Prove di
riequilibrio globale
Di Carlo Pelanda (22-6-2010)
Il vertice G20 di
Toronto, nel prossimo fine settimana, sarà dedicato alla ricerca di un punto di
equilibrio fra le tre aree monetarie/economiche principali del pianeta: Cina,
America ed Eurozona. La prima basa la sua crescita sulle esportazioni facilitate
da un cambio sottovalutato dello yuan, la seconda sta cercando di accelerare la
ripresa attraverso la svalutazione competitiva del dollaro e la terza subisce
una crisi di fiducia sulla sua capacità di ripagare i debiti che ha fatto
scendere il cambio dell’euro, aumentandone la competitività dell’export, ma
riducendo quella degli altri due in relazione al mercato europeo (che assorbe
un ¼ dell’intero export di Pechino). In questa situazione chi rischia di più è
l’America che potrebbe ricadere in recessione - e Obama
che non sarebbe rieletto nel 2012 se ciò accadesse - sia per minori
esportazioni sia per eccesso di importazioni che ne aumenterebbero il deficit
commerciale e ridurrebbero la competitività delle produzioni nazionali. Con la
complicazione sistemica che senza crescita sufficiente l’indebitamento
statunitense corrente risulterebbe insostenibile ed il mercato diventerebbe
sospettoso sia sui titoli di debito americani sia sul dollaro, devalorizzandoli come ha fatto nei mesi scorsi con quelli
europei e con l’euro. Ciò spiega perché Obama nelle
settimane scorse sia intervento pesantemente su Merkel
affinché limitasse la caduta dell’euro ed allo stesso tempo non esagerasse con
il rigore che soffoca la crescita interna, e conseguentemente l’assorbimento dell’export
altrui, nonché sulla Cina affinché rivalutasse lo yuan. Sarà ottenibile questo
punto di equilibrio definito dall’interesse statunitense?
I tre i leader
globali, America, Cina e Germania, hanno interesse a limitare gli squilibri
che, se incontrollati, porterebbero al caos catastrofico per tutti, ma hanno
dei vincoli interni che non permettono un pieno riequilibrio. La Cina ha
accettato di lasciar fluttuare il cambio dello yuan sganciandolo dal rapporto
fisso con il dollaro. Ciò significa, in apparenza, che il valore di cambio sarà
deciso dal mercato. Ma non ci sarà una rapida rivalutazione della moneta cinese
– che rimane sottovalutata di almeno un 25% – perché non è convertibile e
quindi resta sotto il controllo
politico. Ci sarà una piccola rivalutazione, sufficiente a dimostrare che
Pechino collabora, ma non sostanziale. Il modello cinese, infatti, basa la sua
crescita sull’export, oltre che sugli investimenti esteri diretti, e non ha
ancora un mercato interno così forte da
poter ridurre la dipendenza dall’export stesso. Il vero riequilibrio globale,
infatti, avverrebbe se la Cina usasse i profitti delle esportazioni per
aumentare i redditi dei lavoratori e dare loro un welfare invece che metterli
entro il proprio Fondo sovrano per
conquistare posizioni di potere nel mondo. Anche per evitare che tale tema
diventi oggetto di discussione Pechino ha preferito il danno minore, cioè la
lieve rivalutazione dello yuan. La Germania ha messo in priorità il rigore,
definendo nuovi criteri per l’Eurozona, per evitare che salti l’euro. Ma non
può soddisfare la richiesta di più crescita interna da parte di Obama perché ciò implicherebbe liberalizzare il sistema
suscitando la reazione violenta delle forze sociali protezioniste. In sintesi,
l’Eurozona crescerà poco, ma non svaluterà l’euro oltre misura. La Cina non
modificherà la sua aggressività esportativa, ma la
ridurrà un pochino. Vedremo se questo riequilibrio globale solo minimo potrà
mantenere l’America in crescita o non
basterà.