Ideazione, novembre-dicembre 2002, pp168-175

 

Le nuove frontiere della difesa

 

La difficile evoluzione di un sistema di sicurezza globale

 

Di Carlo Pelanda

 

 

Che i problemi e le soluzioni di sicurezza siano diventati globali non pare una novità né tanto meno terreno inesplorato. Tuttavia, non c’è una dottrina politica in materia che possa dirsi consolidata e condivisa dalla comunità internazionale, almeno da quel gruppo di nazioni che possono esportare la sicurezza stessa. Quindi il terreno, pur frequentato, va coltivato perché non ancora fruttifero.

 

  1. Il criterio

 

Il nuovo, storicamente, oggetto di difesa è il mercato mondiale. Cioè la sua stabilità in relazione a possibili eventi bellici ed economici che possano comprometterne i cicli virtuosi. La ragione di tale criterio è piuttosto ovvia: pur ancora in iniziale e stentata formazione, il processo di globalizzazione ha reso interdipendenti tutte le nazioni del pianeta. Un disordine locale riverbera e si amplia mondialmente. Ed è naturale che l’azione di polizia e controllo debba estendersi su tutto il letto globale. Ma la coperta è rimasta piccola perché le nazioni esportatrici di sicurezza non si stanno consorziando per ampliarla quanto è grande il nuovo giaciglio su cui riposano le nostre speranze.

 

  1. Il gap

 

La differenza tra domanda di nuova sicurezza globale e l’offerta la si nota concretamente nel fatto che solo gli Stati Uniti posseggano una potenza militare capace di intervenire globalmente e di assicurare l’ordine entro un sistema di superiorità strategica. Le nazioni europee non hanno tale capacità pur possedendo il potenziale economico per costruirlo. La Russia ha possibilità limitate e la Cina non ancora indirizzate verso una politica comune, se mai definirà un interesse ad essere parte della soluzione e non del problema. Un’altra nazione dotata di una possibilità regionale di esportare sicurezza è l’India. Ma al momento ha definito una sua politica di autodifesa non connessa ad alleanze ordinatrici esterne ai suoi immediati interessi.

In sintesi, il problema di gap è evidentemente un difetto di architettura politica dove solo l’America può e vuole esportare funzioni ordinative e tutti gli altri o le importano o ne stanno ai margini.

Tale immagine sul piano militare è simmetrica a quella economica. Il mercato interno statunitense importa beni dal tutto pianeta, ma le singole nazioni sommate non fanno altrettanto. Ciò da al mercato mondiale una configurazione anomala: dipende da una sola locomotiva. Tutti gli altri vagoni, parecchi molto scassati. Quanto la locomotiva singola potrà continuare a tirare senza fondere il motore è questione ormai andata oltre gli scenari razionali. Già da tempo dovrebbe essere saltata. L’eccesso di importazioni provoca un deficit commerciale arrivato all’insostenibilità, in una misura vicina al 5% del Pil. Ciò significa che per bilanciarlo in forma finanziaria il mercato statunitense deve attrarre miliardi di dollari al giorno. Ma se tale quantità di capitale globalizzato non ritorna, allora il dollaro cade a picco e l’economia statunitense insieme a quella globale vanno in depressione. Tale problema potrebbe essere risolto riducendo gradualmente il valore di cambio del dollaro (gli esperti discutono una misura utile tra il 10% ed il 25% con una prevalenza della prima) in modo tale da rendere meno competitive le esportazioni europee e giapponesi (e cinesi) e così ridurre il deficit commerciale americano, riequilibrando il sistema complessivo. Ma tale deficit è per l’Europa e per il Giappone un surplus netto. Con la complicazione che senza di questo non potrebbero fare crescita in quanto non ne hanno la capacità interna. Compromessa strutturalmente dall’inefficienza dei loro modelli consociativi e protezionisti. Quindi per questi due la rinuncia al surplus significherebbe dover cambiare sostanzialmente i modelli economici  e di società, liberalizzandoli ed ordinandoli secondo standard di efficienza capitalistica. Poiché ciò promette dissensi formidabili, non riesce a formarsi in queste aree, seconda e terza economie mondiali per grandezza, una politica determinata di riforme. Pertanto se il dollaro punta al riequilibrio l’euro e lo yen vengono o pilotati al ribasso in modo da mantenere elevato il differenziale che aiuta l’export delle aree economiche sottostanti. Così le due locomotive che potrebbero aggiungersi a quella americana per tirare il pianeta restano vagoni. Ed è gap di stabilità economica generale.

Che ha un impatto sui Paesi emergenti. Evidentemente questi potrebbero affiorare meglio se ci fosse un’area più ampia a buona crescita capace di assorbire il loro export in attesa che i mercati interni in via di sviluppo diventino capaci di consolidare il proprio ciclo economico. Ma ciò non sta avvenendo e l’anomalia della locomotiva unica diviene un rischio di crisi per altri 180 Paesi. Ed è un gap di traino che peggiora quello precedente.

In sintesi, il problema è molto chiaro. Le nazioni che potrebbero esportare ricchezza e sicurezza non lo fanno e ciò rende squilibrata la funzione ordinatrice complessiva svolta dagli Stati Uniti.

 

  1. L’orgogliosa fatica di Atlante

 

Tale problema è rimasto ai margini delle priorità politiche per una strana convergenza tra Usa ed europei nel non volerlo risolvere.

Nelle èlite politiche dei primi c’è la sensazione che la potenza disponibile sia tale da poter continuare, pur infastiditi dalla solitudine e suoi costi, a gestire il pianeta come potere singolo solo lievemente cosmetizzato dalla multilateralità selettiva dei G8. In effetti mai è successo, dopo la caduta dell’Impero romano, che un potere fosse così  grande e sproporzionato in relazione agli altri nelle relazioni internazionali. L’America è di gran lunga superiore a tutte le altre nazioni in qualsiasi materia venga presa a riferimento: dalla forza militare all’efficienza economica, dalla produzione scientifica alla leaderhip culturale. E tale situazione sta creando un fenomeno buffo. Il dibattito nazionale negli Usa si concentra sul come usare questo enorme potere. Con punte irrealistiche, tipo l’invocazione a gestirlo in modo gentile perché è talmente grosso da permettere bonarietà (si veda International Affairs, estate 2002).

In realtà tale enorme forza, pur innegabile la sua superiorità, non è sufficiente a tenere in ordine un pianeta intero, né sul piano economico né su quello militare. Al riguardo del secondo, in particolare, è vero che gli Usa possono esportare sicurezza in parecchi luoghi contemporaneamente, ma è altrettanto vero che non possono farlo bene dove serve e quando è esattamente utile. Quindi è un potere illusorio se rapportato alla scala mondiale.

Ma non c’è consapevolezza. Per esempio, di fronte al problema di presidio di una varietà di luoghi la risposta di fronte all’insufficienza è quella di ascarizzare gli alleati affinché si occupino delle questioni minori lasciando le truppe e mezzi americani la possibilità di concentrarsi su quelli maggiori. Certamente può essere una teoria tappabuchi. Ma è evidente la vulnerabilità che così si crea. Ad un aggressore con interessi destabilizzanti basterebbe far scoppiare necessità di intervento in quindici luoghi per mandare in tilt la capacità ordinativa americana comunque sostenuta dai deboli alleati. E probabilmente non è un caso che il piano originale di Al Quaida fosse quello di poter minare almeno 60 Paesi proprio per produrre tale effetto. Il fatto che non sia riuscito non modifica la vulnerabilità.

Ma negli Stati Uniti la percezione di una crescente fatica di Atlante, pur vista in modo preoccupato, non ha ancora portato ad una esplicitazione del limite del potere americano e relativa chiamata agli alleati. In parte perché gli Usa, correttamente, non si fidano né della consistenza tecnica né di quella politica degli alleati stessi. E si sentono costretti a continuare da soli perché se no nessuno lo farebbe. D’altra parte, giocano in questo atteggiamento sia un orgoglio di essere irraggiungibili primi sia una sopravalutazione del loro potere nei confronti dei nuovi compiti.

Per esempio, nel 1998 l’autorità monetaria statunitense ha ribassato il costo del denaro molto di più di quanto fosse necessario per le condizioni, piuttosto buone, del mercato interno allo scopo di inondare di liquidità quello globale scosso dalla crisi asiatica e russa di insolvenza. Tale azione poi fu una causa non secondaria della bolla borsistica  che rigonfiò oltre misura i valori finanziari e ne causò il successivo e violento sgonfiamento. L’America paga un prezzo crescente per il suo dominio globale singolo, ma è intrappolata sia dal non volerlo ammettere sia dal non poterlo per mancanza degli altri.

 

  1. Lo struzzo europeo

 

Chiedere al Giappone di contribuire di più all’ordine mondiale sarebbe troppo. Sarà tanto se riuscirà ad uscire dalla crisi bancaria entro il 2003, evitare quella del debito nel 2005 e riuscire a stabilizzare la propria crescita, interrotta dal 1992, entro il 2010. Ma gli europei, pur non essendo – Germania in particolare – in condizioni tanto migliori hanno una scala simile a quella americana e per questo sono i candidati naturali e più importanti a fare sia da seconda locomotiva globale sia ad agire come partner strategici più efficienti ed efficaci. Ma non si vede l’ombra di tale assunzione di responsabilità.

Singole nazioni, come il Regno Unito e più recentemente l’Italia, stanno incrementando il loro contributo all’esportazione della sicurezza. Ma tale miglioramento parziale non cambia il quadro perché non mobilizza la scala delle risorse necessarie.

Il quadro è penoso sul piano militare. La discussione sulla formazione di una difesa europea fortunatamente è in sviluppo, ma sfortunatamente è letteralmente ridicolo. La montagna sta partorendo un topolino che bene che vada vorrà e potrà svolgere missioni si e no a quattromila chilometri dai confini dell’Unione. E a velocità strategica autolimitata: i nuovi requisiti degli interventi di stabilizzazione richiedono la massima tempestività, il periodo più breve di dispiegamento previsto per le truppe europee sarà di due mesi. Ridicolo, appunto. Per altro la forza europea non è sostenuta da mezzi per trasportare le truppe a lungo raggio. Senza una marina integrata capace di proiettare potenza nel globo. Senza piattaforme spaziali. Con poche truppe realmente addestrate per combattere e con i mezzi moderni per farlo.

Forse è esagerato criticare oltre misura il lato militare della questione. Le missioni di difesa nazionali dei Paesi europei sono state finora di natura diversa dall’esportazione di sicurezza. E in materia militare i tempi di conversione di una forza sono lunghi. Quindi il personale militare non ha colpa della situazione. Ma questa era nota da tempo e la responsabilità è massima per i livello politico.

Con un risultato esilarante se non fosse preoccupante: la sicurezza è globale, altrettanto globali sono gli interessi economici europei, ma la capacità di questi di assolvere il compito è zero.

Per questo l’Unione è costretta a cercare di esportare sicurezza via carote perché di bastoni ne ha pochi. Ma in un mondo piuttosto cinico i secondi sono efficaci, le prime meno se non bilanciate con la capacità di dare una bastonata quando serve.

In sintesi, gli europei sono gli struzzi militari ed economici del pianeta. Potrà cambiare tale situazione di pericoloso gap per causa loro (nostra)? Purtroppo lo scenario non è ottimistico.

La società europea è in buona parte debellicizzata sia per l’abitudine a farsi difendere dagli americani sia per l’estensione dell’irrealismo pacifista. Quindi non esistono le condizioni di consenso per connettere la razionalità di una difesa globale con i  propri interessi. Risulta perfino difficile convincere uno che sta manifestando per la pace, in genere e senza sapere bene perché, quanto il prezzo del petrolio, per esempio, dipenda dalla capacità di dissuadere chi vorrebbe creare instabilità utili ad alzarlo. Tende a rispondere che i valori sono più importanti. Ovviamente la stessa persona manifesterà se il prezzo della benzina andasse a 5 euro al litro contro i governi che non fanno niente per ridurlo. E l’esperienza corrente non fa sperare che questo cortocircuito logico sia riparabile in fretta. La cultura europea soffre di una massa critica eccessiva di espressioni che non raccordano i fini con i mezzi per ottenerli, rendendo così difficilissimo l’esercizio di una politica realistica.

Ciò apre lo scenario ad una variante che incrementa la vulnerabilità europea e dell’ordine mondiale poggiato sul pilastro occidentale. Un qualsiasi avversario degli Usa può contare su una maggiore probabilità di dividere europei ed americani. Basta riuscire ad accendere situazioni di guerra in qualche parte del mondo. Perché è prevedibile che gli Usa tenderanno a rispondere, correttamente, con la forza anche allo scopo di dissuadere futuri mestatori, mentre gli europei saranno ritrosi non solo nel combattere, ma anche nel dare consenso alle azioni militari. Quindi ogni nemico dell’Occidente ha una nuova risorsa: basta sparacchiare un po’ e gli europei divergeranno dagli americani, rompendo così il fronte occidentale. Esattamente quello che Al Quaida ed i regimi islamici che ne sostengono sottobanco gli sforzi hanno tentato di fare attaccando solo gli Usa e lasciando in pace, finora, l’Ue. Messaggio: se state buoni, non vi toccheremo. Messaggio raccolto da alcuni europei che a porta chiuse caldeggiano una sicurezza europea basata sulla neutralità.

Ovviamente non colgono che tale neutralità ha valore come divergenza dagli Usa agli occhi un possibile nemico. Se gli americani diventassero più deboli anche la neutralità avrebbe meno peso e l’Europa diventerebbe più oggetto di ricatti. Oltre che più impedita nel suo potenziale, remoto, di esportare sicurezza.

Nonostante questo quadro negativo c’è una piccola speranza di sanare in parte le cose attraverso una coalizione di Paesi che veda il Regno Unito, l’Italia e la Spagna contrapposti a Francia e Germania. I secondi molto divergenti dalle responsabilità di ordinamento mondiale in alleanza con gli Usa, i primi più disposti. Per lo meno vi potrebbe essere un bilanciamento tale da limitare la divergenza e permettere un’evoluzione lenta verso un sistema euroamericano che avrebbe scala e forza per assicurare sicurezza e traino economico al resto del mondo.

Ma questa buona prospettiva, nel migliore dei casi, sarà molto lenta e lascia il gap non colmato per almeno i prossimi 15 anni.

 

  1. La nuova strategia

 

Quindi per molto tempo ancora la sicurezza mondiale dovrà essere assicurata dalla forza singola degli Usa. Fortunatamente quella nazione sta attrezzandosi per svolgere il compito pur restando i limiti di scala detti sopra.

La dottrina della guerra preventiva è una risposta adeguata al rischio che le guerre possano avere un’escalation di tipo nucleare e biochimico. Chi ha armi di distruzione di massa o vuole costruirle – piuttosto facile, purtroppo – e non fornisce garanzie di comportarsi come membro responsabile della comunità internazionale verrà sottoposto a bonifica preventiva. La dottrina sembra spietata ed imperiale. In realtà è adeguata ai tempi. Un solo colpo nucleare o simile creerebbe una crisi di sfiducia tale da compromettere per anni il circuito finanziario globale. Quindi chi vuole avere una pensione decente e chi ha cuore lo sviluppo dei paesi poveri dovrebbe dare consenso a tale concetto.

Più tecnicamente, la dottrina Bush sostituisce quella formulata da Truman. La seconda privilegia il contenimento dei disordini geopolitici e, per questo, interviene quando i pericoli sono in atto, riservandosi un tempo lungo per minimizzarli. L’azione preventiva, invece, è finalizzata a stroncare un pericolo sul nascere. Nulla di più adeguato ai tempi vista l’evoluzione qualitativa del pericolo stesso, forse un po’ in ritardo a causa dei tentennamenti in materia della presidenza Clinton negli anni ‘90.

Come collocare il contributo di un Paese tipo l’Italia in un contesto di assenza europea, ma entro una Nato che sarà sempre più spinta fuori area dalla pressione americana, e sempre più invitata a sostenere azioni preventive? Evidentemente sostenendo lo sforzo statunitense nei limiti di quello che il nostro Paese può realisticamnte fare, ma cercando uno spazio di rilevanza politica che eviti il pericoloso effetto di ascarizzazione. E ciò lo si ottiene diventando più attivi e non certo di meno in questa missione di contributo. Ma l’attivismo va messo in priorità in direzione di un’azione di stimolazione europea sia per accelerare l’efficienza dell’Unione sia per portarla verso la formazione di un sistema euroamericano più integrato. Pare che la linea del governo vada in questa direzione e che tale raccomandazione, una volta tanto, sia in linea con i fatti.

 

  1. Il fabbisogno di una nuova architettura globale

 

Tuttavia non nascondiamoci il fatto che fino a che il mercato globale non troverà una architettura politica altrettanto globale finalizzata ad ordinarlo il nostro rischio, come cittadini esposti a bombe nucleari e a crisi economiche, resterà elevato. La potenza americana non potrà ridurlo tutto da sola e a livelli accettabili.

Quindi la direzione delle riflessioni in materia di sicurezza dovrebbe spingersi verso un’idea di maggiore condivisione internazionale delle funzioni ordinative. E’ chiaro che per tale scopo il maggiore problema sarà quello di convincere gli Usa ad accettare più vincoli multilaterali. Fatto simmetrico a quello di una loro evoluzione in direzione di una maggiore responsabilità. Per esempio, il G8 evolve anche come luogo di comando di un’architettura strategica, ma gli Usa accettano di farsi vincolare solo a condizione che gli altri producano più forza ordinativa sia militare sia economica.

Sarà molto difficile muovere le cose affinché arrivino a tale strutturazione di un sistema di locomotive multiple e coordinate. Ma non c’è altra strada realistica e non possiamo fare altro che tentare di percorrerla.