Eurocompromesso poco
efficace
Di Carlo Pelanda (7-3-2005)
Oggi e domani i ministri
economici dell’eurozona tenteranno di chiudere l’accordo tecnico sulla
revisione del Patto di stabilità che dovrà essere sancito a livello di capi di
governo il 22 e 23 marzo. Si può osservare, prima di tutto, che il negoziato è
stato tenuto il più possibile riservato, con l’idea, nemmeno tanto nascosta, di
arrivare ad un compromesso tra “tecnici” prima che i “politici” possano fare
guai. La linea tecnocratica, ispirata silenziosamente dalla Banca centrale
europea, persegue la strategia di salvare l’architettura originaria del Patto
resistendo alla pressione per allentarne i vincoli da parte degli Stati che
vorrebbero usare di più il deficit per tamponare una stagnazione economica che
sempre di più si sta trasformando in crisi sociale, per esempio l’aumento della
disoccupazione in Francia e Germania. E tale linea sta generando un compromesso
così sintetizzabile: non si cambia nulla, ma si crea uno spazio più ampio di
violazione senza sanzioni.
Quale valutazione dare alla
tendenza detta, se verrà confermata? E’ dal 2001 che Francia e Germania, e
tanti altri, non rispettano più il limite del 3% di deficit annuo ammesso. E, a
dati correnti, continueranno a farlo nei prossimi anni. I Paesi con minor
debito (entro il parametro del 60% del Pil) hanno chiesto inizialmente di poter
usare tale loro qualità per avere il permesso di sfondare senza sanzioni il
tetto di deficit annuo. Idea destabilizzante per due motivi. Primo, creerebbe
una disparità tra Paesi ad alto debito storico e quelli a basso. Infatti la
diplomazia italiana – il nostro debito è sul 106% del Pil - ha faticato non
poco per eliminare questa clausola spinta da Parigi e Berlino i cui debiti
cumulati viaggiano attorno al 60% del Pil stesso. Secondo, un debito viene
valutato come stabilizzato e gestibile se scende e non certo se sale, qualunque
sia la sua percentuale del Pil. In tal senso l’Italia ha avuto come alleata la
Bce nel contrastare l’ipotesi di basare il rispetto del Patto alla quantità di
debito. Evitato questo pericolo, tuttavia, restava il problema di rivestire di
legalità europea il fatto che i suoi Paesi non potevano né volevano continuare
a rispettare il Patto. Ciò è stato fatto, appunto, allungando i tempi richiesti
ad uno Stato per rientrare nei limiti del 3%, di fatto eliminando le sanzioni,
e riconoscendo delle giustificazioni più ampie
per le violazioni. La lista di queste è ancora oggetto di discussione.
Si scontrano due idee. La prima è quella di definire dei “deficit buoni”, tali
perché porteranno a miglioramenti futuri, cioè a giustificare gli sfondamenti
dovuti a politiche di riforma delle pensioni o di riduzione delle tasse o di
grandi investimenti infrastrutturali. La seconda, rigorista, è quella di
evitare una tale lista e di valutare caso per caso, e a posteriori, le
situazioni per lasciare intatto il concetto che, qualunque sia il motivo,
andare oltre il 3% di deficit resta una violazione. Vuol dire: si può essere
comprensivi, ma bisogna evitare la formalizzazione delle violazioni. La
sensazione è che si arriverà ad un compromesso con questi contenuti. Se così
sarà, quale sarà il nuovo scenario? Non molto diverso da quello attuale. Gli
Stati conquisteranno un po’ più di spazio di deficit, ma non al punto da poter
fare riforme forti che richiedono deficit temporanei piuttosto marcati, per
esempio le politiche di riduzione delle tasse. Quindi la valutazione della
tendenza in atto è negativa perché: (a) comunque il Patto perderà rigore; (b)
senza, in cambio, permettere agli Stati scelte sufficientemente forti per
modificare le condizioni che tengono stagnante e decompetitiva l’economia
dell’eurozona.