Il prezzo da pagare

 

Di Carlo Pelanda (29-8-2001)

 

 

 Il rumore, spesso raglio, dei no-global distoglie l’attenzione dai veri problemi della globalizzazione e dai nuovi dilemmi che comporta. Il punto è che la stragrande maggioranza degli Stati che partecipano al mercato mondiale non possiede un ordine interno sufficientemente evoluto sia per stabilizzare la creazione della ricchezza sia per diffonderla socialmente. Se il processo di mondializzazione dell’economia non trova un ordinatore, allora rischia di saltare. Se lo rallentassimo, impauriti, innescheremmo una catastrofe per altra via: il mercato aperto senza frontiere e in continua espansione è il motore della nostra ricchezza, altri non ce ne sono.  Il nuovo dilemma per l’Occidente – quindi anche per noi italiani che siamo parte del suo consiglio d’amministrazione – è quale tasso di interventismo applicare per ordinare in tempo utile i Paesi disordinati. Con due complicazioni. L’interdipendenza economica e politica tra tutte le nazioni del mondo è cresciuta prima che si formasse un’architettura politica altrettanto planetaria in grado di gestirla, quella vecchia del tutto insufficiente. E tale vuoto politico continua, complessità tecnica a parte, anche perché i governi dell’Occidente percepiscono che i loro elettorati non sono preparati a rispondere alla domanda cruciale: quali rischi e costi siamo disposti a sostenere per dare ordine al globo? Vediamone i termini, perdonatemi, così semplificati.

 Circa 50 Paesi poverissimi sono tali perché in mano a dittatori oppure privi di istituzioni basiche. Di fatto, questi da soli non ce la fanno a mettersi in ordine. Se cancelliamo il debito i dittatori lo accenderanno di nuovo per comprarsi armi. Dove la politica è migliore comunque non basterebbe. Quindi o noi occidentali interveniamo decisamente o più di un miliardo di persone continuerà a morire di fame, malattie e guerre. Ma ciò significa condizionare la sovranità di tali Paesi, in alcuni casi sospenderla, e quindi esporsi, oltre che all’accusa di ricolonizzazione, a costi e rischi militari notevoli. Cosa facciamo?

 Altri cento Paesi, circa, partecipano al ciclo mondiale del capitale senza istituzioni trasparenti che lo regolino. Crisi bancarie e finanziarie (Asia e Russia, 1998). Con reti di protezione sociale inesistenti. Le recessioni le paga la gente che poi si ribella e peggiora il tutto (Indonesia). Senza ordine interno questi Paesi resteranno endemicamente esposti a crisi di ogni tipo che ci possono contagiare. Cosa facciamo? Imponiamo loro uno standard e li condizionamo - prendendoci responsabilità costi e rischi - o incrociamo le dita?

 E questo problema tocca anche i Paesi più avanzati. Il Giappone è in depressione endemica perché non vuole riformare il suo sistema di protezionismo consociativo. Ma se lo forziamo a cambiare troppo in fretta  esploderà il dissenso sociale. Lo stesso per i Paesi socialprotezionisti dell’eurozona. Le riforme di efficienza darebbero più crescita al sistema e lo renderebbero locomotiva mondiale insieme agli Stati Uniti, che ormai stentano a tirare tutto. I Paesi poveri potrebbero esportare di più da noi e noi vendere più da loro. Ma i sindacati, i tutelati europei e nipponici, e alla fine tutti noi siamo pronti ad essere più competitivi e, grazie a questo, globalmente trainanti?

 Un numero crescente di Paesi emergenti si sta armando, molti con capacità nucleari, biologiche e missilistiche, alcuni di questi ispirati da un nazionalismo aggressivo. Oltre ai rischi diretti per la nostra sicurezza, c’è quello che non possiamo lasciarli fare la guerra tra loro. Uno scambio nucleare, per dire, tra India e Pakistan arriverebbe fin qui, fisicamente, e distruggerebbe il mercato finanziario per crisi di fiducia. Cosa facciamo? Dobbiamo investire in tecnologie tanto potenti – è possibile – da impedire a chiunque di fare la guerra, e sostenere i costi nonché il rischio di ritorsione, oppure incrociare nuovamente le dita?

 Provate a rispondere ed entrerete nei veri  dilemmi della globalizzazione. I governi occidentali stanno cercando di risolverli. Da tempo usano una condizionalità morbida, pragmatica, ma pressante per costringere i Paesi disordinati a riordinarsi. La Cina non ha ancora democratizzato, ma ha dovuto migliorare il rispetto dei diritti fondamentali per accedere alla Wto. Tuttavia è un’evoluzione complessivamente troppo lenta in relazione al fabbisogno attuale di stabilità. E il gap cresce. Quindi è arrivato il momento di pensare ad opzioni ordinative e direzionali più forti, pur sempre realistiche. Per esempio, determinare degli standard per ogni Paese e negoziare i tempi in cui li raggiungerà, con controlli sulle tappe se vuole gli aiuti. Ma il presupposto per somministrare bastone e carota occidentali al mondo implica, prima della formula ed architettura politica che lo faccia, il consenso popolare. Siamo, noi italiani, disposti a prenderci la nostra parte di responsabilità, sapendo che comporta rischi, costi e forse una vita meno comoda? Io, personalmente, rispondo di sì. Per razionalità. Se non impongo la democrazia ai Paesi emergenti questi alla fine avranno meno costi sociali dell’Italia e ci massacreranno sul piano concorrenziale. Se non limito l’Aids in Africa questo arriva nei miei dintorni. Se quella banca, per dire, in Mongolia fallisce per assenza di controlli, il giorno dopo i miei investimenti in Borsa, qui, potrebbero svanire. Se non divento più competitivo nel mercato metto a rischio me e non tiro gli altri. Non vedo alternative all’opzione forte. E voi?

 

Carlo Pelanda

www.carlopelanda.com