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Dal centrismo debole a quello forte: dallo Stato sociale a quello della Crescita

 

Di Carlo Pelanda

 

(gennaio 2001)

 

 

 Il termine “liberismo sociale” non vuole inaugurare l’ennesima formula ideologica, ma solo indicare con un nome provvisorio il nuovo clima di - necessità di una - alleanza tra concetti politici che sono tradizionalmente in conflitto tra loro: Stato e mercato, capitale e morale. Penso che tale sia stato l’intento di Ferdinando Adornato nel titolare così il convegno. Certamente fu questo il significato di un mio editoriale su “il Giornale”, titolato allo stesso modo, nello scorso agosto. Ritengo che Adornato abbia intuito che i nuovi linguaggi di “alleanza”, sostitutivi dell’ideologia conflittualistica, possano essere uno strumento potentissimo per dare una missione forte, innovativa e consistente, al centrismo politico. Se è così, e penso di sì, vorrei ringraziarlo per l’occasione fornita da “Liberal” per approfondire questi contenuti. Che qui desidero rafforzare con le seguenti argomentazioni.

   La convergenza al centro, che prevale sia nelle destre sia nelle sinistre delle democrazie più mature già da un decennio, è ispirata dalla necessità – determinata dal sentimento della maggioranza degli elettori -  di bilanciare il processo liberista di creazione della ricchezza con quello sociale della sua distribuzione: Terza via, Repubblicanesimo compassionevole. Ma tali formule restano poco specificate sul secondo termine. Quelle centriste che le hanno precedute nel periodo 1960-1990, per esempio l’“economia sociale di mercato”, lo precisavano perfino troppo: un meccanismo redistributivo molto pesante e tale da soffocare il mercato, cioè il primo termine. E sono andati in crisi, sul piano dell’economia tecnica, per questo. Così il nuovo centrismo, preso atto della insostenibilità del Welfare State pesante, si è più spostato sul lato del mercato, ma ha lasciato indeterminato quale meccanismo dovrebbe assicurare la diffusione di massa della ricchezza.

  In sintesi: (a) la sinistra riconosce la crisi dello statalismo, ma la risolve riducendo le garanzie dello Stato sociale senza, per altro, modificarne le strutture; (b) la destra si rende conto che deve rispondere alla domanda di garanzie, non vuole praticare lo statalismo, ma non le resta altro per riempire di contenuti concreti la svolta “compassionevole”. Per ambedue la soluzione è quella di ridurre lo statalismo: un po’ più la destra, un po’ meno la sinistra. E’ un risultato buffo, nell’area occidentale, che mostra come sotto ci sia una grave impasse: tutti si sono arresi – fortunatamente – all’idea che la libertà del mercato sia il miglior mezzo per produrre ricchezza. Ma nessuno riesce a trovare trovare nuovi mezzi per assicurare che questa venga diffusa il più possibile nella società. Se non mantenendo in vita, un po’ più ridotto, un modello di statalismo redistributivo ed assistenziale la cui inefficienza è evidente. E che per questo resta di fatto ostile allo sviluppo del mercato. Ciò rende molto debole la teoria centrista: è una banale ricerca del “iusto mix” tra garanzie finanziate con le tasse e gradi di libertà del mercato competitivo.

 Quale svolta sarebbe necessaria per rendere “forte” la teoria centrista? Capire che non esiste il “giusto mix”: è l’equivalente del “flogisto” nella politica. Un concetto che non ha corrispondenza nella realtà. Più volte ho semplificato questo punto dicendolo così. Le garanzie redistributive fornite attraverso prelievo fiscale sono un costo per il mercato, quindi una sottrazione netta di ricchezza. Perché la loro forma non è destinata a produrre nuova ricchezza, ma a spalmare quella disponibile. Che, non potendosi riprodurre, appunto, decresce o, al meglio, resta stagnante. Qualsiasi modello politico che si basi su tale modo di dare garanzie sociali è destinato al fallimento economico. Il “giusto mix” non esiste proprio perché si tratterebbe comunque di mettere insieme il “più” del mercato con un “meno” costante sul lato dello Stato: una sottrazione continua. Il continuare a perseguirlo, aumentando l’ambiguità dei termini (Terza via, ecc.) per nasconderne l’irrisolvibilità pratica, è, appunto, una forma di pensiero debole e di politica debolissima. Come lo è il centrismo compromissorio: un po’ di mercato, un po’ di socialismo-statalismo, nella giusta misura. E la conseguenza è un lento impoverimento della società.

 Molti politici italiani che leggessero queste parole potrebbero sentirsi offesi. Noi si lavora sull’esistente; da una parte abbiamo tradizioni di statalismo pesante ormai insostenibile, dall’altra abbiamo un mercato esuberante, ma socialmente selettivo; una parte del nostro elettorato gode di garanzie assistenziali, l’altra naviga bene nell’impresa: la cosa più saggia è quella, appunto, di trovare un compromesso. La politica è l’arte di questo. Perché mai costui viene a dirci che la cosa è debolissima. Ci provi lui a fare diversamente e a tentare di ottenere il consenso e di governare. Soprattutto l’Italia incrostata di rivoli assistenziali diretti ed indiretti (corporativismi).

 Non voglio offendere alcuno, ma francamente è incomprensibile il fatto che nessuno proponga la soluzione più ovvia e tecnicamente consistente: trasformare le garanzie da costi netti in investimenti fruttiferi. Per esempio, se spendo cento per assistere qualcuno in forma diretta (lavori socialmente utili) o indiretta (mantenimento di regole rigide nel mercato del lavoro), quei soldi li distruggo. Se, invece, spendo cinquanta a favore della formazione continua di ogni singolo individuo e in altre iniziative – sia personalizzate sia di sistema -   che gli/le accrescano costantemente il valore di mercato, alla fine tutta la comunità ci guadagna per il maggiore dinamismo del mercato: ci metto cinquanta e ho un profitto di cento, non male. Soprattutto, più individui saranno capaci di capitalizzarsi entro la legge della domanda e dell’offerta e, quindi, meno avranno bisogno di tutele redistributive. Semplice ed efficace.

 Pur qui detto frettolosamente (prego di consultare, chi è interessato, il mio “Stato della crescita”, Sperling & Kupfer, 2000, e www.carlopelanda.com) tale indirizzo serve a poggiare la socialità dello Stato – conquista comunque irrinunciabile della modernità - su una base tecnica più solida: ogni denaro fiscale - a parte le spese per la sicurezza e per la macchina statale, le seconde sperabilmente da dimezzare – viene usato per costruire il valore economico di una persona. Così facendo si aumenta costantemente la quantità e qualità dei soggetti che partecipano al mercato. E questo creerà più ricchezza. In sintesi, l’investimento sul capitale umano viene remunerato da una crescita complessiva dei potenziali del mercato. In tale scenario una certa quantità di tasse – che non distorga la generatività del ciclo economico – è tollerabile perché diventa uno stimolatore costante della crescita e non un perdita secca di ricchezza. Qui lo ripropongo come oggetto concreto a cui dovrebbe puntare un centrismo “forte”: non ridurre le garanzie sociali, ma trasformarle da “sottrattive” in “sommative”. Tecnicamente è fattibile, ma per realizzarlo ci vuole la definizione di una missione politica esplicita in tale direzione: un progetto concreto di nuovo Stato. Ecco il compito del “centrismo forte” come lo vedo io.

 Significa, in particolare, concepire uno Stato che sia alleato del mercato: il primo predispone i pilastri che sostengono il secondo e questo cresce di più. Ripeto, questo sarebbe un centrismo forte: si riconosce  la necessità di uno Stato sociale che non lasci solo alcuno, ma si indirizzano le sue risorse di solidarietà in modo efficiente, cioè in forma di garanzie di investimento, abbandonando - passo dopo passo - qualsiasi garanzia assistenziale.

Cosa deve fare una politica centrista forte in questa direzione? Sul piano del linguaggio deve inaugurare i “codici di alleanza”. Creare e diffondere la ricchezza è un obiettivo molto raffinato. Il mercato è una macchina vitale che resta tale se la si lascia il più libera possibile. Ma ha alcuni difetti: se non regolato tende a creare monopoli; non investe a lungo sulle condizioni non-economiche della propria riproduzione (per esempio il capitale umano); ecc. Bisogna fare lista di quello che il mercato non sa fare e compensare questa mancanza o difetto generando una funzione sostitutiva o regolatrice da parte delle istituzioni politiche. In sintesi, significa definire con precisione cosa debba fare lo Stato e cosa il mercato. Sembra poco o già fatto? Figurarsi, sono almeno un paio di secoli che se ne discute e non si vede ancora chiarezza in materia. Che di per se sarebbe cosa non difficile, per lo meno sulla carta: lo Stato deve dare garanzie, il mercato ricchezza. In modo perfettamente complementare, senza pretendere l’uno di fare una cosa di competenza dell’altro. Appunto: alleanza tra Stato e mercato e non conflitto né strane compromissioni tra i due.

Poi, il politico centrista (forte) dovrebbe raffinare in senso pragmatico i concetti morali e tecnici che rendono possibile la costruzione della società del “capitalismo di massa”. In chiave storica, ora è proprio il momento di sancire la fine del conflitto tra “capitale” e “morale”, tra i “valori” ed i “soldi”. Per due motivi.

Primo, gli Stati sociali sono evoluti negli ultimi decenni caricando molto il lato dei diritti economici e poco quello dei doveri. Così in buona parte della società europea si è affermato il principio che il cittadino ha un diritto al benessere non compensato da un dovere all’attivismo economico. Che questo sia uno dei mille devastanti errori di irriflessività politica della sinistra non cambia la realtà. Ed è pericolosa. Al cittadino va spiegato che il nuovo patto politico – di livello costituzionale - dovrà avere la seguente forma: io, comunità, spendo dei soldi affinché tu abbia un bel valore di mercato (come sopra accennato), ma tu, in cambio, assumi l’obbligo di esibire il massimo attivismo economico. Per predisporre tale contratto, senza il quale le garanzie di investimento sarebbero compromesse, è importante ritoccare la base valoriale della società. Il primo valore morale è quello di guadagnarsi da vivere sul mercato. Così il diritto all’investimento per poterlo fare viene bilanciato dal dovere di remunerarlo. La distinzione conflittuale classica tra valori e capitale permette una fuga da questa responsabilità. Non al punto da togliere il desiderio del denaro, ovviamente. Ma favorisce nel cittadino l’idea che il denaro possa essere conquistato senza fatica, impegno attivo. Molti sottostimano questo aspetto antropologico. Tuttavia dovrebbero considerare che la cultura della passività economica, anche se non raggiunge gli estremi della domanda di assistenzialismo, ha due difetti strutturali: (a) culturalmente, deprime la dinamica complessiva del mercato; (b) tecnicamente, produce una spinta sociale verso situazioni inflazionistiche (domanda di reddito a fronte di nessun aumento della produttività). La società dove lo Stato si impegna a fornire diritti economici, per non squlibrarsi, deve basarsi sul valore fondante e condiviso dell’attivismo economico.

 Secondo, va rispecificato - ed è il punto tecnico più importante della nuova società del capitalismo di massa – il profilo etico del denaro e del profitto. Il capitalismo solo per pochi era cattivo. Ma se è per tutti, allora, è buono. A cosa serve l’esplicitazione che il capitalismo sia buono se diffuso, quando ormai tutti sono convinti che, comunque, è lì ed è necessario conviverci? A perfezionare il circuito virtuoso tra investimento finanziario ed economia produttiva. Per esempio, il dipendente che sciopera in un’azienda quotata in Borsa mette a rischio l’investimento fatto da un pensionato per arrotondare un reddito che non ha altro modo di incrementare. E qui c’è un conflitto tra diritto del lavoratore a vedere soddisfatte le sue richieste e quello del cittadino “debole” che ha bisogno del loro attivismo per portare a casa un profitto, mediato da un fondo di investimento. L’accesso delle masse alla finanza ha creato queste nuove situazioni di possibile disarmonia. Con il problema che la riduzione delle garanzie assistenziali implica, nel futuro, una maggiore dipendenza delle categorie deboli dagli andamenti del mercato. Cosa che rende pericolosa la forma del conflitto qui ipotizzata e molte altre del genere.

 Per esempio, chi vota per tasse più alte allo scopo di difendere un salario garantito pregiudica sia le rendite di chi rischia sul mercato sia la competitività della nazione in cui vive impegnata nella concorrenza globale. Sembra evidente che i nuovi requisiti di crescita ed efficienza del mercato, che lo rendono capace di creare ricchezza diffondibile a tutti, debbano essere sostenuti da una convinzione sociale che questi siano giusti. Cioè da una cultura che eviti i conflitti sugli aspetti che rendono di massa il ciclo del capitale. Il mercato non può permetterseli. La politica non può ovviamente vietarli per legge. Resta solo l’immissione nella società di una cultura consapevole di quali siano le condizioni che permettano al mercato di essere allo stesso tempo efficiente e socialmente efficace. Ed è un’operazione squisitamente politica, il cardine tecnico e simbolico dell’offerta neocentrista.

 Con quale legittimità? Un élite politica si legittima perché riesce a dare un forma tecnica realizzabile alla domanda espressa dagli elettori. Cosa chiedono questi, in tutto l’Occidente? In sostanza, i benefici del mercato senza le incertezze e le ansie tipiche della sua competitività ed aleatorietà. Uno potrebbe dire che tale richiesta da parte del grosso della società sia irrealizzabile. In realtà, tecnicamente, non è poi così impossibile. Un mercato può essere tenuto in crescita costante (lunghe espansioni e contrazioni molto brevi e non troppo intense) senza eccessi inflazionistici. E si comincia a capire come si può fare pur non potendo escludere che, nel processo di apprendimento, ci scappi qualche brutto momento, fuori controllo. Comunque è realizzabile la promessa che tutti potranno godere dei benefici del mercato. Anche la questione dell’incertezza può essere trattata, tecnicamente, in modo ottimistico. Da una parte sarebbe sciocco promettere la stabilità del lavoro a vita. Dall’altra si può tranquillamente scommettere che in un mercato a tendenza crescente e sufficientemente libero e variato le opportunità di nuovi lavori saranno almeno pari a quelli vecchi che si chiudono. I tecnici sanno sicuramente disegnare decentemente i macchinismi che rendono possibile tale configurazione ottimistica della società. Il punto che manca, quello principale, consiste nel convincere gli elettori che il loro fabbisogno di sicurezza può essere soddisfatto da due condizioni: (a) la comunità aiuterà ciascuno a rinnovare il suo valore di mercato permettendo così il transito in nuovi e diversi lavori; (b) ma ogni cittadino dovrà aprirsi alla cultura della mobilità intellettuale e fisica (a corredo del valore di attivismo economico detto sopra). Questo secondo punto è il più difficile perché non disegnabile da un’ingegneria. Può solo essere ottenuto attraverso una convinzione: il cittadino crede che il politico sarà in grado di governare l’economia in forma ottimistica e crescente in cambio della disponibilità ad essere più mobile ed attivo. Questo è il compito del “liberismo sociale”.