01/05/2009

 

Visioni geo-politiche future e paradigmi obsoleti

È interessante leggere i contributi dei professori Felli, Tria e Cisnetto che cercano di interpretare quanto cambierà dei passati schemi operativi del mercato industriale dopo la conclusione della ‘crisi’ che sembra essere ormai ritenuta vicina.

Si cerca cioè di valutare se la ‘crisi’ sia stata semplicemente una classica e fisiologica al sistema capitalista di libero mercato addebitabile solo alla necessaria ristrutturazione dei processi produttivi industriali a fronte di una divisione del lavoro su base globale ormai consolidata grazie alla creatività degli innovativi prodotti finanziari che hanno raccolto al Nord le risorse necessarie per avviare gli investimenti industriali che hanno consentito ma ipotizzati tassi di sviluppo al Sud (Asia) oppure la ‘crisi’ sia il sintomo di un (temuto o auspicato e previsto) collasso finale del sistema liberista-capitalista di libero mercato.

In quest’ultimo caso ci si chiede quali potranno essere i paradigmi capaci di governare il sistema industriale capitalista nel futuro prossimo venturo.

Ciò che certamente un liberista-selvaggio eviterebbe di prevedere è quale sarà il tipo di istituzioni che assicureranno la governance del sistema industriale nel futuro. Infatti il capitalismo liberista forgia il sistema della governabilità perché esso garantisca la stabilità al ritorno degli investimenti sugli impianti produttivi (i soli capaci di produrre ricchezza sufficiente a compensare il risparmio investito e gli oneri dei servizi tra i quali quelli che lo Stato eroga al sistema produttivo, distributivo ed occupazionale).

Qualora si potessero studiare realmente ‘al tavolino’ le istituzioni idonee ad assicurare la governabilità del futuro sistema industriale si affermerebbe paradossalmente la capacità teorica della programmazione sul potenziale innovativo e rivoluzionario del libero mercato. Si negherebbe il ruolo stesso prioritario del libero e ‘selvaggio’ intraprendere sulla creazione del progresso industriale e si negherebbe la filosofia del ‘laissez faire’ come paradigma campione del liberismo economico (pur con tutte le eccezioni suggerite per evitare non necessari aggravamenti delle ‘crisi’ causate dal libero intraprendere – come quelle eccezioni accettate con l’affermazione che ‘il mercato quando possibile, lo Stato quando necessario’).

Su un piano teorico puramente intellettuale, e quindi fondato sull’esperienza del passato, si potrebbe certamente ipotizzare un domani in cui il mercato avesse ormai consolidato i suoi processi su base globale e pienamente integrata. A quel momento ci potrebbe sembrare ‘naturale’ che dovesse ricercarsi da parte dei produttori un accordo ‘partecipato’ (sulla traccia di quanto avviene con la fusione di Fiat e Chrysler con la partecipazione attiva di Obama, sindacati operai e proprietà) che consentisse di programmare il rientro dalla ‘crisi’ che ha generato il crollo delle produzioni ‘mature’ al Nord. Questa soluzione apparentemente ‘logica’ non è difforme a quella ‘terza via’ che lo Stato Fascista cercava di definire nel corporativismo e, nella Carta del Lavoro di Verona, con la ‘socializzazione’ delle fabbriche. Questo è quanto ogni buon liberale paventerebbe anche se la logica glielo segnalasse come soluzione senza alternative. Ciò tuttavia è anche quanto ogni liberista selvaggio confida che non potrà mai avvenire grazie alla creatività immaginifica del genio individuale umano che trova necessario manifestarsi da ‘maverick’ in qualsiasi epoca contro ogni limite opposto alle sue capacità innovative da parte del ‘sistema programmatore’ sotto le cui regole è costretto a confinare il proprio potenziale innovativo.

È il progresso stesso che dipende dal carattere ‘liberista selvaggio’ della creatività imprenditoriale. Una creatività che caratterizza anche gli intellettuali che rivestono ruoli di governo del sistema della governance come sono Obama, Berlusconi o Tremonti che portano la ‘responsabilità individuale’ delle scelte di riforme istituzionali. È il sistema liberal-democratico che obbliga i detentori di potere effettivo a sostenere le relative responsabilità individuali.

In altri termini ogni liberale e liberista (che, tranne deroghe ‘a valle’, non può che essere ‘selvaggio’ sostenitore del laissez faire) sa che il progresso industriale e la stessa civiltà ‘Occidentale’ non si fondano sulla programmazione consociativa del futuro ma sulla sfacciata e presuntuosa creatività dell’innovatore che, necessariamente, si pone ‘contro i limiti e i confini’ dello ieri e risulta, quindi, ‘pirata’ ma benemerito se raggiunge il successo (da Morgan, a Mattei passando attraverso tutti i tycoon che conosciamo dalla storia del capitalismo) o deprecati se invece falliscono (da Tesla, a Sindona passando attraverso tutti gli ‘sfigati’ che popolano il mondo industriale e manageriale).

Insomma il ‘capitalismo-liberista’ che crea le crisi di sistema e fisiologiche al suo progresso tecnologico e organizzativo ha bisogno di una personalizzazione sotto forma del ‘maialino col frack e cilindro’ cara ai metalmeccanici o sotto forma del ‘Mack the knife’ il ‘pescecane’ di Bertolt Brecht. Se ha successo crea imperi e fondazioni caritatevoli (Carnegie, Ford, Guggenheim) se fallisce viene stigmatizzato e ghettizzato, è il peso della responsabilità individuale di giocare al ‘maverick’.

In definitiva sappiamo ormai che la ‘crisi’ non era un ‘fallimento finale’ del capitalismo-liberista ma una semplice e fisiologica ristrutturazione sintomo del ‘successo finale’ della civiltà ‘Occidentale’ su base globale. Occorre ora che dopo i tycoon finanziari siano quelli industriali a tracciare il solco delle nuove procedure organizzative del lavoro e, solo successivamente a quanto essi avranno consolidato, siano infine i tycoon intellettuali a disegnare le nuove istituzioni che garantiscano alla nuova struttura che avrà assunto il capitalismo-liberista una governance istituzionale comprensiva di strutture e norme per garantire la stabilità finanziaria e i controlli sulla concorrenza sleale. Non per nulla in questo primo periodo l’unica istituzione di interesse pubblico che ha avuto un ruolo solido nello sviluppo della ‘crisi’ è stata la Banca Centrale Europea (estranea a ogni controllo dei vecchi esecutivi e parlamenti) e, negli USA, la Federal Reserve (libera per dettato costituzionale da ogni ingerenza politico-istituzzionale).

Restiamo in fiduciosa attesa degli sviluppi della ‘crisi’ economica che ci veniva definita un ‘nuovo 1929 così come osserviamo esterrefatti all’ennesimo terrorismo davanti all’influenza suina che ci era stata indicata come una pandemia del tipo della ‘spagnola’ degli anni ’10 del 1900. Restiamo anche in fiduciosa attesa che si estingua l’ennesimo eco-terrorismo del ‘man-made global-warming’ che nell’arco di diecine di mesi (irresponsabile recente vaticinio di un ‘principe’) dovrebbe condurci ad assistere alla catastrofe del globo.

Le ‘menti sottili’ si producono e acquistano a mazzetti da cento, i tycoon (a-la-Berlusconi) sono merce rara e preziosa.