La crisi dell’occupazione richiede una cambio di modello

 

Di Carlo Pelanda (1-11-2010)

 

Da un lato la crescita della disoccupazione è preoccupante. Quella formale sta andando verso il 9%, oltre l’11% il dato che include i “cassaintegrati” e chi rinuncia a trovare lavoro perché lo pratica in “nero”, attorno ad un deprimente 26% la disoccupazione giovanile. Dall’altro, la situazione è destinata a migliorare. L’economia italiana si trova in un punto del ciclo dove il numero di aziende in ripresa, in particolare quelle esortative, è elevato, ma insufficiente per ricostruire il volume occupazionale precrisi. La ripresa è trainata dalle esportazioni, ma nel mercato interno investimenti e consumi sono piatti, e quindi la crescita complessiva è stentata e lenta. Ad occhio, ci vorranno due anni affinché il traino della domanda globale, cioè dell’export, si diffonda a tutta l’economia nazionale aumentando l’occupazione. Se non ci saranno incidenti. Quelli ora individuabili potranno essere: euro troppo alto che toglie competitività alle esportazioni sensibili al cambio; rallentamento della domanda globale dovuto a problemi nelle locomotive cinese – probabili nel 2011 - ed americana, che invece, probabilmente, darà sorprese positive; bolla inflazionistica mondiale dovuta al dollaro basso e conseguentemente al rialzo delle materie prime; ecc. Ma le sensazioni sono che nessuno di questi freni  sarà di forza tale da rigettarci in una crisi. In sintesi, è giustificato un moderato ottimismo nel medio termine.

Ma non è il caso rilassarsi. Senza cambiamenti nel modello l’economia e l’occupazione resteranno stagnanti. Basta un breve sguardo nei dati storici per trovare che il modello europeo di “economia sociale di mercato”, di cui quello italiano è una variante disordinata, quello francese una più dirigista, il tedesco più efficiente, ma debole sul piano della crescita interna e troppo dipendente dall’export, viene finanziato in deficit da oltre due decenni. Significa, semplificando, che da anni bisogna ricorrere al debito per mantenere ad un buon livello i posti di lavoro. Nel futuro non sarà più possibile farlo sia per il rischio di insolvenza sia per i connessi requisiti di stabilità dell’euro basata sull’equilibrio dei bilanci statali e locali. I governi potranno attutire l’impatto di questo nuovo vincolo, e la scorsa settimana l’Ue ha avviato un compromesso tra rigore e sua applicabilità nelle nazioni, ma non potranno evitarlo. Ciò vuol dire che lo Stato italiano dovrà cominciare a tagliare spesa fino ad arrivare al pareggio di bilancio, in qualche anno, cioè a togliere dai 40 ai 45 miliardi strutturali al volume attuale della spesa pubblica, equivalenti al 3% del Pil. Molti di più se l’Europa ci imponesse anche la riduzione delle quantità assolute di debito pubblico, ma Berlusconi e Tremonti sono per il momento riusciti a posporre questo secondo vincolo aggravante. Ma proprio per questo il primo (deficit zero) sarà più stringente e ridurrà il denaro pubblico che finanzia vecchia e nuova occupazione. I posti di lavoro direttamente o indirettamente finanziati con spesa pubblica nazionale e locale verranno tagliati. O si tiene accettabile la qualità dei servizi pubblici, per esempio la sanità, o si mantengono settori economici e lavori protetti, non ci saranno i soldi per ambedue le spese. La conseguenza è che più persone dovranno trovare lavoro nel mercato competitivo. Ma il nostro modello economico, più socialista che liberista, non favorisce la crescita del mercato stesso. Sarà inevitabile, pertanto, accettare l’idea di più mercato e meno Stato. Capirlo in ritardo produrrà un’ondata di disoccupazione. 

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