L’europeizzazione delle
riforme
Di Carlo Pelanda (8-3-2004)
Gli ultimi dati
sull’economia dell’eurozona confermano la tendenza stagnante dell’ultimo
biennio e fanno prevedere un poco entusiasmante 2004. Francia ed Italia stanno
crescendo di uno zerovirgola e la Germania ha ancora il segno meno davanti alla
crescita del Pil. Nello scenario più ottimista i Paesi detti, che insieme fanno
quasi i 2/3 dell’intero prodotto economico lordo dell’eurozona, potrebbero
spuntare una crescita un po’ sopra l’1% nel 2004. Che sarebbe ovviamente meglio
di una recessione, ma che francamente non invertirebbe il lento declino
economico che sta erodendo la ricchezza
del continente. Di fronte a questi dati deprimenti non si riesce a
capire come mai i governi europei principali non si mettano d’accordo per
operazioni congiunte di rilancio economico, con spirito d’emergenza.
Il problema. Francia,
Germania ed Italia vanno male per il medesimo motivo: hanno, pur con piccole
variazioni nazionali, il medesimo modello di Stato assistenziale troppo carico
di tasse e protezionismi sociali eccessivi che irrigidiscono il mercato del
lavoro. A cui si aggiungono quelli nazionali che non fanno scattare l’effetto
del mercato unico, e quindi il beneficio della moneta altrettanto unica che
altrimenti non c’è proprio, insieme ad altri che bloccano la concorrenza. E
fino a che tale modello politico non verrà reso più leggero e flessibile non
c’è speranza che ripartano gli investimenti, e con loro la crescita economica.
In sintesi, il modello europeo centrocontinentale è troppo sbilanciato sul lato
di garanzie protezionistiche che bloccano la creazione della ricchezza.
La soluzione non è
difficile, in teoria. Basta riformare il modello affinché trovi un migliore mix
tra garanzie e regole di efficienza economica. Per esempio, apro il sistema
alla possibilità di licenziare in modo più fluido, ma così facendo si creano
più opportunità di lavoro. Nei momenti difficili del mercato, poi, è possibile
inserire salvaguardie speciali. In un tale scenario l’individuo deve essere più
mobile intellettualmente e geograficamente per inseguire le opportunità di
lavoro. Ma in cambio ha più probabilità di incrementare i propri redditi.
Questo per dire che la tecnica per rilanciare l’economia senza ridurre le garanzie
c’è, con tante variazioni e graduazioni possibili. Ma i tentativi riformisti
fatti nelle nazioni dette sia dai centrosinistra sia dai centrodestra europei
hanno trovato una barriera insormontabile nei sindacati e nelle componenti
protezioniste in ambedue gli schieramenti. E nella pigrizia sociale di una
popolazione troppo abituata all’assistenzialismo. Così il modello è rimasto
irriformato e la crisi della ricchezza nel continente si sta facendo endemica.
Una nuova strada sarebbe quella di europeizzare le riforme basiche piuttosto
che lasciare la loro realizzazione alle singole nazioni. Cioè produrre un
euromodello con la forza vincolante di un trattato, tipo Maastricht, che fissi
nuovi standard in materie quali la sostenibilità del sistema pensionistico, i
tetti massimi di fiscalità da ridurre, la riduzione progressiva dei privilegi
corporativi e delle barriere nazionali che comprimono la concorrenza e
l’espansione del mercato, maggiore flessibilità per le regole occupazionali e
più selettività per le tutele, ecc. Tale mossa avrebbe tre effetti virtuosi:
una maggiore pressione riformista nelle singole nazioni, un passo in più verso
un mercato unico aperto e con regole omogenee e, soprattutto, un impulso alla
crescita per tutto il continente. Ma c’è il rischio che l’europeizzazione delle
riforme di efficienza trasformi la
resistenza protezionista in movimento antieuropeo. I politici devono scegliere
se prendersi questo o quello dell’impoverimento.