01/10/2009

Lavoro: premio o condanna?

In una repubblica che, come la nostra, dice di essere fondata sul lavoro e di essere ispirata politicamente dai valori cristiani, ci si aspetterebbe maggiore coerenza con le premesse e un rispetto né demagogico o farisaico di quel bene primario che il “lavoro” costituisce per ogni individuo che possa impegnarsi in piena libertà a concorrere in spirito caritatevole a costruire una società libera ed equa. Libertà ed equità due concetti che, come la “felicità”, sono destinati ad essere gradualmente costruiti senza poter essere mai raggiunti in modo compiuto.

Il “lavoro” è in definitiva un “diritto” e quindi da perseguirsi in piena libera contrattazione nel solo rispetto delle proprie individuali capacità, ambizioni e opportunità offerte pragmaticamente dal contesto economico del momento, oppure un “dovere” cui sottoporsi nell’ambito dei criteri imposti dalle normative vigenti?.

L’etica sociale ha tentato sempre di risolvere il dilemma in modo spesso farisaico e demagogico eliminando gradualmente dalla legalità tutte le forme di contratti di “lavoro obbligato” con ciò definendo quindi che il lavoro sia un diritto non in quanto “riduttivamente” connesso al percepimento di un corrispettivo, ma in quanto strumento “in sé” per poter gratificare le aspettative che ogni individuo “liberamente” nutre verso sé stesso (autostima), verso la famiglia (sicurezza), verso il gruppo sociale (riconoscimento) e verso la serenità ambientale (qualità di vita) e spirituale (trascendenza dei confini intellettuali). Diritto-a-priori, svincolato quindi da ogni compatibilità ambientale che suggerisce la negoziazione di condizioni contrattuali realmente sostenibili sul piano economico.

Coerentemente si sostiene inoltre che la perdita di libertà non sia il mezzo eticamente corretto per irrogare condanne ai criminali i quali non hanno solo l’irrevocabile diritto alla vita ma anche il diritto al recupero e reinserimento nella società grazie a percorsi educativi dei quali il lavoro (lo studio ne è parte fondamentale) costituisce lo strumento-pilota. Analogamente un diritto-a-priori senza vincoli relativi alle possibilità che in concreto rendono sostenibile e praticabile soddisfare questo diritto.

Esiste invece secondo il liberismo politico e il capitalismo-liberista del nostro mondo industriale ‘Occidentale’ una possibilità di dare soddisfazione concreta e non demagogica a quei due diritti fondamentali dei cittadini pur di collegarne l’applicazione pratica alla sostenibilità economica nel contesto tecnologico del momento. Cerchiamo di rivedere ciò che si è venuto a creare di farisaico e demagogico fino ad oggi grazie alla lettura astratta e dogmatica dei concetti dei “diritti del cittadino”.

D’altronde, stranamente, se quella nobile percezione “irresponsabile” del diritto al lavoro fosse realmente applicata non ci si spiega perché si è sempre cercato di vincolarne la fruizione con una contrattualistica contrastante qualsiasi opportunità di libera manifestazione delle volontà negoziali sul libero mercato. Si è sempre preferito “tutelare” le scelte dei cittadini criminalizzando ogni forma contrattuale classificata di “vecchio” e sorpassato rispetto alle più avanzate e “progressiste” forme. Magari semplicemente ricorrendo a rinominare le vecchie con etichette “politically correct” che non ne hanno mai impedito tuttavia la libera continuazione in un “mercato parallelo” del lavoro che, in quanto illegale, resta privo di ogni tutela giurisdizionale e diventa quindi facile strumento della criminalità organizzata. Leggi l’esempio della “schiavitù” forma un tempo liberamente scelta nell’ambito del mondo liberale per affrancare dai debiti con durate concordate di lavoro obbligato del debitore a servire un padrone creditore. Una forma legale di contratto che era tutelata dalla giustizia in quanto legale e formulata secondo specifiche condizioni la cui applicazione era verificabile da parte di terzi-garanti. La schiavitù a-vita applicata illiberalmente è stata rimossa dal progresso tecnologico che ha elevato il valore della mano d’opera sostituendone l’uso grazie a nuovi e più economici strumenti di lavoro affrancando l’uomo dalle mansioni animali e fuori da ogni tutela etica cristiana (il vangelo citava quella forma di contratto vigente anche a Roma che prevedeva a termine del contratto l’affrancamento dello schiavo a condizione civile di liberto e, successivamente, con possibile diritto di cittadinanza come dimostra il caso Seneca aio di Nerone). La schiavitù negli Stati Uniti era in vigore non solo nelle piantagioni confederate ma anche negli stati dell’unione nelle miniere e nelle residenze cittadine e non si riservava ai negri deportati da schiavisti arabi e commercializzati da negrieri europei ma includeva anche manovalanza bianca che dal Galles, Irlanda e altri Paesi europei sceglieva di sottoscrivere un contratto a durata prefissata piuttosto che incorrere in sanzioni meno attraenti nel Paese d’origine nel quale erano stati condannati per azioni criminali. Orbene oggigiorno la schiavitù è proibita per legge ciò non toglie che essa sopravviva priva di ogni tutela legale sia in Europa che negli USA a “beneficio” delle masse clandestine degli immigranti che le leggi stesse comprimono sotto l’illegalità più bieca al servizio spesso della criminalità organizzata.

Ciò che gradualmente libera l’uomo dalle varie forme in cui si manifesta, nella storia, la “schiavitù” (forma di “lavoro forzato” e quindi un “dovere” e non un “diritto”) non sono i begli spiriti o le ideologie “politically correct” ma solo il progresso tecnologico che rende anti-economico impiegare le risorse umane per mansioni “alienanti” disumane e routinarie (sempre presenti in ogni professione in ogni epoca) “sostituendolo” con soluzioni industriali più economiche ed efficienti. Questa “sostituzione tecnologica” dell’uomo con macchine libera l’uomo dai “lavori forzati” e ne rende disponibile l’intelligenza e la creatività che compongono il suo apporto di valore aggiunto al progresso della civiltà industriale.

Questo processo di crescita della civiltà ‘Occidentale’ nel liberare l’uomo da mansioni schiavizzanti crea periodi transitori di disoccupazione prima di poter costruire, coi risparmi economici derivanti dalle soluzioni sostitutive, le nuove opportunità di lavoro meno alienante nelle quali l’uomo non è (ancora) sostituibile con automi più complessi alla cui conduzione e controllo sarà tuttavia sempre più indispensabile l’apporto del lavoro intelligente dell’uomo-libero.

Vincolare invece contrattualmente la flessibilità contrattuale del lavoro per perseguirne la sicurezza del tempo indeterminato integrando tale vincolo con livelli salariali garantiti sia nei minimi che nelle loro progressioni, non riesce a “garantirne” la sostenibilità economica (e quindi li costringe all’illegalità del mercato nero) mentre è dimostrato storicamente che ciò concorra a diminuire la creatività e la disponibilità alla mobilità che sono le premesse causa della crescente perdita di competitività delle aziende e del sistema industriale che è sottoposto a quel tipo di normative a “tutela sindacale”. Una simile traduzione in norme dell’accezione del “lavoro” come diritto e non come dovere non confuta solo la scelta “nobile” ma si traduce anche nella graduale accettazione di una nuova forma di schiavitù, di alienazione e di frustrazione della aspirazione alla “felicità” che, se possibile, spingono i più coraggiosi individui ad emigrare per poter essere autorizzati a barattare il tipo di falsa sicurezza di cui si ritiene egli benefici in una legislazione “protettiva” e illiberale contro migliori prospettive di “libertà” e responsabilità individuale associata a speranza di maggior reddito. È la storia dell’emigrazione dei “sudditi” da ogni regime paternalista e tendenzialmente illiberale verso gli USA che prosegue oggi anche dalla “civilissima” Europa. Si può essere più “felici” come minatori nel Sulcis in pieno 2000 anziché in lavori meno “certi” ma certo più “sicuri” svolti in altri Paesi o in altre occupazioni?

Nelle carceri, invece, il “lavoro” viene percepito come diritto da acquisire nel corso di un lungo processo di riscatto dal crimine per poter essere reinserito, al pari di ogni soggetto libero, in lavori sicuri e stabili che non costringano, grazie a quegli attributi, il criminale a ricadere nel delitto-per-necessità. Una visione che contraddice il valore del lavoro come “diritto” libero e responsabile di cui ciascuno deve farsi carico di definire tipo e qualità in piena autonomia negoziale da uomo-libero tra uomini-liberi dai quali i criminali siano esclusi durante il dovuto processo di recupero da doversi svolgere in ambiente protetto (il carcere o altra denominazione “politically correct”). Processo che deve svolgersi tramite un impegno-obbligato in attività di lavoro che ha compito rieducativo dei comportamenti sia sul piano individuale che su quello di gruppo per modificare le aspettative, i comportamenti e le priorità decisionali riportandole a “normalità” a fronte della realtà sociale ed economica dell’epoca.

Non per nulla anche i regimi più illiberali hanno scelto di denominare (gulag, lager) le loro repressioni sociali con etichette liberalmente ed eticamente nobili (“arbeit macht frei” o “campi di rieducazione”). Non sono quelle etichette a doversi stigmatizzare ma piuttosto sono i criteri di scelta della popolazione carceraria a doversi deprecare. Non sono errate quelle “etichette”, sono da rivedere le modalità e le finalità applicate per tradurle in pratica.

Il lavoro e l’associato percorso educativo sono in effetti gli strumenti principali per riuscire a riscattare i criminali. Essi non possono evitare di impegnarsi in percorsi di riscatto valutabili oggettivamente attraverso le loro prestazioni pratiche e relazioni sul lavoro. In questo senso il carcere deve coincidere con un periodo di “lavoro forzato” che sarà di durata più o meno lunga in funzione di un minimo di risarcimento del crimine alla società più una durata variabile che terminerà al momento dell’avvenuto riscatto ed affrancamento dal crimine come motivazione e comportamento. Se ciò fosse applicato in concreto, il primo dovere di ogni carcerato dovrebbe essere di contribuire a sostenere i costi della gestione del proprio percorso rieducativo in carcere successivamente di contribuire al miglioramento del percorso stesso per se e per i suoi compagni di sventura. La disponibilità a contribuire fattivamente al proprio e all’altrui mantenimento sarebbe la prova-provata del mutato atteggiamento sociale ed umano. La qualità dell’impegno e della motivazione sul lavoro e sulla propria crescita professionale e spirituale sarebbero in grado di garantire il reinserimento al vero e proprio stato di uomo-libero del criminale. Stato libero anche dai molti servaggi sindacal-normativi che le tutele del lavoratore hanno fatto sopravvivere oggi trasformando vecchie etichette in nuove e più corrette (il caporalato sopravvive sotto specie legale, la schiavitù sopravvive e non solo nell’illegalità, il cottimo che è l’unico strumento per compensare i lavori più alienanti - e spesso i più produttivi – è stato proibito col risultato di ridurre una fonte immediata di gratificazione venale a telefonisti, sportellisti postali e bancari, autisti e conduttori di mezzi da trasporto). Questi sono i progressi normativi che hanno creato la piramide parassitaria del sindacalista di professione nel cosiddetto mondo civile oggi!