazione industriale degli apparati tecnici consentono di trasmettere le specifiche di costruzione delle singole parti degli impianti in opera presso le locazioni più periferiche e di pensare alla produzione remota in loco evitando la lunga e costosa catena logistica tradizionale e la disponibilità del know how necessario nelle località di uso dei macchinari.

Si tratta di elementi ormai rodati e collaudati che consentirebbero d’implementare molte filiere logistiche industriali secondo concezioni innovative ed adeguate a garantire efficienti, costless e redditizi servizi della logistica industriale in criteri gerarchici per la disponibilità delle conoscenze specialistiche necessarie ad assicurare l’intenso uso ed ammortamento degli impianti produttivi.

Questi progressi industriali sarebbero il mezzo più rapido e socialmente accettabile per ridurre il costo dei nuovi sistemi produttivi e distributivi ed accelerare quindi l’avvento di maggiore benessere e sua più diffusa distribuzione nelle comunità più periferiche.

Il domani per l’umanità è roseo, ciò che non riesce ancora ad adeguarsi e collaborare sono i servizi ‘politici’ alla produzione industriale per garantirne la stabilità e la sicurezza delle operazioni su un mercato che ha bisogno della governance per poter erogare appieno il suo potenziale di benessere e qualità di vita. Si ripete il ciclo che caratterizza la crescita della civiltà ‘Occidentale’; 1) la creatività dei tycoon industrializza le nuove tecnologie in ‘soluzioni’ che presentano una diffusa pratica utilità tale da appagare la domanda già matura (anche se spesso sommersa ed inespressa) presente in un mercato sociale vasto ed oltre ogni vecchio confine legale e territoriale) di maggiore libertà individuale e qualità di vita, 2) la competizione industriale, libera di esprimersi su un mercato totalmente nuovo, riesce a proporre beni e servizi per l’accesso a quelle soluzioni da parte di ampie fasce di nuovi consumatori che, aderendo, maturano nuove aspettative e stili di vita, 3) le nuove aspettative della società esercitano crescenti pressioni politiche sulle vecchie e inadeguate istituzioni distruggendone la ‘naturale’ tendenza a conservare i vecchi assetti e procedure operative, 4) le destabilizzate istituzioni crollano traumaticamente (rivoluzioni) oppure riescono a modificare i vecchi assetti in modo da negoziare forme nuove di governance più confacenti con le nuove esigenze industriali ed aspettative sociali.

È l’economia che conduce il progresso con un ruolo-guida privo di criteri condizionati da astratte dottrine ideologiche: ‘it’s the economy, stupid!’.