La regola aurea
Di Carlo Pelanda (17-1-2005)
Oggi inizia il negoziato, che si concluderà nel marzo prossimo, per la modifica del Patto di stabilità. La scorsa settimana si sono profilate tre posizioni: (a) non cambiare le regole, ma inserire una valutazione discrezionale più elastica per gestirne le violazioni (Commissione, Almunia); (b) permettere alle nazioni con minor debito di sfondare il tetto di deficit annuo (Francia e Germania); (c) portare una parte della spesa pubblica per investimento fuori dal calcolo di stabilità, con un meccanismo chiamato “regola aurea” (proposto dall’Italia con il sostegno parziale di Francia e Germania). La Banca centrale europea, correttamente, ha posto il veto sulla seconda proposta. La prima è ambigua. Sorprendentemente il presidente di turno della Ue, Jean Claude Junker, ha sparato contro la terza senza nemmeno analizzarla.
Il Patto ha tre difetti. Il limite di deficit annuo al 3% non
garantisce comunque la stabilità dell’euro. Non distingue nel deficit ammesso
quello cattivo dal buono. Non prevede alcuno spazio compatibile per gli
incentivi allo sviluppo, né indiretti (deficit temporaneo per detassazione) né
diretti (investimenti pubblici). La regola aurea (Golden rule) avrebbe la
capacità di sanare questi difetti imponendo il pareggio dei bilanci statali sul
piano della spesa corrente e portando fuori dal calcolo del deficit rilevante
per l’eurostabilità le spese che sono chiaramente di investimento. Cosa vuol
dire? Portare a zero il deficit “cattivo” (stabilità) e generare uno spazio
compatibile con la stabilità stessa per quello “buono” (sviluppo). Il secondo
può essere così definito perché riguarda investimenti di denaro pubblico che
incrementano la crescita e la sua qualità – occupazionale, salariale - nel
lungo termine: istruzione, ricerca, finanziamento di programmi tecnologici,
infrastrutture, ecc. Lo Stato non deve essere imprenditore, guai, ma certamente
deve servire l’economia agendo come una sorta di banca d’investimento che finanzia
quei programmi dove il mercato non può arrivare perché il ritorno
dell’investimento stesso è troppo lungo o indiretto. Per esempio, un soggetto
di mercato non investirà mai su un giovane la cui maggiore qualità educativa
produrrà più crescita sistemica dopo 25 anni né, tantomeno, su programmi di
ricerca pura non-finalizzata ad alti costi e rischio che, tuttavia, sono base
essenziale per le novità ed innovazioni concrete. Per questo ci vuole un
“investitore di sistema” che è lo Stato stesso. Ora il Patto non lascia fare
tale mestiere agli Stati diventando così impoverente, deflazionistico. Con la
complicazione di lasciarli liberi di accendere deficit cattivi di spesa
improduttiva, inflazionistica. In sintesi, la regola aurea porrebbe un limite
più netto e rigoroso al deficit cattivo e libererebbe risorse per quello
portatore di sviluppo. Perché Junker si è messo di traverso? Teme che gli Stati
usino la finestra di deficit buono per nascondervi quello cattivo. Ma evitare
tali storture sarebbe semplice con due regole. Prima, in ogni caso il deficit
buono non deve mai superare il 3% annuo del Pil, stabilito il deficit zero sul
piano della spesa corrente. Seconda, la spesa di investimento in deficit va
certificata sul piano europeo, una sorta di bollino blu, per provarne la sua
necessità, sostenibilità e qualità. Per esempio, se l’Italia – portato a zero
il deficit di spesa corrente – potesse poi impiegare un 2% del Pil in deficit
per sviluppo ci sarebbero circa 24 miliardi da investire annualmente in
istruzione, ricerca, strade e tecnologie. In tal caso il Patto favorirebbe la
crescita garantendo anche la stabilità finanziaria. Sarebbe sorprendente una
bocciatura della regola aurea senza un esame più approfondito.