La democrazia prossima ventura

 

Di Carlo Pelanda

 

Ideazione, marzo-aprile 2001,  pp: 109 - 116

 

 

In essenza, la rivoluzione democratica si è finora basata su un concetto guida: dare ai più quello che è in mano solo a pochi. Dalla fine del 1700 ad oggi, nell’Occidente, sono stati trasferiti tre poteri dalle aristocrazie alle masse: la proprietà politica della società (costituzioni e parlamenti), la sicurezza (Stato di diritto) e gli accessi della ricchezza  (Stato delle garanzie). Oggi tale rivoluzione distributiva sembra aver raggiunto due limiti, uno verticale (contenuti) e l’altro orizzontale (territoriale):

  1. Limite evolutivo: nei paesi avanzati la politica democratica risolve sempre meno i nuovi problemi dell’individuo pur avendo risolto abbastanza bene quelli vecchi.
  2. Limite espansivo. Il modello democratico di tipo occidentale fa fatica ad imporsi in tutte le nazioni del mondo, pur queste sempre più parti attive del mercato globale

 

Questa analisi andrebbe raffinata, ed invito a farlo, ma i dati indicano con chiarezza che dobbiamo ripensare seriamente al ridisegno del sistema democratico, se vogliamo mantenerlo in vita come teoria guida della politica planetaria e strumento efficace della rivoluzione distributiva.

 

  1. La ricarica politica dei modelli democratici maturi

 

.  La massa dei votanti nei paesi ricchi, in generale, sta riducendosi attorno al 50%. Da una parte questo è un buon segno: vuol dire che il fabbisogno di accesso alla ricchezza per via politica è diminuito, che le ideologie si sono moderate. Dall’altra, se il successo della democrazia implica la sua tendenza alla sparizione o ad una contrazione distorcente del meccanismo rappresentativo, vuol dire che il modello non funziona. Perché?

 La politica, nelle democrazie, è diventata un potere in concorrenza con altri e non il “potere”. E’ un effetto della rivoluzione distributiva: la politica ha ceduto molta sovranità al mercato. Il secondo da e toglie ricchezza senza che la politica possa farci qualcosa. Perché uno che vive di mercato dovrebbe interessarsi tanto di politica? Chi ha ancora bisogno della politica la pratica, la segue e la vota. Ma sempre più persone, in Occidente, ne possono fare a meno.  Questa non è la causa unica della crisi di partecipazione. Ma è quella più  rilevante. Perché indica che la politica sta perdendo importanza agli occhi dei cittadini.

 Ciò porta all’ipotesi che la società percepisca come esaurita l’era della rivoluzione distributiva: non resta molto da trasferire dalle mani dei pochi a quelle dei più. In effetti la fase distributiva di beni e risorse evidenti è finita: proprietà, sicurezza e accessi al denaro. Tuttavia comincia ora una nuova fase della rivoluzione democratica: il problema della distribuzione di risorse più raffinate, meno visibili e comprensibili ai più. Che, per questo, non chiedono alla politica di dargliele. Minore il fabbisogno del vecchio e non percepito quello del nuovo, la domanda di politica diminuisce. E l’offerta si adegua, degradandosi.

 Va detto a chiare a lettere che la politica, invece, sta diventando perfino più importante del passato. Su due nuovi temi oggetto di distribuzione non ancora avvenuta: (a) conoscenza e (b) bio-opportunità.

  A) La nuova economia è tale perché trasforma più velocemente e diffusamente che nel passato la conoscenza in ricchezza. Ma quale conoscenza? Una di grado molto più elevato di quello fornito dai sistemi educativi attuali. Che al momento è posseduta da pochi, èlite intellettuali. La gran parte delle persone non si è ancora accorta di quanto giocherà nel futuro il differenziale cognitivo e quanto sarà discriminante nel definire  i ricchi ed i poveri. Non chiede alla politica più educazione. E quando gliela chiede non sa definirne la misura, se non in termini di diplomi scolastici ed universitari da raggiungere. Ma il fabbisogno reale è ben maggiore. Per rendere di massa la conoscenza utile a praticare la nuova economia ipertecnologica bisognerebbe investire su ciascun individuo, nella vita iniziale, una massa enorme di risorse, di gran lunga superiore alla capacità di spesa della classe media. Il denaro mancante dovrebbe essere reperito attraverso una riforma del patto fiscale di una nazione. Meno soldi all’apparato pubblico ed a funzioni assistenziali per la vita matura e più denari per gli investimenti del capitale umano (nell’ambito di tasse decrescenti per rendere più dinamico il mercato). Questo sarebbe, in soldoni, il modello della nuova Società cognitiva. Dove ogni individuo diviene talmente carico di contenuti conoscitivi da poter trovare un proprio valore di mercato senza bisogno di garanzie ridistrubitive o protezioniste e relativa mediazione politica. Tale tendenza è un’opportunità che  già esiste nelle cose. Ma è ostacolata, appunto, dal fatto che la politica non propone questa nuova rivoluzione conoscitiva di massa. Anche perché sarebbe in conflitto con l’allocazione delle risorse correnti dei denari fiscali: il padre impiegato pubblico si trova in conflitto con il figlio che, per ricevere le dovute risorse educative, avrebbe bisogno che il costo del padre fosse eliminato e trasferito a suo favore. Inoltre la gran massa degli elettorati non ha ancora comprensione della sfida cognitiva.

 Quindi la democrazia matura avrebbe bisogno, in realtà, di una rivoluzione distributiva sul piano della conoscenza. E la politica resta centrale perché è l’unica che può fornire le risorse per tale trasferimento di massa. Da una parte, il mercato spingerà per l’aumento delle capacità cognitive ed delle persone. Già oggi, in America, si guarda con preoccupazione alla mancanza di personale qualificato per le nuove imprese tecnologiche e si teme che ciò rallenti lo sviluppo del settore e, soprattutto, la crescita della produttività (valore monetario di un’ora di lavoro) che tiene a bada l’inflazione. Ma la scala della riforma per costruire la società cognitiva è tale da implicare un cambiamento radicale dei sistemi politici e delle missioni dello Stato. Non può avvenire per via “naturale”: è la politica che deve generare le nuove infrastrutture della Società cognitiva.

 Ora c’è una considerazione cruciale. Fino a che c’era da togliere troppo denaro in mani di troppo poche persone, la cosa era facile da comunicare ed era oggetto di desiderio da parte delle masse, cioè di forte domanda. Nel caso della distribuzione di risorse cognitive l’oggetto è più raffinato ed immateriale, sfuggente ai più. Quindi la politica non può alimentarsi di una domanda pressante, ma deve suscitarla. Ciò spiega il ritardo progettuale in materia. E fa capire perché il cittadino medio pensi che la politica sia meno importante. E ci indica la strada dei nuovi progetti politici (che io ho tentato di affrontare, nelle mie ricerche sugli scenari futuri, in termini di transizione dallo Stato sociale allo Stato della crescita, cioè di costruzione vera e proprio di un nuovo modello di Stato).

  Senza rivoluzione cognitiva di massa, alla fine, potremo o non avere più un’economia crescente oppure una molto differenziata per capacità conoscitive. Il povero perché ignorante, in ambedue i casi, si ribellerà. Ma sarà tardi per evitare un conflitto. Poiché la democrazia è uno strumento di compensazione delle tensioni sociali, è chiaro che per continuarle a fare questo importante lavoro, vada ricaricata nei contenuti politici: capacità di offrire le nuove frontiere della rivoluzione distributiva sul piano della conoscenza.

  B) Uno scenario molto simile riguarda la costruzione di un ambiente favorevole allo sviluppo delle nuove biotecnologie. Ma ci porterà ad una conclusione diversa. In questo caso, oltre al ricarico di contenuti, bisognerà apportare alcune modifiche costituzionali ed istituzionali ai sistemi democratici occidentali. La rivoluzione biologica è in atto, ma il suo ritmo è rallentato da barriere bioetiche e di cautela di peso esagerato. La biorivoluzione è un cambiamento totale della vita: potrà guarire mali considerati inguaribili attraverso le terapie geniche. In generale potrà allungare il raggio temporale della vita e, nel futuro, produrre scenari di non necessità della morte. Tutto questo, a cui va aggiunta la nascita di un’ecologia artificiale, spaventa le persone perché annuncia un mondo nuovo troppo diverso da quello vecchio. Inoltre, per il suo contenuto di rivoluzione epocale, suscita dissensi totali da gruppi ideologici antagonisti. Questo sarà il caso dove avremo più bisogno di una politica protagonista e di una  democrazia ben funzionante.

 Pensate a due esempi. Poniamo che l’Occidente metta al bando certi esperimenti di nuova biologia. Gli scienziati migrano, per dire, in Cina dove non c’è né democrazia né tantomeno bioetica. Tirano fuori un bioprodotto senza controlli e questo crea una pandemia mortifera in tutto il pianeta. Oppure: vendono un trattamento che tiene giovani fino a 150 anni, ma al costo, per dire, di un milione di euro (quasi due miliardi di lire). In questo secondo caso avremo il rischio che la differenziazione economica ne comporti una fisiologica ed estetica: povero e vecchio, ricco e sempre giovane e bello. Conflitto sociale totale assicurato. Nel primo, si capisce come la democrazia sia il miglior ambito politico per la sperimentazione di prodotti potenzialmente dannosi. Un sistema basato sul bilanciamento e sulla trasparenza ha più facilità nel definire un approccio razionale: non blocco il nuovo, ma ne  garantisco l’innocuità. Atteggiamento, alla fine, utile per rassicurare la società e ridurre il tasso di dissenso su materie poco note al più della popolazione.

 La rivoluzione biologica è un produttore certo di benefici. Ma deve essere incanalata entro argini che non la facciano né straripare né inaridire. In termini di contenuti, l’offerta politica dovrebbe organizzarsi per gestire tale scenario come opportunità: lo è. Si tratta di trasferire un bene depositato nella mente di pochi nei corpi di molti. Quindi è un altro passo della rivoluzione distributiva. E su questo possiamo contare. Tuttavia la portata del cambiamento è tale da non rendere semplice il giusto mix tra libertà sperimentale e regole di sicurezza che rassicurino. E probabilmente ci vuole un’evoluzione istituzionale.

 Le nostre costituzioni non prevedono i diritti tecnologici né lo spazio di regolazione calibrata delle sperimentazioni che possono cambiare la vita dell’uomo. Bisognerà aggiungerle. Per esempio: se voglio ampliare gli spazi di sperimentazione devo bilanciare questa prospettiva con la creazione di istituzioni che assicurino un controllo credibile (istituzioni di biocibernazione). Perché di livello costituzionale? Per evitare che una materia tecnica così delicata sia sottoposta alle vaghezze della politica quotidiana. In sintesi, ci vuole anche un’evoluzione formale degli istituti democratici per renderli registi della rivoluzione distributiva della nuova biologia e tecnologia.

 Con questi pochi cenni si vuole solo indicare che nelle democrazie mature non è per niente finita la stagione delle rivoluzioni distributive e che questa continua in nuove forme. In questa materia si deve aprire uno spazio di ricerca ancora troppo poco frequentato e che suggerisco di riempire in fretta.

 

  1. La costituente democratica globale

 

 Al di fuori dell’Europa e dell’America (ed ex-colonie anglofone) non riesce a diffondersi un modello democratico di Stato di diritto che sia solido e funzionante. Come risolvere questo problema di limite espansivo della democrazia?

 Due miliardi di persone vivono in sistemi dove la democratizzazione è considerata un pericolo ed osteggiata (Cina, buona parte dei paesi islamici). Altri due miliardi e mezzo vivono in sistemi di democrazia solo nominale o inefficiente. Mezzo miliardo è fuori dal mondo per povertà totale. E solo un miliardo vive in democrazie funzionanti.

 La politica occidentale attua una pressione costante per imporre l’avvio di un processo di democratizzazione e per migliorarlo dove già esiste in una qualche forma. Tale spinta viene esercitata dando ai paesi emergenti l’accesso alla comunità internazionale in cambio di concessioni democratizzanti. Dall’altra, tale condizionalità viene moderata da interessi geopolitici: non si può spingere la pressione oltre ad un certo punto di conflittualità, prevalgono altri criteri (strategici, economici, ecc.). Tale approccio, comunque, sta producendo dei risultati migliorativi. Per esempio, la Cina non ha democratizzato, ma ha aumentato di molto le garanzie individuali. Quindi ci sarebbero delle basi concrete per sperare che, lentamente, passo dopo passo questi sistemi si aprano alla rivoluzione distributiva delle libertà, dei poteri e delle garanzie economiche.

  Ma altri dati inducono al pessimismo. Per esempio, nel sistema asiatico la diffusione della libertà economica produce un consenso che bilancia l’assenza di libertà civili o riduce le seconde a minoranze intellettuali. Di piccola scala e quindi controllabili da un apparato repressivo centralizzato. Pertanto il convincere chi è al potere che la democrazia sarebbe un sistema migliore di ordinamento ottiene la risposta che ce ne sono altri altrettanto buoni e che implicano meno rischi. E a modo loro avrebbero ragione. La democrazia è stato un risolutore di instabilità nell’Occidente e nella sua cultura specifica. In altre culture possono funzionare altri metodi compensativi e distributivi e non riusciamo a dimostrare in modo assoluto che quello democratico sia universalmente migliore. In sintesi, è più facile esportare la Coca Cola che la democrazia. Ciò porta a considerazioni difficili e politicamente scorrette, ma di forte sostanza strategica.

 In realtà le istituzioni democratiche ed il loro effetto sociale sono il miglior stabilizzatore ed allo stesso tempo motore di modernizzazione che conosciamo nella cultura planetaria. Il nostro interesse è che i paesi emergenti restino stabili quando cresceranno ancor di più sul piano demografico ed economico. Saranno parte di un mondo globale e i loro eventuali guai ricadranno direttamente su di noi. Quindi dobbiamo imporre loro la democrazia sia per fiducia nei nostri valori sia perché non possiamo fidarci di metodi meno potenti di compensazione delle tensioni sociali che rischierebbero di produrre conflitti o crisi economiche incontenibili. E ci interessa anche evitare che i paesi emergenti, senza i costi della democrazia, ci facciano concorrenza sleale (dumping sociale).

 Come? Il potere geopolitico dell’Occidente dovrebbe unirsi (America ed Europa) ed imporre con la sua forza una Costituzione globale, da applicarsi evolutivamente, ma con passi e progressi controllabili. Tutte le nazioni dovrebbero firmarla ed aprirsi ai controlli della comunità internazionale. Ovviamente tale atto va compiuto perseguendo la via più consensuale possibile. Il che significa due cose: (a) concepire un modello di democrazia fatto per passi distinguibili ed applicabili cumulativamente ed evolutivamente, con la possibilità di generare varianti che si applichino meglio a diverse nazioni e culture (per esempio a quella islamica); (b) governare il processo di democratizzazione con un sapiente dosaggio di bastone e carota, cioè imporre l’agenda con metodi condizionali, ma lasciando il massimo spazio ai paesi interessati per definire la loro via alla democrazia.

 Il primo punto è tecnico e corrisponde ad un compito di ridisegno della democrazia per farla espandere meglio globalmente. Su questo non c’è attualmente produzione scientifica o applicativa rilevante. Anche perché il secondo non è discusso ed affrontato con determinazione, considerato o fantascientifico o comunque troppo complesso per essere perfino tentato (il problema critico di condizionare le sovranità altrui e relativi conflitti). Così ci troviamo in stallo. Per questo dobbiamo decidere, in Occidente, di cui l’Italia è parte influente, se vogliamo guidare il mondo con la nostra cultura democratica, che sappiamo essere moralmente consistente e tecnicamente robusta, o se vogliamo essere guidati da altre logiche di paesi emergenti che lo sono di meno e che rischiano di ripercorrere tutti gli errori che abbiamo fatto noi negli ultimi secoli. Questa è la decisione critica  e la  sottopongo a dibattito.