02/07/2010

Crisi economiche e progresso culturale

Le periodiche crisi congiunturali contrassegnano il costante e graduale raffinarsi di tutte le istituzioni di interesse pubblico (aziende, sindacati, corporazioni, scuole, università, chiesa, stato) nel sistema industriale del capitalismo-liberista.

Sono crisi che caratterizzano il sistema industriale costringendolo a modificare le sue istituzioni interne (impianti, organizzazione, management, procedure) senza alcuna ispirazione ideologica astratta ma solo per adeguarle al mutato potenziale produttivo delle soluzioni tecnologiche offerte dal progresso scientifico, inarrestabile, ed alle aspettative sociali maturate in un mercato sempre meno elitario e privilegiato.

Ciò conduce ad estendere la partecipazione al benessere economico e alla liberal-democrazia a masse sempre più estese sottraendo all’indigenza le fasce di diseredati esclusi fino a ieri dal mercato della produzione-consumo-risparmio e dai diritti politici attivi.

Ogni modello astratto fondato su ideologie etiche piuttosto che non sulla consistenza della natura umana e sul potenziale di crescita scientifica, tecnologica e industriale è costantemente ricondotto a fare i conti con il mercato. Ciò crea costantemente la nuova, più democraticamente ampia dimensione del contesto geopolitico col quale i modelli ideologici si devono confrontare. Questa crescente estensione del mercato del benessere è il meccanismo che catalizza nuovo e più ampio consenso politico oltre i confini dei vecchi privilegi e abbatte ogni tentativo di resistenza corporativa anche se difesa da principi eticamente altisonanti – ma insostenibili a meno di non stravolgere la natura umana o di escludere fasce di diseredati sfruttandoli a beneficio dei privilegiati.

Le crisi attraversate dal paradigma del capitalismo-liberista sono quindi tutte crisi congiunturali che non ne ‘falsificano’ la scientificità teorica fondata su solide radici naturali; l’avidità dei singoli, la loro creatività, la adattabilità dei singoli ai cambiamenti del contesto ambientale, la naturale loro propensione a ricostruire il livello della propria competitività produttiva rispetto ai concorrenti che aspirano a raggiungere un più alto benessere sul mercato a scapito dei vecchi assetti e privilegi, etc.

Il superamento delle crisi congiunturali può essere di variabili durate e grado di intensità in funzione degli interventi che lo stato conduce a spese della fiscalità rispetto alle conseguenze che si scaricherebbero in modo naturale tramite la rigorosa applicazione ortodossa del paradigma stesso sui soli produttori-consumatori-risparmiatori. Entrambe le soluzioni si traducono in costi sui contribuenti. I primi in modo diretto riesce a essere “giustificato” dall’etica della solidarietà-forzata che lo stato-etico impone ai contribuenti coi più vari artifici legittimati dallo stato sociale. I secondi in modo indiretto si affida ai meccanismi più auto-selettivi e intriseci alla natura umana accettando i fallimenti delle aziende più imprevidenti o temerarie che si vengono a trovare in situazioni economicamente insostenibili all’avvento delle crisi del mercato e che cadono preda di aziende più prudenti e credibili nell’appropriarsi delle risorse finanziarie che nei periodi di crisi risultano ben meno abbondanti rispetto all’accresciuta domanda di soccorso industriale.

Nessuno dei due approcci risulta deteriore. L’uno cerca di impedire che aziende sane ma in momentanea difficoltà falliscano solo per l’occasionale mancanza di credito di rischio bancario e cerca di supplire a quella carenza con apporti di ulteriore credito finanziati dai contribuenti ed erogati in modo selettivo. L’altro si limita a finanziare le aziende dotate di un maggiore ‘credito bancario’ che, grazie a quei finanziamenti, si impadroniscono degli impianti, delle maestranze, del know how e dei clienti delle aziende che falliscono. La fase successiva alla crisi vede un sistema industriale più competitivo di prima e più redditizio per garantire rendite più alte e più sicure agli apporti finanziari dei risparmiatori prudenti e responsabili.

Il meccanismo che vede intervenire lo stato nell’integrare le autonome disponibilità finanziarie del libero mercato ha due rischi massicci; l’errata o corrotta valutazione da parte dei burocrati privi di responsabilità personali che decidono le aziende da salvare rispetto a quelle da lasciar fallire e la distorsione prolungata del rilancio del libero mercato a causa del minor grado di competitività del sistema industriale emergente dalla crisi per la presenza di aziende scarsamente competitive rispetto a quelle che sarebbero sopravvissute in caso di autonoma sopravvivenza in regime di ‘libero mercato selvaggio’.

Creare un debito statale (pubblico e privato) eccessivo rallenta il rilancio dell’economia rispetto a quanto non avverrebbe in regime pienamente liberista mentre rinunciare a qualsiasi intervento statale in aiuto di aziende sane in temporanea difficoltà conduce alla perdita di un potenziale competitivo del sistema paese-industria.

La demagogia suggerisce sempre soluzioni che scarichino a spese generali il salvataggio di aziende in via di fallimento per evitare che i dipendenti (e gli azionisti ‘shareholders’ e i fornitori ‘stakeholders’) subiscano il trauma del licenziamento. Questo approccio elettoralmente pagante si traduce un una sorta di franchigia e ‘irresponsabilità’ per chi presiede alle scelte industriali e può quindi esercitare minori dosi di prudenza negli investimenti che vengono quindi gradualmente addebitati dal sistema assicurativo e bancario di un margine di costi economici maggiore di quello praticato nei sistemi industria-stato concorrenti sui mercati globali. Ne risulta una crescente perdita di competitività del sistema industria-paese italiano con risultante minore possibilità di conservare il paradigma demagogico del salvataggio dei posti di lavoro.

Il paradigma intrinseco al liberismo-selvaggio invece sceglie la strada di lasciare fallire ogni azienda che si sia rivelata imprudente o mal gestita. Ciò tutela parzialmente le maestranze licenziate che saranno assorbite dall’azienda che si appropria del mercato coperto da quella fallita e costringe tutti a scelte più prudenti che si traducono in minori rischi di ulteriori fallimenti a beneficio di tutto il sistema industria-paese. Questo paradigma costringe anche il livello politico ad evitare i costi della demagogia e impegnarsi a negoziare leggi che siano più pragmatiche e sostenibili rispetto alle risorse esistenti e alle priorità convenienti per la generale sopravvivenza della competitività del sistema industriale nazionale. La perdita di demagogia svuota la politica dei contenuti ideologici per ricondurre i dibattiti ad una comprensibilità di obiettivi e mezzi per il loro conseguimento che costituisce il prerequisito di comunicazioni sociali realmente adeguate ad alimentare la crescita della liberal-democrazia nel paese.

È strano come i demagoghi sostengano che la libertà di mercato NON possa essere ‘selvaggia’ e che il liberismo selvaggio NON sia praticabile per la stessa funzionalità del mercato. Occorrerebbe per loro sempre ‘compensare’ le inadeguatezze del ‘libero mercato’ irregimentandone la vitalità nell’ambito di leggi capaci di provvedere alla tutela dei cittadini meno dotati che verrebbero ‘truffati’ dai più spregiudicati ed avidi capaci di ‘plagiare’ le loro menti e la loro volontà. Ciò deve essere evitato, sostengono, affidando a governanti più preparati la programmazione dello sviluppo industriale secondo schemi più rispettosi per le esigenze di tutti sia i più abili che i meno dotati.

Ciò prescinde da una realtà naturale che deve accettare l’avidità come molla che anima tutti - i governati ma anche i governanti – e che sposta quindi il problema dalla responsabilizzazione individuale e quotidiana di assumere scelte prudenti e sostenibili dal proprio bilancio e reddito (anche i piccoli risparmiatori e gli enti locali hanno investito le loro risorse in ‘hedge funds’ – ma gli enti locali investivano risorse dei contribuenti in rischio finanziario) alla scelta occasionale di rappresentanti politici che a loro volta negoziano la nomina di governanti conosciuti solo sulla base di non controllabili conoscenze indirette. Ne risulta l’enorme rischio aggregato dei regimi keynesiani in cui gli elettori rischiano di essere ‘strumentalizzati’ da affabulatori, che sono sempre animati da avidità e egoismo, ma che risultano totalmente irresponsabili grazie ai facili giochi di scaricabarile e di giustificazioni dialetticamente sostenibili dai più abili azzeccagarbugli e dai più squallidi pennivendoli che, avvalendosi delle connivenze nel sistema giurisdizionale, garantiscono piene guarentigie all’irresponsabilità più proterva e pervicace.

Il paradigma del liberismo-selvaggio (l’unico modo in cui il liberismo può essere definito tale) è l’unico mezzo per costringere i più e i meno dotati a un costante processo di auto-formazione al superamento delle difficoltà di una vita sociale e economica che sono precarie per natura e che è meglio imparare a tutelare da soli con l’applicazione quotidiana di prudenza e di scelte responsabili piuttosto che affidare alle molte coppie di ‘gatti e volpi’ che circolano in zona a ogni livello pieni di buoni sentimenti e dedizione al nostro benessere, salvo scoprire che, magari in buonafede (!?!), l’avidità della reazione e degli gnomi di Zurigo hanno prevalso sui bei programmi di realizzazione del domani luminoso e più equo – forse da ‘equus’ ‘cavallo’.

Siamo adulti è ora di smetterla con Keynes, riprendiamoci Say!