Italia
in crescita
Di
Carlo Pelanda (29-3-2006)
La
propaganda di sinistra non cavalca più il catastrofismo economico. Ciò succede
perchè i dati del primo trimestre mostrano una robusta crescita del
fatturato delle imprese (8,4%) trainata da una ripresa delle esportazioni.
Tanti altri indicatori sostengono l’ipotesi che la crescita del
Pil nazionale a fine 2006 potrà essere
attorno allo 1,5%. Tali dati provano che la politica economica negli ultimi
cinque anni non ha compiuto errori depressivi ed ha facilitato la reazione
delle aziende alla pesante crisi competitiva (2002 – 2004) dovuta al
penalizzante cambio dell’euro ed all’impatto della concorrenza globale.
Ciò permette di sostenere, con piena serenità tecnica e non solo per
partigianeria, che questa maggioranza meriti un secondo mandato perché
applica il giusto modello di politica economica. E’ utile vedere esattamente
quale.
Ricapitoliamo.
l’Istat ha rilasciato
il dato finale, depurato, sulla crescita del Pil
nel 2005: lo 0,1%. Tutta l’eurozona è cresciuta
appena dello 0,3% negli ultimi tre mesi del 2005,
la Germania
zero come noi,
la Francia
lo 0,2. Cosa che ci fa capire quanto i destini dell’economia italiana e di
quella francese e tedesca – che insieme fanno
circa il 75% del Pil dell’intera area euro –
siano intrecciati e sincronici. Da quindici anni l’Italia cresce circa la
metà della media europea. In parte perché la sua economia informale, in
“nero”, non viene tutta riportata nei calcoli
del Pil. In altra parte per
mancanza di concorrenza, di un sufficiente numero di grandi industrie ad alta
tecnologia e, soprattutto, per l’effetto depressivo dell’enorme
debito pubblico e della stagnazione demografica. L’Europa continentale, per
altro, tende a crescere la metà di quanto fa mediamente l’economia
statunitense. Ciò indica che nell’economia mondiale quella
europea si trova in difficoltà a causa di un modello politico sociale
- presente in Francia, Germania ed Italia - che
per distribuire ricchezza ne soffoca la creazione. Non è, attenzione, un Welfare
State, modello pensato in lingua inglese/liberale proprio per ben bilanciare
efficienza e solidarietà, ma l’erede del vecchio Stato nazionale-imperiale
europeo (bismarckiano) dirigista e che offriva
alla gente un premio di tutela in cambio della disponibilità a combattere. Lo
Stato sociale europeo, pur non più “contratto di impero”,
è ancora un contratto politico dove la popolazione vuole la garanzia non come
opportunità di mercato, ma in forma di tutela pubblica. Ed
è esattamente questa tradizione culturale che rende difficile sul piano del
consenso riformare il modello bilanciando meglio creazione e distribuzione
della ricchezza. I governi europei, con la moneta unica, si sono tolti la
flessibilità di bilancio per finanziare il consenso al cambiamento.
L’Italia si è quasi suicidata mantenendo sovrano il debito e cedendo la
sovranità sui mezzi per ripagarlo. E’ ovvio che in queste condizioni,
peggiorate da un cambio decompetitivo, l’Europa
sia andata in stagnazione per rigidità allo scoppio della concorrenza globale.
Come è ovvio che i governi si siano trovati una
domanda sociale di più tutele nella crisi e non il consenso per le soluzioni
di efficienza. E’ quasi miracoloso che in tale situazione il governo
italiano, con pochi strumenti sovrani residui, sia
riuscito ad aumentare l’occupazione, mantenere le garanzie ed un
decente equilibrio dei conti pubblici, a ridurre un po’ le tasse e a non
penalizzare le imprese. Ora queste ultime si sono adattate, dopo un tempo
tecnico di apprendimento, al nuovo contesto e
stanno ripartendo alla grande alzando finalmente il Pil.
Ciò mostra il giusto modello di governo applicato: non forzare le riforme, ma
tenendo salda la direzione riformatrice realizzandola gradualmente in
relazione al possibile. E tale modello
promette di dare più frutti nel tempo se perseguito fino al 2011. Quello di
sinistra, semplicemente più tasse e nessun cambiamento, ci porterebbe al vero
declino.
www.carlopelanda.com