03/02/2010

Sterili opposizioni alla trionfante Globalizzazione

La globalizzazione dell’economia industriale è un fenomeno che garantisce una crescita del prodotto interno lordo globale (PIG – per fornire un assist a chi invece di adeguarvisi ne vuol rallentare l’avvento per tutelare vecchie posizioni corporative di comodo; ormai parassitarie) di dimensioni inimmaginabili nello scenario geo-politico dell’era degli Stati Nazione. Un’era avviatasi al crollo dell’Impero Romano che aveva unificato l’Orbe Terraqueo sotto un’unica infrastruttura legislativa, giurisprudenziale, logistica, di sicurezza e sotto un’unica lingua il “latino” in uso nella ricerca e nella formazione accademica fino a tutto il 1700 in campo globale. Il progresso civile e economico assicurato dalla civiltà ‘Occidentale’ ha garantito la graduale crescita delle libertà individuali e di benessere disponibile nei Paesi industriali, ormai sommersi dall’abbondanza dei consumi sia primari sia “superflui” (concetto che, fortunatamente, la civiltà ‘Occidentale’ riserva al giudizio più personale e soggettivo – l’essenza del concetto di libertà). Questo indiscutibile successo implementato nel passato ha condotto a restringere la fruizione dei consumi ai soli paesi più industriali creando due situazioni illogiche e illiberali (pertanto “illegittime” alla luce del paradigma liberal-democratico sia razionale che etico) sul piano globale. Infatti, sotto il profilo razionale, restringere ai soli “consumatori” dei Paesi più industriali la fruizione dei benefici economici (beni) e istituzionali (servizi) offerti dal capitalismo-liberista col progresso tecnologico e organizzativo libero da criteri di giudizio ideologici sull’esercizio delle libertà individuali, non è compatibile con l’uso efficiente delle risorse che anima il cuore del capitalismo-liberista. Infatti investire oggi le risorse finanziarie prodotte e raccolte in ‘Occidente’ nelle sole imprese residenti in ‘Occidente’ risulta meno redditizio rispetto al “delocalizzare” nei Paesi più popolosi fasi di produzione più manpower-intensive che, oltre ad abbattere il costo complessivo dei beni e servizi prodotti, fornisce disponibilità di reddito al mercato di consumatori più vasto mai esistito. Un mercato che, inoltre, fino ad oggi è stato escluso per ragioni geo-politiche dalla partecipazione ad ogni consumo che caratterizza la civiltà ‘Occidentale’; dai consumi primari (beni e servizi del benessere economico), ai servizi istituzionali liberal-democratici (servizi delle libertà civili). Un’esclusione inevitabile finché l’indigenza afflisse le popolazioni degli Stati Nazione più industriali la cui espansione globale fu dettata dal motivo di consolidare le loro autonomie sul piano economico-industriale con la creazione delle Compagnie delle Indie, con la creazione degli Imperi Coloniali e con la creazione delle aziende multinazionali dei monopoli e dei “cartelli”. Una volta giunto il progresso industriale a quella fase, i gruppi multinazionali hanno trovato gradualmente sempre maggiori opportunità di crescita su dimensioni di mercato che trascendevano i ristretti confini geo-politici degli Stati Nazione. Si è avviata l’era industriale soprannazionale in cui le scelte di investimento erano prese dai CdA (gli Headquarters) in un quadro logico che teneva in sempre maggiore considerazione l’espansione all’estero a-spese dell’occupazione nazionale per perseguire puri obiettivi di redditività dell’investimento. S’era avviata la discrasia tra le ragioni dell’industria (non ideologiche, non settarie, non nazionaliste, non etnocentriche – in definitiva prive da tipi di razzismo) e quelle istituzionali degli Stati Nazione (corporative, nazionaliste, etnocentriche, ideologiche – in definitiva ricche di fattori di discriminazione “conservatrice” sulle scelte di investimento). Né la razionalità né l’etica liberal-democratica legittimano le “resistenze, resistenze, resistenze” conservatrici, settarie e discriminanti che le corporazioni privilegiate da benefici ormai puramente parassitari pongono in atto per contrastare la fase della globalizzazione industriale. L’unico strumento che riscatta dall’indigenza moltitudini di diseredati fino ad oggi condannate alle carestie, alle epidemie e, soprattutto, alla oppressione di regimi autoritari. L’unico strumento, inoltre, che apre ai Paesi più industriali mercati di dimensioni tali da garantire enormi crescite di reddito futuro (purché sappiano convertire l’offerta occupazionale interna verso produzioni che risultino sinergiche e complementari con quelle “mature” che conviene nell’interesse di tutti “delocalizzare” nei Paesi di nuova industrializzazione).

Dopo questa premessa la rubrica vorrebbe evidenziare qualche patetica forma di “resistenza” all’avvento dell’innovazione industriale: OGM, ENI, Alcoa, Fiat, Enel, Telecom. Per ciò che concerne l’Italia ma anche Cina, Iran e Venezuela per ciò che concerne le relazioni internazionali. Tutte “patetiche” per la certa sterilità dei possibili sviluppi pratici e per l’intrinseca incoerenza tra le loro rivendicazioni.

Il “caso Alcoa” risulta totalmente incoerente con l’opposizione agli impianti nucleari che ha costretto Enel a investire all’estero parte delle sue risorse in impianti nucleari a beneficio dell’occupazione di altri Paesi della Unione Europea dai quali importa poi a condizioni meno gravose di quelle di mercato le forniture di energia necessarie per soddisfare le richieste dei consumi nazionali. La produzione di alluminio è una di quelle i cui processi sono di maggiore consumo energetico. Negli scorsi lustri i crescenti costi dell’energia in Italia si è consolidata la scelta di realizzare i prossimi impianti produttivi in Paesi nei quali quella risorsa produttiva sia più economica in sedi che siano collegate da una rete internazionale di trasporti ai mercati di maggiore richiesta di quella risorsa di base per aziende industriali che ne curano la trasformazione intermedia. Oltre a ciò la scelta è influenzata da altri parametri quali la produttività degli addetti alla produzione, la flessibilità del diritto del lavoro, l’efficienza dei servizi giurisdizionali ed amministrativi (stato) che hanno riflessi sullo specifico comparto produttivo, l’efficienza dei servizi bancari, gli oneri fiscali sulle imprese industriali. Fino ad oggi l’esistenza di impianti non ancora ammortizzati pienamente in Italia ha permesso a Alcoa di restare in Italia anche per la “compensazione” (illegittima per l’UE alla luce della libera concorrenza interna) offerta dai vari governi a sostegno degli approvvigionamenti energetici (a spese dei contribuenti italiani). Maggiori spese energetiche per l’economia nazionale sia per rifiuto a costruire nuovi impianti energetici competitivi, sia per importare le risorse necessarie alla produzione, sia per “corrompere” le industrie estere a spese dello stato per conservare la “pace sociale”. È una strategia che è evidente sia perdente in quanto genera un cash flow negativo destinato ad aumentare il debito nazionale e sia fonte di perdita di competitività industriale e quindi di perdita inevitabile di posti di lavoro in quanto al crescere della globalizzazione e della libertà di circolazione di capitali e risorse produttive il numero di aziende che troveranno sempre meno attraente sarà destinato a crescere.

Il “caso OGM” è ancora più patetico. Le OGM sono già oggi accettate nella maggioranza dei Paesi industriali ed hanno il privilegio di richiedere minori quantità di prodotti chimici e di associati minori sprechi di acqua per irrorarli. Inoltre le OGM sono costantemente rinnovate al fine di aumentare la qualità e la resa delle produzioni per ettaro coltivato. Le coltivazioni OGM sono più resistenti ai contaminanti naturali e non generano contaminazione delle produzioni tradizionali (né di quelle biologiche, né di quelle ibride). ENI e gli altri gruppi di multi-utility hanno interesse ad investire le proprie risorse nel potenziamento delle reti di distribuzione e trattamento delle risorse fondamentali per abbattere i costi del comparto industriale rurale tra cui acqua e gas sono i principali. La produttività rurale italiana è erosa dalle configurazioni territoriali ma è agevolata dalle condizioni climatiche e dalla elevata specializzazione e qualità delle produzioni. Il solo modo per aiutare il comparto rurale a crescere in occupazione e reddito risiede nell’innovazione delle risorse primarie (tra cui le OGM) che riducano i costi idrici ed energetici per quantità prodotte. Il know how che costituisce il valore aggiunto della qualità prodotta da questo comparto industriale non può essere disperso né industrializzato sul mercato dei consumi per non perdere in termini di costo/qualità la sua competitività a fronte di produzioni di massa più facilmente standardizzabili tramite industrializzazione dei processi. Gli addetti alla produzione rurale in Italia non sono sostituibili né convertibili dalla tradizione artigianale alle esigenze di una distribuzione di massa a costi ridotti. Liberalizzare il comparto delle utility dalla gestione delle risorse primarie (dighe, bacini idrici, immagazzinamento liquido di gas), alla rete di distribuzione e dei centri di trattamento della risorsa (depuratori, acquedotti, gasdotti, aziende di distribuzione territoriali) fino all’abbattimento dei costi di erogazione/manutenzione/fatturazione agli utenti finali è la principale risorsa per riuscire a dare sostegno alla competitività del comparto sul mercato. Il mantenimento del know how rurale negli insediamenti diffusi delle molte produzioni di qualità che caratterizzano il comparto industriale rurale in Italia richiede inoltre di agevolare l’innovazione degli immobili abitativi e produttivi per aumentare la disponibilità delle giovani generazioni a continuare una produzione organizzata fondamentalmente su basi familiari. Invece le agevolazioni per nuove costruzioni sono ridotte e gli ostacoli di ordine paesaggistico e fiscale sono eccessivi mentre le tariffe di acqua ed energia non sono commisurate all’effettiva credibilità di programmi di investimenti industriali destinati a confidare su un programma di ritorno sugli investimenti che sia competitivo con altre opportunità di investimento o ad analoghe in Paesi diversi dall’Italia. Per non parlare degli ostacoli opposti all’innovazione del comparto da parte di un’opinione pubblica disinformata o plagiata da visioni demagogiche anti-industriali (estremismo verde).

Il “caso Fiat” presenta analogie col caso Alcoa tuttavia è inquinato da una più lunga storia di “corruzioni” erogate a spese del contribuente italiano per mantenere la “pace sociale” (rottamazioni, agevolazioni fiscali, agevolazioni legislative). Forme di “corruzione” che hanno avviato un perverso cash flow che continua ad aumentare il debito nazionale ma, soprattutto, ad impedire che il comparto metalmeccanico raggiunga un livello di competitività sui mercati internazionali. Siamo ora giunti al momento in cui il gruppo Fiat si è ormai internazionalizzato ed ha programmato una credibile strada verso la competitività in un comparto in cui il numero dei produttori mondiali sarà ridotto ad un terzo di quello attuale. In queste condizioni, ed alla luce della rigidità del contesto nazionale (onere esogeno di inefficienza per ogni gruppo industriale) e delle norme UE contro la distorsione del mercato tramite finanziamenti statali, non è possibile che si riesca a convincere il gruppo Fiat a conservare attivo l’impianto di Termini Imerese. Sia che lavoratori e sindacati restino seduti sui tetti sia che il governo concepisca forme creative e suggestive di ulteriore “corruzione” delle scelte di politica industriale che non prevedono la partecipazione dello stato ma la sola responsabilità degli azionisti e dei CdA. In un mondo ispirato alla civiltà ‘Occidentale’ che miri a migliorare la crescita del reddito globale eludendo tutte le forme di privilegio/parassitismo (anche se assunte in modo incolpevole o inconsapevole). Inoltre, ogni possibile agevolazione finanziaria a sostegno di reali interessi strategici Fiat (robotica industriale, componentistica di bordo, soluzioni energetiche) sarebbe destinata a barattare nel breve termine pace-sociale vs. agevolazioni a spese del contribuente ma sarebbe destinata a consolidare tipi di produzioni industriali che verrebbero delocalizzate all’estero oppure verrebbero trattenute in Italia con impianti altamente robotizzati con limitato numero di maestranze di elevato profilo professionale. In altri termini, il futuro dell’occupazione in Italia non è nel settore delle maestranze di bassa specializzazione né in impianti manifatturieri che curino fasi produttive manpower intensive. Il futuro dell’occupazione di massa sarà invece nelle piccole e medie aziende diffuse sul territorio a sostegno delle produzioni di qualità nei molti comparti industriali più creativi (energia, domotica, sanità, robotica) o in quelli più attrattivi per il turismo di qualità (eno-gastronomia, multimedialità, benessere, leisure, ricerca umanistica, moda).

Si sostiene inoltre, nel “caso Telecom”, che occorrerebbe agevolare investimenti nel comparto industriale altamente innovativo delle comunicazioni. Un comparto ormai “maturo” che vede margini ridotti di profitto nella produzione dei beni materiali mentre elevatissimi margini nella distribuzione dei servizi in rete. Gli investimenti sulla rete Telecom dovrebbero creare aspettative di maggiore occupazione di addetti alle mansioni industriali più tradizionali che, come detto, saranno destinate ad offrire opportunità limitate a maestranze altamente qualificate in impianti ad elevata robotizzazione. Il mercato a valore aggiunto per il comparto delle comunicazioni sarà sempre più orientato a dare servizio ai maggiori gruppi di consumatori che inevitabilmente coincideranno con i Paesi più popolosi. L’erogazione dei servizi a valore aggiunto sarà curata da pochi specialisti in centri di produzione e di distribuzione altamente professionali che offriranno opportunità occupazionali in numero limitato.

Per non tralasciare l’ambiente estero, una delle “patetiche” forme di resistenza all’avvento del nuovo ordine globale è espressa proprio dalla Cina, uno dei due protagonisti egemoni di quel processo di definizione della governance globale. Di fronte all’attenzione che l’’Occidente’ rivolge a realtà nazionali autonome come il Tibet o Taiwan la Cina “minaccia” ritorsioni. Ciò ricorda la “tigre di carta” di Mao-buon’anima. Infatti la stabilità politica interna di quel continente chiamato “Cina” risiede solo sulla solida continuità di tassi di sviluppo del prodotto nazionale non inferiori a quelli sperimentati nei decenni passati. Questo “miracolo” dipende dalla capacità della Cina di conservare stabile l’inflazione interna ed evitare che i Paesi più industriali (‘Occidentali’) diminuiscano le loro importazioni. L’elemento che raccorda questi due mercati in un unicum di produzione e consumo è la stabilità monetaria. Le riserve nazionali cinesi in dollari USA non possono che essere aiutate a restare stabili in valore pena la destabilizzazione politica che, pur affliggendo l’’Occidente’ sarebbe letale per la sopravvivenza del regime autoritario ma impotente cinese. La Cina quindi è condannata ad accettare l’autodeterminazione di realtà nazionali come Taiwan d’etnia “cinese” (ma tenendo presente che tale definizione risulta altrettanto vaga di quella di etnia “negra”) o come il Tibet di etnia, religione, cultura non-cinese ma con radici storiche e civili comparabili con quella “cinese” pena il rallentamento dello sviluppo interno e il crollo del sistema istituzionale. È improbabile che, in assenza di un forte autoritarismo centrale come quello odierno, la disparità geo-politica interna e le diversità economiche e culturali tra le molte “etnie cinesi” riesca a tenere in vita un’unità nazionale che storicamente è stata sempre minacciata dal “mandarinato”, da oltre 15 lingue diverse e da almeno quattro religioni fortemente radicate; oltre ai molti e diversi interessi economici ed alle differenti opportunità presentate dall’adesione al sistema produttivo globale. Analoghe resistenze “patetiche” vengono sollevate da Paesi meno industriali come il Venezuela e l’Iran ma anche la stessa Russia priva di una struttura industriale interna solida, sana e competitiva.