La
logica sotto il risiko bancario
Di
Carlo Pelanda (13-3-2006)
Continua
la saga delle banche. Antonveneta e Bnl
hanno cambiato la proprietà, a favore rispettivamente di Abn-Amro
(olandese) e Bnp-Paribas (francese). Ora il
sommovimento tocca Banca Intesa. Le cronache riportano l’ipotesi del suo
tentativo di acquisizione di Capitalia
e la difesa preventiva da parte della seconda. Nel recente passato il San Paolo
ha dovuto “difendersi” dalla banca belga, in realtà influenzata da
interessi localizzati in Francia, Dexia. Unicredito
si è proiettato fuori dall’Italia acquisendo
un’importante banca tedesca, ma così restando condizionato da chi è stato
comprato. In sintesi, c’è un terremoto a livello di grandi gruppi bancari che
sta riverberando anche su quelli di scala media e regionale, per esempio le
ricche banche popolari. I commentatori si stanno divertendo descrivere tale
scenario come quello di una partita a scacchi o di risiko
enfatizzando gli aspetti di lotta di potere, di azioni
e contromosse come se si fosse in battaglia. Ma, senza per altro fare i
bacchettoni o i moralisti, l’opinione pubblica dovrebbe essere capace di
valutare il sommovimento nel sistema bancario in relazione
all’utilità dei cittadini e del buon funzionamento del mercato.
Cerchiamo
di ricapitolare in breve le situazioni e le logiche che muovono gli attori del
sommovimento. Sotto la gestione Fazio, semplificando,
la Banca
d’Italia decideva la configurazione del sistema bancario italiano,
influenzandola direttamente. Si chiama “gestione dirigistica”. L’idea di
Fazio era quella di difendere l’italianità delle banche perché,
considerandole troppo piccole, se avesse aperto i
confini ad acquisizioni da parte di giganti estere queste sarebbero diventate
province irrilevanti di imperi con il comando altrove. Un giorno
l’ex-banchiere centrale spiegherà questo suo criterio strategico e lo commenteremo
in quel momento. Oggi tale citazione serve solo a segnalare che la nomina di un
nuovo banchiere centrale ha cambiato di colpo l’ambiente. Draghi,
correttamente, non ritiene che
la Banca
centrale debba essere dirigista, ma solo la garante del rispetto delle regole di
buon funzionamento di una banca e del sistema. Ciò, di fatto, ha aperto un
problema: le banche italiane sono piccole, prede, e non più protette contro i
predatori. Questi, in particolare francesi e spagnoli, altri alla finestra, si
sono scatenati per la conquista del ricco mercato italiano del risparmio. Ed è
ovvio che le grandi banche italiane cerchino di diventare più grandi
via fusioni ed acquisizioni per difendersi meglio. In tal senso c’è
una logica comprensibile dal punto di vista di chi oggi gestisce la proprietà
delle banche italiane. Ma quale deve essere il punto
di vista del mercato e del cittadino? Prima di tutto chi opera con le banche ha
vantaggi se queste sono in concorrenza. Al riguardo
della scala, poi, c’è un mito: si ritiene che la piccola banca locale sia il
miglior sostegno per la piccola impresa. Non è per niente vero perché la grande
banca può offrire servizi standardizzati di altissima qualità ed efficienza
proprio grazie alla grande scala che permette investimenti in innovazione e
l’adattamento dei prodotti in relazione ad un grande ventaglio di clientela. Quindi,
salvo il valore sociale del credito cooperativo, in materia di banche “grande
– in realtà – è bello per loro e per i clienti”. Ed in
base a tale criterio dovremmo favorire le azioni che portano a formare
nuovi grandi gruppi per fusione. Italiani o stranieri non è
alla fine così rilevante, ma con una avvertenza. Le banche francesi paiono
muoversi con un’ottica geopolitica di conquista più che di mercato e su
questo bisognerà vigilare.
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