L’indice WEF di competitività è scientificamente irrilevante, ma strategicamente utile
Di Carlo Pelanda (4-10-2005)
Il successo
mediatico dell’indice di competitività delle nazioni elaborato ogni anno
dal World Economic Forum fa infuriare i ricercatori
più seri. In effetti è un misto
piuttosto discutibile tra dati di percezione e oggettivi. Ed è giusto
avvertire il pubblico che il 47° posto dell’Italia su 117 nazioni
valutate in tale classifica non ha valore scientifico. Questa rubrica,
tuttavia, prega i colleghi rigoristi di essere tolleranti per motivi di
priorità strategica. La formazione di un mercato globale stimola la
domanda di schemi di valutazione sintetica che permettano la formazione di
un’opinione pubblica mondiale. Che a sua volta genererà delle
visioni comuni nelle duecento nazioni del pianeta, prima nelle èlite e
poi nelle popolazioni. In tale scenario è cruciale dominare il contenuto
di tali standard in modo che diventino favorevoli all’occidente. Per
esempio, è irrilevante l’imprecisione nel misurare il valore competitivo
del welfare, mentre è importante che una nazione sia costretta ad essere
valutata per il fatto di avere o meno un welfare
stesso. Perché può aiutare a costruirlo dove non c’è
nel momento in cui le èlite di un Paese emergente realizzano
che da ciò dipende la loro accettazione nella comunità
internazionale. Per tale effetto strategico sono rilevanti gli indici
comparativi globali, ma non la loro precisione scientifica. Per esempio, se
quello del WEF inserisse la democratizzazione come fattore sovraponderato
di competitività, allora il valore politico di tale scelta sarebbe
superiore all’obiezione che in sede di ricerca tecnica tale assunto non
è precisabile. In particolare, è inutile ridicolizzare
l’indice WEF perché mette al primo posto mondiale
Carlo Pelanda