IDEAZIONE  Gennaio – Febbraio 2002 

Il nuovo volto del nemico

 Di Carlo Pelanda (originale, dicembre 2001)

   Sarebbe retorica enfatizzare gli attentati dell’11 settembre come uno spartiacque della storia. Ma non si può negare che dopo quella data le tendenze politiche internazionali abbiano preso un binario diverso da quello su cui stavano viaggiando prima. Forse sarebbe meglio dire che si sono sbloccate ed accelerate direzioni già in atto. Ma, libero ciascuno di utilizzare le metafore ed allegorie che desidera, di fatto lo scenario dell’ordine mondiale è a una svolta. E questa è stata determinata dall’emergere di un nuovo tipo di nemico. Non tanto il “terrorismo” di per se che è una tecnica razionale e tradizionale di guerra adottata da chi si sente in inferiorità contro un avversario e cerca di contrastarne la potenza aggirandola con mezzi, appunto, “asimmetrici”. Ma il terrorismo che si delocalizza ed assume capacità di destabilizzazione globale. La visualizzazione concreta di questo caso, anche se minaccia prevista dagli scenari fin dai primi anni ’90, sta producendo dei rapidi cambiamenti. Tra questi sembra più rimarchevole un fenomeno che potremmo semplificare così: il nemico nuovo scaccia quello vecchio. Analizziamolo e vediamone le possibili conseguenze. 

  Prima dell’offensiva terroristica l’amministrazione Bush era bloccata su due problemi: trovare sia un nemico sia un partner credibili e di scala globale. L’emergere come nemico del terrorismo con basi diffuse a livello internazionale e connesso con un’area culturale e politica, l’Islam, che conta un quinto della popolazione mondiale, ha reso necessario il passaggio da una coalizione “ordinativa” solo occidentale ad una più vasta, globale. Tale requisito ha sbloccato i due problemi detti presentando nuove soluzioni. Vediamo il primo.

 L’unico nemico credibile rimasto – per scala, ambizione nazionalista espansiva e diversità – era la Cina popolare. L’importanza della “nemicizzazione”, per la Pax Americana, era ed è enorme perché giustifica il mantenimento di un apparato militare di raggio mondiale e gli investimenti pubblici in tecnologie di superiorità utili per quella dell’industria civile. A sua volta essenziale per mantenere la capacità degli Usa e del dollaro di essere al centro del sistema finanziario mondiale, con evidente vantaggio geoeconomico. Nel 1994 l’Ufficio scenari (Net Assessment) del Pentagono aveva definito la potenza cinese in grado di sfidare, prospetticamente, quella statunitense e raccomandato la costruzione di un nuovo arsenale di superiorità assoluta, e non solo relativa, da costruirsi entro il 2020. Tuttavia la nemicizzazione della Cina è apparsa subito imbarazzante e densa di controindicazioni. Tra cui la principale era ed è quella economica: non ha senso aprire una frizione con un Paese dal cui sviluppo e collaborazione dipendono sia l’espansione sia la stabilizzazione del mercato globale. E qualora avesse senso per necessità (Pechino aveva e, probabilmente, ha tuttora l’obiettivo di espellere gli americani dal Pacifico nel lungo periodo) sarebbe difficilissimo bilanciare le politiche di contenimento con quelle di cooptazione della Cina nel sistema dell’economia mondializzata. L’emergere del nuovo nemico ha risolto il problema rendendo necessario l’emergere di una coalizione globale, con sempre al centro gli Usa, legata dall’interesse di tutte le potenze simmetriche (per i comuni interessi alla stabilità del mercato globale) contro la minaccia asimmetrica diffusa. Non è marginale osservare che tale mutamento non rende inutile la strategia americana dei nuovi arsenali di superiorità, pur riselezionando la priorità di alcuni. Infatti resta, anzi diviene più pressante,  il requisito di possedere degli strumenti di potenza classica sempre più tecnologicamente raffinati, per poter proiettare la potenza in qualsiasi luogo del mondo contro territori disordinati o infettati che possono fare da base – intenzionale o meno – al terrorismo.   

L’altro problema degli Usa era quello di trovare un partner. Fin dal 1973 gli Usa hanno cercato di passare dalla gestione singola della sicurezza globale ad una più condivisa con gli alleati sul piano dei costi e dei rischi. Da questa dottrina (formulata da Kissinger  come passaggio dal single al collective management) è emersa l’architettura degli attuali G8. Ma non ha mai soddisfatto granché Washington perché i partner nipponico ed europei hanno sempre portato molte richieste e poche contribuzioni, soprattutto sul piano della sicurezza. Già nei primi mesi dell’amministrazione Bush si era notata la volontà di esplorare i potenziali cooperativi della nuova amministrazione Putin in Russia. L’urgenza della talassocrazia americana di trovare un alleato terrestre per le operazioni di controllo nell’area centroasiatica ha accelerato tale iniziativa. Ma la cooperazione tra i due è presto evoluta ben oltre gli accordi settoriali di contingenza fino a trasformarsi in un’ipotesi di partenariato bilaterale stabile per la gestione degli affari globali. Ciò è dovuto a tre caratteristiche della Russia. La prima è che i suoi giacimenti energetici sono di entità tale da ridurre la capacità dell’Opec di determinare quasi monopolisticamnte il prezzo del petrolio. La seconda riguarda il fatto che la Russia è il naturale guardiano geopolitico dell’Asia centrale ed ha disposizione un buon potenziale militare per eventualmente proiettare la forza sia contro i regimi islamici sia, in caso remoto, a contenimento della Cina. La terza è che Mosca ha comunque ereditato le vecchie relazioni dell’Unione sovietica. Dall’Iraq a Cuba (in dismissione), dai Balcani – come riferimento slavo – all’India. Putin ha l’evidente interesse di monetizzare questo investimento del passato scambiandolo con risorse ed accordi utili per il futuro. In merito ai Balcani, nella tarda amministrazione Clinton, ciò ha già funzionato. Ma per chiudere l’affare restavano due ostacoli: la guerra di repressione in Cecenia è il dare rilevanza ai teatri in cui la Russia può essere influente. L’emergere del terrorismo islamico ha cancellato il primo problema. Il riscaldamento al calor rosso dei teatri centroasiatico ed islamico hanno di colpo dato un enorme valore al patrimonio di influenze residue ed utilità russe, che Putin ha giocato con abilità. In sintesi, l’America ha bisogno della Russia per: controllare il prezzo del petrolio; l’Asia centrale; tenere a bada l’Iran (il cui rifornimento nucleare è tradizionalmente russo); eventualmente bonificare l’Iraq; inquadrare la Siria; nonché tener buoni i Balcani; dare un messaggio alla Cina che potrebbe avere una pressione da nord; alla Corea del Nord da est; ecc. Si inserisca anche il fatto che Mosca è cruciale sul piano degli accordi antiproliferativi e che ha un potenziale economico non trascurabile, pur inferiore a quello cinese, ed appare ovvia la nascita di una cooperazione bilaterale stabile con gli americani. Che ha il non secondario vantaggio, per Washington, di rendere meno necessaria l’Unione Europea. E ciò spiega l’attivismo frenetico di Blair per tentare di mantenere la rilevanza britannica nella prospettiva del nuovo asse tra americani e russi.

 Sarà questa – il “pilastro delle due aquile” -  la nuova formula dell’ordine mondiale? Potrebbe, ma per affermarlo bisognerà aspettare un chiarimento nella strategia russa. Il partenariato forte con l’America è per Putin un passo obbligato per risolvere il disastro interno e recuperare ruolo esterno. Ma nel futuro una Russia consapevole della sua importanza non si fermerà necessariamente al ruolo di potere subordinato all’America e potrebbe volere di più. Infatti il pericolo per gli Usa nel costruire la coalizione globale per un controllo più stretto della sicurezza a livello planetario è quello, una volta dichiarati amici i vecchi nemici simmetrici, di suscitare un competitore interno con forte capacità di ricatto. Si vedrà, ma per il momento il tipo di nuovo nemico ha costretto l’America a cercare il partenariato con Mosca e a secondarizzare temporanemante l’Unione Europea, imbelle e poco utile nel frangente. Queste considerazioni, se confermate, mostrano che la natura del nuovo nemico e del tipo di guerra che ciò comporta ha stimolato la nascita di una nuova architettura politica mondiale che in effetti ha la capacità di potenziale di stabilizzare il mercato globale perché ne include i tre soggetti principali: America, che resta al centro, Russia come partner privilegiato e Cina sorvegliata, ma non nemicizzata. Gli altri, di seconda fascia (India, europei), comunque inquadrati. In tal senso, visto che per un decennio un ordine mondiale così inclusivo è sembrato inattuabile, molti  hanno la tendenza a sostenere che l’emergere di un credibile nemico asimmetrico abbia risolto più problemi di quanti ne abbia creati. Tale tendenza, resa con una battuta che non vuole essere irrispettosa delle sofferenze ed ansie provocate dall’evento terroristico e dalle operazioni belliche attuate nell’operazione Libertà duratura, potrà consolidarsi? E’ presto per dirlo, ma già si può individuare l’evento cruciale che determinerà la risposta. Se la Russia verrà incorporata a pieno titolo nell’Alleanza occidentale e la Cina nei G8 (con l’India nell’agenda di inclusione successiva) si potrà dire che la nuova architettura globale avrà preso una forma piuttosto stabile. Certamente resterà il problema di come satbilizzare l’Islam, ma una cosa è il tentarlo con una troppo piccola coalizione occidentale e un'altra il circondare tale area con una coalizione globale post-occidentale. Evidentemente la potenza combinata della seconda opzione sarebbe tale da minimizzare o gestire meglio gli eventuali problemi previsti e no. Ed è quella perseguita dagli Usa: circondare, prima, l’Islam con un cordone di sicurezza per poi, dopo, rielaborarlo all’interno.

Un particolare “tecnico” è rilevante. Parecchi osservatori avevano individuato nella riluttanza degli Usa a rinunciare all’unilateralismo la maggiore difficoltà nel costruire nuove strutture politiche internazionali a grande raggio cooperativo. L’emergenza ha costretto l’America non a diventare meno unilaterale, anzi, ma a bilanciare meglio l’unilateralismo attraverso maggiori concessioni agli interessi degli altri. Questo è considerato il punto specifico che ha sbloccato il sistema orientandolo verso la nuova coalizione globale.

La bozza di scenario qui data appare tranquillizzante, per lo meno sugli aspetti di grande cornice. Ma lo è veramente? Prima di poter rispondere dovremo aspettare di poter valutare una conseguenza dell’emergere del nuovo nemico. Da una parte, come sostenuto, toglie la necessità di nemicizzare una potenza simmetrica e ciò è piuttosto comodo. Dall’altra, presenta notevoli e nuove scomodità. La guerra con mezzi asimmetrici ha un notevole potenziale di destabilizzazione sia simbolico sia reale (in caso di ricorso ad armi nucleari e biochimiche), soprattutto in una prospettiva dove la finanziarizzazione dell’economia rende il mercato globale sempre più vulnerabile a crisi di fiducia. Ciò comporta la necessità di ridurre a zero il rischio, perché un solo evento può essere fatale, e quindi l’elaborazione di una nuova dottrina della bonifica preventiva delle fonti di terrorismo. Questa è la base concettuale dichiarata dell’operazione “Libertà duratura” che ne definisce anche la caratteristica “senza termine”. Ma quali sviluppi implica? Il più politicamente rilevante riguarda il tasso di anomalia tollerabile di un Paese. “Prima” si poteva accettare che un Afghanistan cadesse in mano a gente strana, che la Somalia restasse in preda all’anarchia. Si isolavano e non producevano grandi danni. “Dopo” non è più accettabile che un Paese possa diventare sede logistica di una fonte di guerra asimmetrica. O che possa adottare mezzi terroristici per scopi locali che potrebbero scappare di mano. In sintesi, la nuova dottrina propone che nessun territorio del pianeta possa restare senza presidio. Qui c’è il nuovo problema. Quanto è lunga la lista? Dipende dal motore generativo del terrorismo. Se è una fazione islamica irriducibile di cui non si prevede che possa esaurirsi culturalmente o attraverso il taglio di una delle sue teste, allora è inevitabile includere nel calcolo qualsiasi Paese disordinato e povero. Perché i terroristi cercheranno di impiantare lì le loro basi maggiori. Poniamo che tale ipotesi sia sensata. La lista conseguente porta il numero dei Paesi da presidiare attorno agli ottanta. Al momento (dicembre 2001) questo computo scoraggiante non è operativo. La lista dei Paesi da bonificare è molto più ridotta e riguarda Stati la cui anomalia è correggibile con sostituzioni delle èlite politiche. Ma se la fonte terroristica restasse forte nonostante il contrasto in atto – non escluso dagli esperti - sarà ovvio che cercherà altri luoghi dove albergare anche senza la necessità di complicità forti con i regimi politici. Appunto, ciò allarga la lista ai Paesi disordinati, ovvero senza capacità di controllo efficace del territorio. E sono molti di quelli poveri e quasi tutti i poverissimi. Tentare di presidiare questi luoghi predisposti all’infezione implica la costruzione di un ordine interno dall’esterno. Con problemi enormi: sospensione delle sovranità che può portare ad accuse di neocolonialismo e reazioni violente conseguenti, strumentali o sentite; costi di entità tale da non ritenerli copribili dall’attuale sistema dei Paesi ricchi anche qualora decidesse di sborsare, ecc. Una parte del problema è  limitabile dal fatto che una coalizione globale, appunto, creerà un forte consenso per gli atti di polizia internazionale e permetterà di assorbire meglio le eventuali controreazioni. Ma ciò non riduce di molto la complessità della combinazione tra nuovo obbligo a presidiare il pianeta in dettaglio e costi e rischi che ciò comporta. Tutti noi speriamo che si riduca il primo termine, cioè un autoesaurimento del terrorismo a seguito o della punizione o per qualche altro fatto, e con questo i problemi del secondo. Ma il punto è che prima di esserne ragionevolmente certi passerà del tempo in cui opererà una strategia fortemente interventista e finalizzata a ridurre le anomalie geopolitiche in tutto il pianeta. Chi pagherà i costi di ricostruzione e stabilizzazione delle nazioni bonificate? Cioè, chi e come metterà la carota a fianco del bastone? Fino a che tale domanda resterà senza risposta lo scenario complessivo, pur orientato verso il bel tempo, rimarrà esposto a tempeste.  

 

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