La missione continua
Di Carlo Pelanda
(13-11-2003)
L’Italia è unita nel lutto. Deve esserlo anche nel sostegno alla continuazione della nostra missione in Irak. Ciampi lo ha ribadito con parole commosse e determinate nel suo ruolo di interprete della nazione tutta. Antonio Martino lo ha espresso come impegno fermissimo del governo. Questo è il significato delle parole forti che ha pronunciato di fronte al Senato: “il dolore e la rabbia”. Una grande nazione non si fa certo intimorire da chi la vuole spaventare ed indurla alla rinuncia. Qui il punto che unisce emozione e ragione.
L’obiettivo strategico del
nemico è quello di indurre ondate di dissenso interno nei Paesi dell’alleanza
impegnata nel riordinamento dell’Irak. L’America ed i suoi alleati non possono
essere sconfitti militarmente da nessuna forza esistente. Ma le esperienze del
Vietnam, Libano (1982) e Somalia (1994) hanno mostrato il modo per costringere
una democrazia a ritirarsi da un impegno militare, la sua vulnerabilità. Si
tratta di creare le condizioni affinché le opinioni pubbliche ed i sistemi
politici interni tolgano il consenso e le risorse all’azione. E la più efficace
è certamente quella di uccidere o compiere atti spettacolari con una sequenza
che permetta di occupare le prime pagine dei giornali occidentali ogni giorno.
Infatti le notizie dei colpi della guerriglia stanno prevalendo di gran lunga
su quelle, pur tante, che indicano il successo dello sforzo alleato. In
sintesi, la speranza del nemico è quella di suscitare all’interno dei Paesi
alleati un movimento che ritenga inaccettabili i costi del riordinamento
dell’Irak. I nostri soldati sono stati uccisi in base a questa strategia. Che
merita un ulteriore approfondimento. La guerriglia è condotta dai residui del
regime precedente e da formazioni internazionali di Jihadisti, le seconde fornitrici degli assassini
suicidi. Si tratta di gruppi poco numerosi e che, soprattutto, operano senza
l’appoggio della popolazione, con l’eccezione di una piccola area a nord di
Baghdad dove vive la tribù d’origine di Saddam Hussein. Ciò va ricordato perché
i nostri soldati non sono caduti per mano di patrioti in nome di una resistenza
popolare diffusa contro l’occupatore. Al contrario, sono caduti contrastando il
terrorismo islamico ed il nucleo superstite del regime baathista
(nazionalsocialista). Il secondo combatte perché non ha altra scelta: dopo
quasi trenta anni di privilegi ed efferatezze nessuno di questi potrà essere
perdonato dalla popolazione. Che infatti li uccide appena li scova. Quindi la
loro unica speranza di salvare la vita è quella di ottenere un rovesciamento
della situazione oppure di far diventare significativa una loro resa e così
ottenere un salvacondotto. I Jihadisti, invece, si concentrano in Irak per
evitare la sconfitta finale: se l’iniziativa alleata riuscirà a trasferire agli
irakeni un nuovo Paese stabilizzato, democratico e capace di sviluppo,
l’impatto simbolico sulle masse islamiche ed arabe sarà tale da renderle meno
sensibili ai messaggi di insorgenza. In particolare, ciò che spaventa al Quaida
e organizzazioni connesse è il crescente consenso degli irakeni all’azione
occidentale. I bambini sono andati a scuola, allegri e con nuovi libri portati
dalla libertà, i ristoranti hanno riaperto e sono pieni, l’Irak – quello non
ripreso dalle telecamere - è tutto
un’effervescenza di iniziative, una società che si rimette in moto. Ed è per
tale motivo che la guerriglia sta compiendo il massimo sforzo: ottenere
l’effetto destabilizzante prima del consolidamento del consenso irakeno verso
il nuovo modello. Questa è la chiave dello scenario: non è vero che la
guerriglia abbia conquistato più risorse e capacità. E’ vero, invece, che stia
usando più intensivamente quelle esistenti (e piuttosto limitate) proprio per
contrastare i primi segni del successo alleato. E’ una disperata corsa contro
il tempo, ritenuto fattore sfavorevole, che ha creato l’escalation delle ultime
settimane e non una maggiore presa dell’insurrezione. I nostri soldati sono
morti entro questo scenario. Sembra arido dirlo così, ma vi prego di
considerare il valore profondo che ha il riflettere sul significato della morte
di un soldato. I nostri sono stati uccisi perché stavano ottenendo un grande
successo nell’assicurare la stabilità del territorio assegnato. Bravi e
coraggiosi: meritano l’onore, le loro famiglie l’orgoglio.
Ma non dimentichiamoci che
noi con le nostre opinioni siamo il vero bersaglio della guerriglia
terroristica. E che questa ha una regia raffinata: al Quaida e molti gruppi
islamici sono guidati da èlite educate nelle migliori università, anche
occidentali. Ci conoscono, hanno studiato la scienza della “strategia
simbolica” utile sia per ipnotizzare i loro fedeli sia, soprattutto, per trarre
vantaggio dalle nostre vulnerabilità. E vogliono spaventarci, indurci a
ritenere che potremo vivere più tranquilli se mollassimo. Anche confidando
sulla varietà delle idee tipiche di una democrazia, di cui una parte è ispirata
dal pacifismo lirico e dall’antagonismo. Su partiti, per lo più di sinistra,
che se ne infischiano della responsabilità di esportare sicurezza e democrazia.
E’ un nemico da non sottovalutare perché non possiamo escludere leggerezze e
superficialità da una parte degli italiani. Quindi tocca ai forti d’animo
ricordare ai deboli che la nostra missione deve continuare. E che continuerà.