02/07/2010

Fine della ricreazione

“Se un modello non si dimostra coerente con le manifestazioni della Realtà, è il modello non la Realtà a essere errato”. Questo è l’insegnamento primario che guida la scienza a ricercare una descrizione sempre più accurata della complessità naturale e che quindi divide la conoscenza “scientifica” da ogni altra astrazione fiabesca.

È un criterio che resta valido anche per le scienze umane ivi incluso l’economia e la sociologia che invece sono spesso preda delle ideologie affabulatrici più utopiche adottate dai demagoghi per raccogliere consenso

 Politico presso la pubblica opinione meno erudita e più diseredata. La scienza politica quindi è una delle discipline più soggette alla tentazione di “giustificare” i suoi interventi sulle istituzioni (i norm-ware, org-ware e soft-ware di governo della cosa pubblica) a modelli capaci di accattivarsi la pubblica opinione piuttosto che cercare di costruire un consenso politico tramite opportuna informazione “divulgativa” dei rischi, benefici e costi intrinseci ad ogni proposta di azione alternativa.

È insomma più facile spingere i disinformati a ‘credere alle favole’ tramite un impiego demagogico e settario dell’informazione (propaganda o pubblicità) piuttosto che cercare di illustrare la situazione e le dinamiche della ‘realtà’ in termini semplificati ma corretti a chi dovrà comunque pagare i costi delle scelte politiche. Se il ‘buon senso’ contrasta con le proposte si cerca di sostituirlo con dosi massicce di ‘senso comune’ costruito su visioni partigiane delle ragioni per cui esistono ‘forse occulte’ che complottano contro l’avvento di regimi più ‘giusti’ e di contesti luminosi in cui ‘il leone conviva con l’agnello’.

Le leggi (anche la ‘costituzione’) sono solo ‘modelli’ che, se si rivelano inadeguati alla realtà contingente, si possono (si devono) modificare per non risultare nocivi o letali per la comunità ad esse soggetta.

In Italia siamo ormai bloccati a mezzo guado da decenni. La ‘costituzione’ viene dichiarata ‘intoccabile’ in analogia coi ‘dogmi’ religiosi e perfino comuni leggi come lo ‘statuto dei lavoratori’ vengono considerate dei ‘diritti irreversibilmente acquisiti’ contro ogni evidenza della realtà e perfino contro ogni criterio sul quale esse hanno fondato la loro propria legittimità (solidarietà internazionale, diritto al lavoro, equità, etc.).

Il caso Fiat e le sue scelte nel nuovo contesto geopolitico creato dal trionfo dell’internazionalizzazione della economia industriale è solo emblematico di altre situazioni analoghe esistenti all’interno del paese quale ad esempio i privilegi del contratto di lavoro dei dipendenti statali rispetto a quello vigente nei comparti privati o i privilegi che ha creato l’imposizione di un unico contratto nazionale di lavoro tra i lavoratori insediati al sud rispetto ai loro omologhi insediati al nord.

Il caso Fiat tuttavia sta rivelando la sterilità demagogica delle ‘sinistre’ nella negoziazione degli accordi che condurranno a investire nell’apertura di nuovi impianti produttivi in un paese piuttosto che in altri.

‘Negoziare’ significa bilanciare una serie di concessioni tra due parti nell’ambito delle loro posizioni di forza; non fissare confini insormontabili protetti dal wishful thinking o da precedenti concessioni ottenute a spese del debito collettivo fino a oggi (a scapito del potenziale di sviluppo futuro del paese e dell’associata assenza di opportunità occupazionali per le future generazioni) oppure ottenute a beneficio di fasce professionali il cui status risulta iper-protetto privilegiate rispetto a chi non ottiene opportunità di lavoro per l’eccesso di costi delle prime; si parla di aziende di proprietà statale (FS e Alitalia) ma anche di coltivatori diretti, di camalli, di dipendenti dei partiti politici e dei sindacati, di dipendenti delle due camere e del Quirinale, dei giornalisti, dei magistrati – in breve di tutte le ‘caste’ che costruiscono un consenso crescente e la percezione di legittimità negli esclusi verso una gerarchia di forme di illegalità che vanno dall’evasione nel pagare il biglietto sui mezzi di trasporto, all’evasione fiscale diffusa, al consenso nei confronti del contrabbando, del mercato nero, del lavoro nero, delle contraffazioni dei marchi fino a scendere alle forme più adiacenti alla criminalità organizzata con la conseguenza di creare in certe zone, seppure ‘a pelle di leopardo’, un diffuso consenso sociale. Ciò accade in ogni paese in cui si negoziano gli accordi non sulla base del paradigma del libero mercato ma sulla base di modelli etici di cui non si vuole tenere conto dei costi (come quello del lavoro variabile indipendente). In tutti i paesi ove il modello fondato sulla rigidità etica viene imposto sul modello del libero mercato si giunge al crollo dell’economia industriale, ad un graduale impoverimento, alla fuga dei capitali e soprattutto degli imprenditori e dei più dotati professionisti e alla generale frustrazione sociale che si traduce in acuti conflitti politici interni oppure in brevi e sanguinosi scontri del paese contro le forze del male che complottano contro la superiorità del modello ideale rispetto a quanto economicamente sostenibile alla luce dei comportamenti naturali dei produttori-consumatori-risparmiatori-elettori.

I regimi autoritari sono sempre fondati su modelli etici e rigidi che rifiutano di accettare i comportamenti della realtà per cercare di sostituirli con altri più ‘politicamente corretti’ a spese dell’impoverimento del paese e del tracollo del regime per la sua minore competitività rispetto al più naturale regime fondato sul libero mercato.

Il caso Fiat inoltre rivela l’intrinseca incoerenza delle istituzioni che negoziano gli accordi di investimenti futuri sulla base dei criteri ‘progressisti’ e degli ‘irreversibili’ privilegi passati (come se guerre, rivoluzioni, crisi, catastrofi naturali, etc. non dovessero condurre a rivedere le compatibilità tra i benefici di ieri e gli obiettivi di domani).

Si negozia sulla base di un principio risibile che afferma “ciò che è scritto nella costituzione e che è legge dello stato è di per sé giusto e immutabile indipendentemente dalle conseguenze che apporta oggi - e che ha provocato ieri”.

Si negozia inoltre sulla base di un obiettivo “la globalizzazione come mezzo per esportare i privilegi nostri agli altri paesi coinvolti nella produzione industriale e non per degradare i nostri diritti al livello di quelli che caratterizzano i paesi emergenti”.

Il primo è un principio risibile sia sul piano della sostenibilità economica nella storia umana sia su quello della scienza, giuridica, economica o politica che essa sia. Le leggi e le costituzioni non impongono la realtà ma ne auspicano l’avvento. Le concrete e variabili condizioni dell’ambiente geopolitico vigente suggeriscono gli accordi che possono essere negoziati pragmaticamente alla luce delle mutate compatibilità e convenienze delle parti in negoziazione.

Il secondo è un obiettivo legittimo alla luce dei criteri della liberal-democrazia che aspira a eliminare le aree di privilegio costantemente imposte dagli egoismi e dalle avidità che governano il libero mercato ed è il vero mezzo per avviare una negoziazione pragmatica delle concessioni reciproche tra le parti sociali. Ciò che lo rende sterile e patetico è la pretesa che la globalizzazione estenda ‘hic et nunc’ i benefici da noi acquisiti nel contesto degli Stati Nazione (a spese di altri esclusi o sfruttati) e con un lungo processo di sviluppo sociale che i paesi emergenti stanno solo iniziando a percorrere ora. È il vizio del ‘tutto e subito’ sessantottino che ha creato i sublimi benefici dei ‘diritti irreversibili’ scritti nei vari statuti dei lavoratori in Italia; il paese più avanguardia del progresso civile e culla del diritto – rovesciato però dalla dura realtà. Un vizio che conduce alla perdita di occupazione senza possibilità di negoziare contropartite che non si traducano in ulteriore debito nazionale, perdita di competitività internazionale e quindi in un crescente impoverimento del paese.

Negoziare il trasferimento delle fasi più manpower intensive dei processi industriali nei paesi emergenti e diseredati affinché anch’essi possano raggiungere nel tempo condizioni di lavoro più umane (o affidare le più rischiose e onerose alla automazione degli impianti) in scambio di una graduale crescita dei contenuti professionali da insediare in Italia sulla base di accordi controllabili, potrebbe riuscire a far insediare fasi più capital-intensive dei nuovi processi industriali in grado di conservare quanto possibile dell’occupazione attuale e di contribuire a elevarne i contenuti di know how a beneficio del paese. Pretendere invece che ‘i padroni’ finanzino l’estensione dei ‘diritti acquisiti’ in Italia ai lavoratori degli impianti polacchi o cinesi senza la gradualità infiorata da successi e frustrazioni in analogia con quanto è avvenuto nella nostra storia industriale in Italia è invece pura demagogia e fonte di sconfitta, di frustrazione, di impoverimento e di sterili scontri sociali a beneficio della crescita economica di altri paesi meno ideologicamente irreggimentati; tra cui Regno Unito, Germania e USA.