01/04/2010

Alternanza degli esecutivi e unicità del capitalismo-liberista

Sono crollate tutte le ideologie che hanno ispirato le diverse forme di governi illiberali e regimi autoritari nell’epoca degli Stati Nazione.

Il crollo è attribuito a drammatici eventi storici (fine dell’espansionismo nazionalista dopo la sconfitta dei regimi di ispirazione “fascista” col secondo conflitto mondiale; decolonizzazione dopo la sconfitta degli Stati Nazione nei due conflitti mondiali; disgregazione del blocco comunista al crollo del Muro di Berlino; etc.). Esso tuttavia è stato provocato da un fenomeno economico che ha sollecitato l’avvento di un contesto geo-politico più propizio ad agevolare la fecondità produttiva del capitalismo liberista; l’eliminazione di barriere alla libertà di circolazione di beni, persone, idee e risorse finanziarie.

La costante crescita del know how organizzativo e tecnologico ha condotto l’industria manifatturiera alla crescente insofferenza dei limiti imposti a maggiori profitti dalla limitazione dei confini del mercato imposta dal contesto geo-politico degli Stati Nazione in cui imperava la legittimità degli interessi nazionali ispirata a ideologie astratte le cui priorità conducevano alla rinuncia sempre meno popolare alla crescita congiunta del reddito nazionale e delle famiglie.

Collocare gli investimenti secondo puri criteri di redditività liberi dagli antieconomici vincoli imposti per ragioni di ideologia o di protezionismo monopolista è un’esigenza che è cresciuta nel tempo manifestandosi gradualmente in forme sempre più scoperte anche se formalmente illegali. Dall’originaria pressione delle lobby sulle istituzioni nazionali per eludere le limitazioni “protezioniste”, ai tipi di contrabbando di beni di “interesse strategico”, alla concessione di brevetti, alla partecipazione finanziaria per impianti produttivi in Paesi “ostili” o “neutrali” (anche in periodo di conflitto armato e di guerra fredda) l’industria ha esercitato una costante pressione nei confronti delle istituzioni dei vecchi Stati Nazione affinché il mercato industriale venisse esteso abbattendo i vecchi confini nazionali; sempre più antieconomici.

La dimensione soprannazionale del mercato di produzione, distribuzione e raccolta del risparmio si è andata consolidando sempre più come criterio-pilota delle decisioni industriali e l’allargamento degli scambi ha dato evidenza crescente dei benefici ai consumatori. Questa duplice percezione positiva dell’allargamento dei mercati unita alla maggiore redditività industriale ha gradualmente alimentato il consenso politico nel mondo più industrializzato mentre la minore produttività del mondo governato da regimi autoritari in cui prevaleva la logica della programmazione degli investimenti a-misura delle direttive politico-ideologiche ha minato il potere industriale di quei Paesi con le associate conseguenze di dissenso politico interno e minore credibilità dell’apparato ideologico e militare che vi sosteneva i regimi.

Quando i politici responsabili dei vecchi Stati Nazione hanno aderito alle aspettative di abbattimento delle frontiere maturate dalle rispettive constituency elettorali, abbiamo assistito a tardivi e troppo lenti episodi di aggregazione politica soprannazionale. Il MEC, la CEE, l’UE hanno creato apparati burocratici, legislazione industriale e finanziaria, moneta unica ma non sono riusciti a consolidare una integrazione politica capace di eliminare i vecchi ostacoli all’integrazione industriale. Nello stesso tempo i principali gruppi industriali, legittimati ad operare secondo puri criteri di redditività e liberi dai vincoli dei protezionismi nazionalisti, si sono concentrati a programmare i propri investimenti in un’ottica geopolitica globale. La loro raccolta dei finanziamenti necessari si è servita degli strumenti finanziari più creativi che tenevano conto sia dei più grandi margini di redditività offerti dal mercato del lavoro, sia dei maggiori volumi di vendita e di ritorno sugli investimenti generati da produzioni più accessibili sul mercato più vasto.

La crescita del debito è stata commisurata alle aspettative di maggiori profitti in archi temporali più lunghi e alla luce di fattori di instabilità politica scarsamente valutabili. I finanziamenti quindi hanno attratto gli interessi soprattutto di operatori “speculativi”; i pionieri dello sviluppo innovativo e crescita del progresso.

La speculazione è il fattore di libero mercato il quale, purché resti responsabilità individuale dei finanziatori, crea le condizioni per l’estensione del progresso industriale e civile abbattendo vecchie posizioni di privilegi parassitari. Lo stato non deve quindi ripianare i debiti nei casi di fallimento delle speculazioni al fine di non addebitare i rischi della speculazione sui contribuenti.

Il capitalismo-liberista è un paradigma che ha dato prova della sua efficienza economica e della sua efficacia come pioniere di maggiori libertà civili e politiche ma esso deve essere il più “selvaggio” possibile; pena il rischio di addebitare alla maggioranza dei contribuenti prudenti i costi delle previsioni errate dei più audaci. Come ha recentemente scritto Carlo Pelanda, l’unico intervento concepibile da uno stato liberal-democratico a fronte della “speculazione” per non rinunciare ai suoi eccellenti servizi a sostegno del progresso civile è di fornire al sistema industriale strumenti di flessibilità che gli consentano efficaci, tempestive riorganizzazioni produttive rinunciando a “prevedere e prevenire” gli effetti degli eventuali insuccessi speculativi; una cosa che non riesce neanche agli stessi, lungimiranti speculatori – figuriamoci a burocrazie retrospettive.

Chi non sa fare bene il mestiere del pioniere va lasciato pagare personalmente le conseguenze del fallimento, i risparmiatori meno avidi e più prudenti non devono essere addebitati del costo degli insuccessi!