02/02/2010

Paese Reale/Paese Legale: Economia Reale/Economia Legale

Spesso si parla di evasione e di elusione fiscale, di economia sommersa e di economia reale, di lavoro nero e di reddito fisso per imbastirvi sopra lunghi dibattiti animati da una dialettica puramente “politica” nel più vieto senso del termine. Cioè non finalizzata a chiarire alla audience una situazione complessa ma accertata e condivisa per darne una comprensione di livello “divulgativo” e quindi accessibile agli elettori tuttologi che sono chiamati a prendere posizione sui rimedi tramite i quali si propone di contrastare i fenomeni di disagio e di esaltare invece le opportunità altrimenti perdute di crescita del benessere. È stato anche il tema trattato da una recente trasmissione di Oscar Giannino su Radio Sole-24Ore.

Questo approccio che anima le “menti sottili” che partecipano alle comunicazioni sociali rende noiose tutti i dibattiti ma, soprattutto, disamora gli elettori alla politica e impedisce che si formi una statistica adesione a comportamenti che risultino coerenti con i veri interessi generali nel medio-lungo termine. Questo disamore induce quindi la stragrande maggioranza degli elettori ad assumere, ogniqualvolta se ne offra occasione, nei confronti del “lavoro” un atteggiamento schizofrenico. Da un lato come fonte del proprio reddito e della sua continuità per il futuro li spingono a ricercare forme legali di garanzia (i diritti acquisiti) del reddito attuale che si traducono in “posto fisso” nelle più variegate e immaginifiche forme che la creatività umana riesce a concepire per soddisfare quel “concetto psicologico” denominato eliminazione della “precarietà”. Sono state inventate nel tempo “tutele legali” sia di diritto privato che di diritto pubblico al vertice delle quali esiste il ruolo di dipendente dello stato ma che in realtà sono molto più diffuse e tutelate da specifiche corporazioni come quella dei notai, gli edicolanti, i tassisti, i tabaccai, i farmacisti, i sindacati, i partiti politici ma anche i medici (che oppongono ogni ragionevole resistenza all’avvento di nuove professioni come omeopati, ago-punturisti, medici cinesi ma anche psicoterapeuti), gli odontoiatri (che si oppongono a nuove professioni come odontotecnici e implantologi), i commercialisti (che si oppongono a professioni svolte da specialisti non diplomati), gli amministratori di condomini (che hanno istituito un loro apposito albo – che è probabile preluda alla costituzione di un apposito ordine professionale).

Questo coacervo di “tutele legali” alla certezza del reddito fisso naturalmente si traduce in oneri aggiuntivi per le professioni che restano al di fuori delle corporazioni. Questo aggravio economico spesso manca di un fondamento “reale” e, pur essendo pienamente “legale”, viene percepito dagli elettori una forma parassitaria di “economia”. Ciò crea un’iniziale incrinatura nella chiarezza tra “economia reale” ed “economia reale”. La fantasiosa gamma di “redditi fissi” inoltre si distribuisce in una scala di crescenti privilegi a seconda del peso dei rispettivi “patron”. Si parte dai dipendenti degli enti pubblici periferici (scuole, comuni, municipalizzate, sanità,) per salire ai dipendenti di specifiche branche delle amministrazioni centrali (giustizia, legislativo, para-stato, esteri, interni, finanza, difesa, ricerca, scuola) creando, pur nella comune assenza di “precarietà”, evidenti disparità tra i compensi economici offerti per identiche mansioni professionali. Ciò genera ulteriori percezioni di “ingiustizia” che vanno ad etichettare quei, pur “legali”, privilegi di uno stigma analogo alle forme degli arbitrii che caratterizzano l’”economia reale”. Avviene gradualmente un’equiparazione tra le iniquità (“illegali”) che affliggono le remunerazioni nell’economia “reale” e quelle (“legali”) che affliggono l’economia “legale”. Queste forme di privilegio consolidano la percezione del “privilegio corporativo” che caratterizza tutti i “posti fissi” e cioè tutelati dalla precarietà a spese delle occupazioni che non riescono a beneficiare di analoghe protezioni. Lo scontento inoltre tra la disparità di compensi per analoghe mansioni, oltre a scatenare la sempre presente invidia sociale, demotiva gli assunti a tempo indeterminato (nei “posti fissi”) nell’assiduità con cui sono disponibili a prestare le proprie energie professionali. I compensi fissi non riescono a sanare la percezione di disparità “legale ma illegittima” e quindi tra gli addetti inizia a formarsi una graduale disponibilità a svolgere le proprie mansioni a fronte di compensi provenienti da fonti esterne o a dedicarsi a diverse mansioni al di fuori degli orari di lavoro “legali” a beneficio di richieste estranee a quelle del proprio profilo contrattuale. Meccanici nelle officine delle aziende municipalizzate svolgono ulteriori prestazioni in officine private come soci o prestatori d’opera. Chirurghi ospedalieri specializzati in specifiche branche della sanità svolgono attività chirurgiche o sanitarie in branche sanitarie diverse da quella del loro “posto fisso” presso cliniche private in qualità di soci. Legali specializzati in specifici settori industriali si associano a studi professionali privati per garantirne una migliore qualità di servizio ai clienti anche in cause nei confronti delle amministrazioni pubbliche. Queste prestazioni sono in genere a spese di impegni professionali erogati rinunciando a porzioni del proprio tempo libero “legale” e sono sottoposte all’alea che affligge ogni mansione professionale “precaria” dell’”economia reale”. Spesso queste prestazioni riescono ad ottenere l’apprezzamento sul libero mercato e vanno quindi a partecipare (pur nella loro “illegittimità”) dei meriti apportati dall’”economia reale” a beneficio della crescita del reddito nazionale a causa del trattamento inadeguato che l’”economia legale” riesce ad erogare agli addetti che sono perciò “costretti” da quest’ultima a trovare un “legittimo” rifugio nel mondo “precario” ma equo dell’”economia reale”.

Il “lavoro nero” diviene una fonte di compensazione dell’inadeguatezza (e dell’iniquità) delle remunerazioni offerte dall’”economia legale” con assunzioni a tempo indeterminato nei “posti fissi”. Ciò avviene anche se in misura meno drammatica nei grandi gruppi industriali nei quali l’occupazione “precaria” è marginale e che, soffrendo del peso di una fiscalità oppressiva imposta dalla tutela dei privilegi dei “posti fissi”, non possono incentivare la produttività con forme selettive premiali (cottimo, premi variabili, riduzione dei livelli) e sono spinti da una contrattazione “garantista” a scaricare la loro perdita di competitività a spese di oneri fiscali sull’economia nazionale. Un peso che abbiamo indicato si scarica prioritariamente sui redditi più “precari” in quanto meno tutelati “legalmente”. Tutele che la “legge” non riesce a garantire neanche per i diritti più “legittimi” di chi svolge attività nell’”economia reale” che è non parassitaria e “precaria” per eccellenza.

A questo punto si crea una duplice convergenza di percezioni a favore dei redditi svolti nell’”economia reale” che attribuisce loro carattere di forte “legittimità” indipendentemente dal loro formale carattere di “legalità”, essi contribuiscono a creare ricchezza reale ed essi sono la fonte di un benessere che l’”economia legale” non solo non riesce a soddisfare ma che cerca di opprimere con ulteriore fiscalità, “illegittima” in quanto a spese di tempo libero devoluto per necessità a quel fine produttivo da addetti mal pagati e iniquamente trattati.

Si tratta forse di percezioni discutibili ma solidamente radicate su una serie di fatti che affliggono in ogni regime l’”economia legale”; la sua incapacità di erogare servizi efficienti e il suo intrinseco carattere di privilegio rispetto alla “precarietà” che connota invece ogni aspetto della vita nell’”economia reale”. Quindi tutti gli elettori, sia chi svolge “lavoro nero”, quanto chi beneficia di “posto fisso” sotto remunerato, sia chi si trova oppresso da contratti di “lavoro precario”, per soddisfare le sue esigenze di maggiore benessere, sa di poter confidare soprattutto sulla sua disponibilità a vendere occasionalmente le proprie prestazioni in forme marginali “integrative” di lavoro. È naturale che ogni forma di “lavoro precario e integrativo” voglia essere rigorosamente tutelata dall’avidità della fiscalità sterile della parassita ”economia legale”. A ciò si assomma l’esigenza convergente di prestatori d’opera e datori di “lavoro nero” di eludere la fiscalità per non incorrere nelle sanzioni di legge.

La “legalità” che legittima lo stato a esercitare tutele individuali e collettive dai possibili abusi dell’”economia reale” si trasforma gradualmente in una forma di oppressione esercitata dalle corporazioni privilegiate a sul legittimo (in quanto liberamente concordato) lavoro prodotto da volonterosi (legali o illegali) per integrare i propri redditi affrontando in maniera diseguale ma comune la “precarietà” della vita “reale”. L’evasione e l’elusione fiscale sono diventati i mezzi moderni in mano ai “compagni della foresta” per proteggersi dalla avidità parassitaria dell’”economia legale” i cui protagonisti sono (tra i clientes) lo Sceriffo di Nottingham (il fisco) e il despota Re Giovanni (lo stato sociale corporativo) che ha abusato delle “legittime” funzioni di Re Riccardo (di garanzia del libero e precario intraprendere).

Vogliamo solo esaminare la distorsione dei concetti di “buon senso” che l’”economia legale” tenta di imporre al pragmatismo dell’”economia reale” cogliendo l’esempio delle attuali rivendicazioni che il sindacato cerca di opporre all’avvento di un’economia industriale globalizzata sulle cui manifestazioni l’”economia legale” non può sperare di esercitare alcuna influenza.

Contro la graduale crescita di disoccupazione nelle occupazioni manpower intensive in Italia, le corporazioni dell’”economia legale” cercano di suggerire ulteriori strette fiscali (lotta all’evasione/elusione) per reperire le risorse necessarie a investimenti in tipi di produzioni di hi-technologies (comunicazioni, informatica, bio-ingegneria). Orbene tutti questi nuovi comparti di industria darebbero occupazione a maestranze qualificate che richiedono lustri per essere prodotto nelle giovani generazioni mentre produrrebbero macchinari e beni di consumo la cui manifattura potrebbe essere affidata (se si vorrà garantirne la competitività sui mercati globali) a Paesi con maestranze sottopagate (Cina, India) o a impianti produttivi pienamente robotizzati (in cui le maestranze oggi in corso di disoccupazione non sarebbero che marginalmente impiegate e solo dopo una massiccia riqualificazione). I rimedi sono altri e possono essere generati solamente tramite l’impegno della creatività e della flessibilità occupazionale (nera o legale, a tempo determinato o meno che essa sia) in aziende “precarie” che combattono per la propria sopravvivenza libere dai vincoli delle tutele privilegiate e col sostegno di servizi di stato efficienti e competitivi rispetto a quelli offerti dai Paesi in cui sarebbe possibile “delocalizzare” gli impianti produttivi. Ogni suggerimento da parte di “menti sottili” organiche con uno stato sociale cui è attribuita la fonte di ogni perdita di competitività, sembra patetico e sterile. Ogni stretta fiscale per tentare di recuperare risorse ulteriori rispetto all’oppressivo livello della fiscalità odierna sulla “economia reale” suggerirebbe di stringere più strette alleanze tra “lavoro nero” ed “economia sommersa” oppure spingerebbe le aziende costrette all’emersione totale a “delocalizzare” ogni possibile fase produttiva in Paesi la cui manodopera risultasse economica e in cui i servizi dello stato risultassero più efficienti per le esigenze della redditività dell’investimento.