La nuova alleanza tra Stato e mercato

( Titolo originale )

 

Di Carlo Pelanda

 

Settembre 2000

 

 

 

 Non può più esistere un conflitto tra Stato (luogo di produzione e gestione delle garanzie) e mercato (luogo di generazione della ricchezza). I due, invece, debbano allearsi ed integrarsi in modo complementare in una sinergia perfetta. Le analisi realistiche, infatti, mostrano che proprio la mancanza di tale complementarietà è il principale motivo per cui non si riesce a bilanciare il processo di creazione della ricchezza con quello della sua diffusione sociale.

 Nei casi dove lo Stato pretende di creare ricchezza (socialdemocrazie o comunque modelli di statalismo assistenziale) il mercato viene caricato di una missione ineseguibile, quella di fornire garanzie economiche. E per questo cresce di meno di quanto potrebbe nei momenti buoni del ciclo internazionale, soffre di piu’ in quelli cattivi, condannato ad una stagnazione endemica che non permette una costante evoluzione modernizzaznte. L’Italia e l’Europa continentale sono perfetti esempi di questo errore. Nei casi, d’altra parte, dove si cerca di attribuire al solo libero mercato la missione di diffondere la ricchezza si compie un altro tipo errore: il mercato capitalistico e’ uno stupendo creatore di opportunità, ma non ha strumenti diretti - o comunque insufficienti - per fornire alle persone le capacità di coglierle. Per esempio, nessuno si aspetta che il mercato finanzi direttamente i giovani  studenti affinche’ dopo venti anni, per dire, questi diventino ottimi produttori e consumatori. Cioe’ abbiano un valore di mercato e la capacita’ di riprodurlo in forma di ciclo espansivo. Sarebbe un investimento troppo remoto ed indiretto, finanziaramente inaccettabile. Per tale motivo il mercato, intrinsecamente, non possiede tutte le facolta’ necessarie alla sua continua riproduzione. Per questo ha bisogno di un sostegno complementare che organizzi ed allochi le risorse con criteri diversi da quelli della remunerazione diretta e ravvicinata: una sorta di Merchant Bank che investa oltre l’orizzonte del mercato stesso (infrastrutture, sicurezza, legalita’, educazione di massa, risocializzazione dei deboli, ecc.). E questa la possiamo chiamare Stato. Definito come quel luogo di gestione di risorse utili al mercato che il mercato stesso non puo’ gestire all’interno dei propri criteri. In sintesi, Stato e mercato avrebbero, in teoria, missioni ben definite e perfettamente complementari: lo Stato deve garantire le condizioni indirette della riproduzione espansiva del mercato; il mercato deve occuparsi dei processi diretti di creazione della ricchezza. Le difficolta’ nel bilanciare creazione e diffusione della ricchezza, cioe’ nel creare le condizioni di un capitalismo veramente di massa,  derivano dal fatto che i modelli politici delle democrazie occidentali non riescono a definire con precisione le missioni specifiche dell’uno e dell’altro e, soprattutto, fanno fatica ad individuare l’interfaccia che integri le funzioni complementari tra Stato e mercato.

Tale situazione è sorprendente ed irritante perché, almeno sulla carta, non appare impossibile risolvere il problema del bilanciamento. Come mai non sta avvenendo? Finora la sinistra ed il centrismo (sedicente) solidale, in Europa, hanno avuto il monopolio del disegno delle garanzie, sbagliandole clamorosamente tutte. Negli ultimi cinquanta anni ha generato o influenzato sistemi istituzionali incompatibili con il mercato e di fatto in conflitto con questo. Che, infatti, dove realizzato il modello di Stato sociale pesante (o come economia sociale di mercato, in Germania, o come assitenzialismo populista, in Italia, o come statalismo nazional-dirigista in Francia) ha reagito non crescendo e trasformando quindi le garanzie cosi’ mal disegnate in fonte piu’ di poverta’ che di ricchezza. Da una parte, tale errore, nel passato, ebbe cause oggettive e non solo ideologiche.  Le sinistre ed i centristi solidali europei si trovarono negli anni ’60 e ’70 alle prese con un enorme domanda sociale di garanzie assistenziali, spesso organizzata militarmente dai sindacati, e reagirono a tale pressione con misure d’emergenza:  allargando i cordoni della spesa pubblica per tener buona la gente. Anche spinti in questo dagli Stati Uniti che, temendo una  destabilizzazione interna del fronte occidentale a favore dei sovietici, stimolarono il ricorso a tale metodo antieconomico di finanziamento del consenso. Niente da dire, erano altri tempi. D’altra parte, dagli anni ‘80 in poi l’emergenza strategica comincio’ ad attenuarsi e, poi, fini’. Ma gli Stati sociali pesanti europei, invece di alleggerirsi, restarono in assetto “ di guerra ”. E qui, francamente, non ci sono attenuanti per la continuazione dell’errore. Sapevano, perche’ era chiaro nei dati,  che tale sistema di garanzie squilibrato sul lato socialista era insostenibile, che provocava disfunzioni di ogni tipo e che stava mantenendo arretrata l’economia continentale (il Regno Unito, grazie al governo Tatcher, riusci’ a liberalizzare e a salvarsi dalla crisi di competitivita’ economica che attanaglia l’Europa continentale dai primi anni ‘90). Ma non fecero alcuna riforma, se non di consolidamento relativo degli squilibri tecnici del bilancio pubblico. In Italia manco questo. Per tre motivi: (a) i politici traggono ovviamente vantaggi enormi (personali e partitici) dal maneggiare molta spesa pubblica che transita in luoghi dove possono deciderne gli indirizzi e la maggioranza di questi non trovo’ i motivi morali e di serieta’ tecnica per rinunciare a tale cuccagna; (b) questi interessi concreti favorirono la perpetuazione e, perfino, un maggiore radicamento della cultura politica antagonista, cioe’ dello Stato buono contro il mercato cattivo, che dava una copertura filosofica – una dottrina morale - alla gestione del bottino e del malaffare; (c) buona parte della popolazione europea  si trovo’ cosi’  a lavorare in un mercato protetto e solo una minoranza relativa in quello competitivo, a causa dell’estensivita’ del regime assistenziale. Quindi maturo’ l’interesse pratico a dare consenso al sistema in atto ed a perpetuarlo nonostante l’evidente insostenibilita’ tecnica. I politici, di fronte a questa configurazione del consenso, non poterono far altro che inseguirlo, i pochi riformatori sconfitti, i molti opportunisti premiati, in particolare quelli dei deiversicentrosinistra europei nel passato recente. In sintesi, ancora oggi in quasi tutta l’Europa continentale ci troviamo nell’assurda situazione di fare i conti con una cultura politica dominante che considera lo Stato un qualcosa che deve combattere il demonio mercato. Soprattutto – qui il punto – l’incrostazione socialista rende difficile trovare nuove soluzioni istituzionali che mettano in equlibrio efficienza capitalitica ed efficacia sociale dell’economia. A sinistra, infatti, neanche ci provano, sul piano concettuale, preferendo indulgere in lamentele sulla crisi dello Stato sociale. Oppure propongono semplici riduzioni delle garanzie, pensando erroneamente che solo tagliando un pochino i costi della socialita’ redistributiva (la buffa Terza via) tale equilibrio possa realizzarsi.  Si sta smontando lo Stato sociale redistributivo sconfitto dalla realta’, ma senza costruirne uno nuovo, con altrettanto nuove garanzie. E tale situazione indebolisce sempre di piu’ la societa’: meno garanzie, quelle che restano comunque deprimono il mercato. Infatti la poverta’ in Europa, alla fine del 2000, sta aumentando. Sia in termini di  quantità di persone che vivono con la meta’ del reddito medio sia come appiattimento verso il basso della classe media. Non e’ catastrofe, ma un lenta e penosa decadenza. Un crimine morale, un disastro intellettuale, un grave errore di economia tecnica.

 La situazione sopra descritta ha impedito l’emergere e l’evoluzione pragmatica di un pensiero liberista di controparte e di “governo”. La dominanza dello statalismo antagonista era tale, in tutta Europa, da comprimere i liberisti (ed i cultori della sua sana economia tecnica) entro piccole tribù minoritarie. E questi benemeriti eroi solitari non hanno potuto far altro che ripetere all’infinito i paradigmi del liberismo, per tenerne in piedi almeno la fiammella. Così il liberalismo economico e politico europeo – continentale - non è evoluto dalle sue forme piu’ astratte ed antiche, codificate nei classici (che per altro era difficile far circolare perché le università, i media e le case editrici erano dominate dalla sinistra e suoi dintorni). Così siamo attualmente privi di un pensiero liberista capace di confrontarsi pragmaticamente con la modernità: infatti gli amici liberisti tendono a proporre vecchi ritornelli e non nuovi disegni: meno Stato più mercato. Oppure, hai un problema di ricchezza nella tua nazione? Semplice, liberalizza tutto di colpo e vedrai che lo risolverai. Che e’ sacrosanto sulla carta ed in generale. Ma non basta per costruire un modello politico concreto capace di creare ed allo stesso tempo diffondere bene la ricchezza. Lo mostrano i dati: il libero mercato funziona sia in generazione sia in distribuzione naturale della ricchezza solo a condizioni rare: tutta la gente perfettamente istruita, intellettualmente e fisicamente molto mobile, la moneta solidissima, le istituzioni che tutelano bene la libera concorrenza e via cosi’. In sintesi, il massimo di mercato a fronte di un minimo di garanzie e’ una condizione di “arrivo” e non una di “partenza”. Se liberalizzo senza sostenere il processo con garanzie di massa in situazioni dove la società non è omogeneamente forte e ben inquadrata istituzionalmente, allora e’ certo che produrrò una selezione sociale perche’ non tutti saranno capaci di cogliere le opportunità del mercato. Perfino negli Stati Uniti, Paese che piu’ al mondo si avvicina al modello ottimale detto sopra e che quindi richiede meno garanzie e permette più libero mercato, si osserva che comunque e’ necessario un pilastro di garanzie pubbliche che sostenga il rifornimento di massa all’espansione economica. In sintesi, la teoria liberista - modernizzata pragmaticamente ed al servizio delle funzioni concrete di governo - è alla ricerca di un modello di Stato che faccia il lavoro che il mercato non può fare per sostenere se stesso. Quindi, niente Stato minimo (se non come condizione desiderabile di arrivo) ne’ tantomeno Stato massimo, ma bisogna individuare lo Stato che serve, quello utile al mercato ed a questo alleato. Tale ricerca, in America, è meno pressante date le buone condizioni attualmente lì esistenti sul piano della ricchezza diffusa. In Europa è urgentissima, ma drammaticamente in ritardo. Dobbiamo recuperarlo, in fretta.

 Il punto tecnico, per disegnare lo “Stato utile” (a bilanciare efficienza e configurazione di massa del capitalismo) come sostitutore del fallimentare welfare pesante di tipo europeo, riguarda il passaggio dalle garanzie sottrattive a quelle sommative. In particolare, si tratta di disegnare un meccanismo istituzionale che permetta la partecipazione di massa al mercato senza essere un peso eccessivo (fiscale, regolamentare) per questo. Le garanzie evolute nell’ultimo secolo hanno tutte la forma di atti assistenzialistici o protezionistici finanziati attraverso una sottrazione di ricchezza diretta o indiretta al mercato. Vengono chiamate redistributive. Ma sarebbe piu’ preciso definirle come garanzie “sottrattive”. Perche’ l’atto redistributivo (vincoli sindacali, servizi pubblici, finanziamento pubblico diretto, ecc.) comporta una distruzione netta di ricchezza. In tale modello le garanzie hanno costi sproporzionati ai benefici. Soprattuto, le garanzie economiche finalizzate a salvaguardare il reddito di un individuo tendono a mantenerlo nella posizione sociale piu’ bassa, senza miglioramenti. Questo dato devastante, che si ricava dall’analisi delle prestazioni di tutte le varianti di Stato sociale e simili, dovunque,  suggerisce che la sottrazione di ricchezza netta debba includere anche le perdite di potenziale di capitale umano. In sintesi, la garanzia redistributiva e’ un fallimento totale e comporta un modello politico che soffoca la crescita e gli accessi di massa ad essa. Ma anche l’assenza di garanzie ha un effetto simile, per vie diverse. Concentra troppo la ricchezza rendendola meno fluida e mantiene troppo potenziale umano sottocapitalizzato ed incompetente. Quindi le garanzie diffusive gestite dalla politica devono esserci.

 Ma e’ proprio la natura sottrattiva della garanzia redistributiva che impedisce il giusto mix tra creazione e diffusione della ricchezza. Perche’ si tenta di mettere insieme un “piu’” (il libero mercato) con un “meno“. Il risultato, appunto, e’ una sottrazione costante. Ciò genera il problema di trovare garanzie positive, cioe’ un “ +” sul lato dello Stato che massimizzi il  “+“  intrinseco del mercato.

 Tali garanzie positive devono assumere la configurazione di  investimenti. Per esempio, tolgo al mercato una quantita’ di ricchezza via drenaggio fiscale, ma gliela ritorno moltiplicata nel futuro. In tal caso la tassa, se non e’ di entita’ tale da distorcere immediatamente il mercato, non ha connotazione sottrattiva. E la garanzia diviene, appunto, un investimento. Cio’ introduce il problema di selezionare quali azioni di garanzia da parte dello Stato – e svolte come – hanno la proprietà di trasformarsi in investimenti, evitando di essere sottrazioni. Quelle di sicurezza e legalità vanno fuori dal calcolo e sono tassa comunque necessaria. Ma l’apparato burocratico, per esempio, è un costo inutile oltre una data scala (per altro correntemente superata di molto da tutti gli Stati). I protezionismi sindacali sono ancora peggio. C’e’ una categoria di garanzie pubbliche chiaramente non-sottrattive? Certo, a parte il settore dei macroinvestimenti infrastrutturali che puo’ essere valutato solo nelle contingenze, le risorse pubbliche (non necessariamente da gestire via apparati statali) spese per potenziare la capacita’ individuali di avere un reddito nel mercato, cioe’ educazione di base e formazione continua, sono certamente degli investimenti positivi. Che, soprattutto, il mercato non riesce a fare in forme dirette. In tal senso la ricerca delle nuove garanzie non-sottrattive trova una risposta abbastanza semplice. La missione dello Stato e’ quella di organizzare le risorse formative, e loro dintorni, che permettono a tutti i cittadini di avere la competenza per accedere ad un valore di mercato. Ci sono altre missioni di garanzia positiva, ovviamente, che individuano il nuovo modello di “ Stato utile ” (che preferisco definire “Stato della crescita”). Ma quella di investimento sul capitale umano e’ la principale perche’ riguarda la leva politica espansiva che determina maggiormente sia il piu’ elevato potenziale di crescita economica sia la configurazione di massa del capitalismo. In sintesi astratta, si tratta di riconfigurare lo Stato come fabbrica di capitale umano, specializzandolo in questa funzione di garanzia economica indiretta e sommativa che permette di eliminare quelle dirette e sottrattive. Alcuni potrebbero chiamarlo modello di solidarieta’ efficiente o di liberismo sociale. Va bene comunque perche’ proprio questa e’ l’idea motrice qui caldeggiata.

 In concreto, si tratta di garantire che ogni cittadino si formi e si riformi continuamente al piu’ alto standard possibile. In tal caso,appunto, la quantita’ di individui che avra’ bisogno di tutele assistenziali sara’ minima. E quei soldi che si spendono in tale investimento sul capitale umano ritorneranno moltiplicati in forma di crescita del mercato e di attesa ottimistica (fondamentale per il ciclo finanziario capitalistico) che questa continuera’ nel futuro. Un guadagno netto. Se, invece, spendo poco per l’educazione dei giovani e la riformazione costante degli adulti e tanto per assisterli perche’ il loro valore di mercato non e’ stato costruito bene, allora tutti abbiamo una perdita.  Si tratta solo di inserire il ciclo di formazione del capitale umano come massima priorita’ in un modello di Stato specificato come fornitore di garanzie positive, cioe’ di sostegno indiretto al mercato. Non e’, francamente, un concetto difficile. E contiene la possibilita’ di risolvere in forma espansiva (cioe’senza ricorrere a garanzie sottrattive) il problema di bilanciare creazione e diffusione sociale della ricchezza.

 Ma, realisticamente, non e’ facile trasformare concretamente e velocemente gli Stati sociali esistenti in nuovi “Stati della crescita”. Ed e’ comprensibile. Non si tratta solo di “spendere qualche soldo in piu’ per la scuola”, come qualcuno potrebbe banalizzare. Il nuovo modello implica una completa riallocazione delle risorse fiscali a favore di investimenti individualizzati di grande entita’. Perche’ la somministrazione – iniziale e continua nel resto della vita - di alti standard educativi a livello di massa implica l’impegno della maggioranza delle risorse pubbliche nell’ambito del criterio di ridurre al minimo possibile i pesi fiscali per favorire l’espansione economica. Per esempio, meno tasse e la maggior parte dei proventi pubblici indirizzati ad investimenti, persona per persona, per costruirne la qualita’ economica significa cancellare o ridurre la spesa statale in altri settori. Un incubo sul piano del consenso per il politico che deve gestire tale transizione. E forse per questo il concetto di investimento sul capitale umano come priorita’ delle garanzie pubbliche, pur sensato, non e’ ancora riuscito ad emergere pienamente come piattaforma di governo. Ma sono certo che se si cominciasse a sperimentarlo anche in forma parziale, il successo nei fatti renderebbe evidente che questa e’ la via giusta. E’ un augurio, a tutti noi, ed un appello a chi governera’.

 Per un modello dettagliato basato su questo approccio si veda il mio libro “Lo Stato della crescita” (Sperling & Kupfer, 2000) ed altri materiali su www.carlopelanda.com.

 

Carlo Pelanda