Oro nero, futuro grigio
Di Carlo Pelanda (29-2-2000) (No. 11)
Il prezzo del petrolio è triplicato in poco
più di un anno, passando dai dieci dollari al barile, circa, del dicembre 1998
ai 30 di fine febbraio fatti segnare dal tipo WTI (Western Texas Intermediate).
L'0cse stima che l’impennata dei costi energetici abbia raddoppiato
l'inflazione, nella media dei paesi sviluppati, portandola dall'1,1% al 2%. E
sta ancora aumentando. Ma il senso di quanto sia pericoloso il rialzo
petrolifero viene reso meglio dai seguenti parametri. Ogni rialzo di dieci
dollari al barile equivale allo 0,50% di inflazione in più ed allo 0,25% di
crescita del Pil in meno (media dei paesi sviluppati). Con questo in mente,
possiamo definire - pur con un eccesso di semplificazione - le seguenti soglie.
Se il prezzo del petrolio andasse verso i 40 dollari vi sarebbe una quasi certa
catastrofe recessiva, tipo quella successa nel 1973, perché l’inflazione
andrebbe alle stelle e il necessario rialzo dei tassi soffocherebbe la crescita
economica. Se restasse vicino ai 30 per tutto il 2000 vi sarebbe comunque un
alto rischio di inflazione-recessione. Se si ritirasse tra i 25 ed i 20
rimarrebbero delle tensioni, ma non pericolose. Se scendesse e si stabilizzasse
tra i 15 ed i 18, sarebbe lo scenario ottimale per una buona crescita senza
inflazione. Questi numeri servono a determinare, pur ad occhio, quale sia il
"giusto prezzo" del petrolio per i nostri interessi. Le prossime
settimane saranno decisive per
riportare il prezzo del greggio entro limiti sostenibili. L'Opec - il cartello dei paesi produttori
composto da Arabia Saudita, Iran, Kuwait e altri, più nazioni associate quali
Messico e Venezuela - deciderà il 27 marzo prossimo, nella sua riunione
semestrale a Vienna, quanto e se modificare l'offerta di petrolio e, quindi, il
prezzo. Vediamo quali sono gli aspetti critici dello scenario.
L'anno
scorso l'Opec - sotto la guida dell'Arabia saudita - riuscì ad attuare una
restrizione coordinata dell'estrazione di petrolio in quasi tutti paesi
produttori per riportarne il prezzo in alto dopo la caduta dovuta alla minore
domanda in seguito alla crisi asiatica del 1997-1998. Tale mossa non fu
contrastata dagli occidentali perché la prospettiva di maggiori introiti
petroliferi, almeno per qualche mese, era assolutamente necessaria per salvare
dal collasso finanziario paesi di enorme rilevanza geopolitica, quali la
Russia, l'Arabia stessa (il cui debito é arrivato al 100% del Pil), i
socialmente instabili Messico e Venezuela. Ma alla fine del 1999 l'Opec non
dava ancora segni di voler rientrare entro un prezzo del petrolio più
calmierato. Ed é scattato l'allarme. Gli Stati Uniti stanno attuando una
pressione politica "pesante" che ha già costretto l'Opec a dichiarare
che preferirebbe un prezzo del petrolio oscillante tra il 25 ed i 20 dollari al
barile. Possiamo sperare in un felice conclusione della vicenda oppure no?
Da una parte i paesi produttori non possono
sostenere un confronto duro con l'Occidente né tantomeno hanno l'interesse a
creare una recessione mondiale che poi riduca di nuovo la domanda di petrolio,
mettendo in crisi anche loro. Ciò rende probabile che decideranno di aumentare
la produzione per ridurre il prezzo. D'altra parte é ancora del tutto incerto,
e oggetto di litigio all'interno del cartello, il "quanto". Nel 1999
furono tagliati circa 4milioni di barili al giorno. Al momento lo scarto tra
domanda ed offerta mondiali di petrolio è di circa 3 milioni di barili al
giorno. La proposta di incremento della produzione oscilla da un minimo di 1,2
milioni di barili in più ad un massimo 3,1. Il punto é che solo questa seconda
cifra ha una ragionevole probabilità di portare il prezzo attorno ai 25 e
tenerlo per il 2000 considerando che la domanda aumenterà ancora a causa della
maggior crescita economica mondiale. Le indiscrezioni parlano di un accordo in
evoluzione verso un aumento di solo 2,2 milioni di barili al giorno. Il primo
dato è che tale quota, se confermata, non basterà a rientrare dal pericolo
Il secondo dato è che solo pochi paesi produttori sarebbero in realtà capaci di aumentare sostanzialmente in pochi mesi la produzione di petrolio: Arabia Saudita, Kuwait e Messico (e l’Irak attualmente sotto embargo parziale). Per esempio, la prima può passare velocemente da dai 2,9 milioni attuali ai 3,3, ma il Venezuela - pur avendo una capacità produttiva teorica giornaliera di 3,6 – potrà al massimo passare dai 2,8 correnti ai 3 entro la fine dell’anno. Ciò significa che c’è un limite tecnico oggettivo alla velocità massima possibile del calmieramento del prezzo del petrolio. Ad occhio, lo scenario migliore che possiamo aspettarci vede un prezzo del petrolio comunque troppo alto per il 2000 e, quindi, un elevato rischio inflazionistico. Che per gli europei è ancora maggiore perché il prezzo del petrolio è fissato in dollari. Se l’euro non risale velocemente la china della svalutazione contro il dollaro – recuperando almeno il 10% del valore di cambio – è serio il rischio che l’inflazione nell’eurozona arrivi al 3% in pochi mesi, imponendo così un rialzo dei tassi che comprometterà la gracile ripresa economica in corso. Il problema continua.