Introduzione
Cronogenesi
La storia in atto ci fa intravedere la possibile nascita
di un’era dove i limiti del passato potranno essere
superati. La scarsità è sostituibile con l’abbondanza.
La malattia è sempre più contrastabile da una medicina che
va a più fondo nelle nostre strutture genetiche profonde.
La vita potrebbe essere allungata. La tecnologia promette un
dominio crescente della materia, informazione ed energia.
Complessivamente, si riescono già ad intuire le possibilità
concrete per una futura traiettoria di pieno riscatto
dell’umanità dalle costrizioni biologiche, ecologiche,
oltre che di quelle politiche, sociali, culturali ed
economiche che la hanno compressa nei millenni e che ancora
la soffocano. Il futuro si sta aprendo all’ambizione
antropica più ardita, la salvazione terrena? Non ancora, ma
certamente ci sta mostrando una strada in quella direzione,
con delle stazioni intermedie in vista che appaiono
miglioramenti formidabili della condizione umana in
relazione al presente.
E nel dare un’occhiata indietro, con negli occhi la
visione di questo futuro possibile, esplode nella mente
un’emozione. I nostri antenati più coraggiosi e visionari
hanno costruito la strada che ci ha portato a poterne
tracciarne una che andrà ancora più avanti e più in alto.
Non hanno trasferito lungo l’asse del tempo solo biologia,
la speranza ridotta a mera riproduzione, ma cultura e
risultato. Una speranza operativa ed attiva. E se siamo
arrivati fin qui, oltre i limiti che apparivano insuperabili
millenni, secoli e decenni fa, allora vuol dire che tale
cultura, comunque variata ed espressa, è mossa
dall’ambizione di superare ogni barriera. Prevale in
questa direzione della nostra storia il desiderio
consapevole di salvezza o la curiosità istintiva di muovere
le cose? Altri stendano fiumi di inchiostro su quale sia il
motore antropologico più profondo, a me basta poter
sostenere senza essere smentito dai fatti che sia possibile
un’alleanza tra curiosità e miglioramento. Tra audacia e
soluzione. Tra futurizzazione e costruzione di un tempo più
conveniente.
Ma l’eccitazione non può nascondere una difficoltà
che forse gli antenati futurizzanti non hanno avuto, pur
superando altre enormi, e che la nostra generazione dovrà
trovare un modo per gestire. E’ la prima volta nella
storia nota che vediamo la possibilità di superare dei
limiti finora ritenuti assoluti.
Quello della vita è il più impressionante oltre che il
più mobilitante. Potremo modificarla e forse crearla. Ma
nessuno ci ha insegnato come. Perché non era previsto che
si potesse fare fino a poco fa, tutta la nostra cultura
evoluta entro questo limite fisso, o endodestino. Molti miti
hanno cercato di portare il sogno oltre, verso esodestini,
ma nessuna tecnica ci è mai riuscita nei fatti. E così
abbiamo nelle mani un sapere che promette di poterlo fare,
con certa facilità, ma che scotta perché non riusciamo ad
inquadrarlo entro un universo morale basato su esperienze
cumulate. Ed infatti ci stiamo dividendo tra chi rifiuta per
paura e chi vuole tentare in ogni caso, tra conservatori e
futurizzanti. Qui scrivo per i secondi, avendo già le mie
emozioni fattomi scegliere per impulso il campo dove
militare. Ma non sono emotivo al punto da dimenticarmi gli
insegnamenti di zia Ragione. Dobbiamo costruire una teoria,
ora mancante, che rielabori la morale per renderla
propulsione e non freno per la tecnica. Alleata e non
nemica. E dovrà essere una teoria piuttosto solida perché
deve convincere e non solo vincere, oltre a non perdere
contro gli assalti dei movimenti conservatori. E,
soprattutto, trasformarsi in politica che sappia governare
un nuovo così nuovo.
Ma è anche impressionante il compito di rendere
compatibile lo sviluppo capitalistico, e le sue conseguenze
espansive ed artificializzanti, con i limiti dell’ecologia
naturale. La storia passata ci mostra che non abbiamo mai
avuto questo problema in forma così pressante. La natura è
stata sempre piegata ai nostri interessi quando serviva. Il
pianeta che oggi abbiamo ereditato ha ben poco di
"naturale", inteso come indipendente da antropos.
Per esempio, l’agricoltura lo ha ristrutturato, a seguito
dell’espansione demografica, in una sorta di ecologia
artificiale. E tale è la direzione storica. Ma questa volta
i passi di sviluppo umano rischiano di andare oltre ciò che
la natura può sostenere. E ci porta al dilemma se fermarci
noi o prendere in mano la natura e rielaborarla. La seconda
appare direzione inevitabile per non creare un disastro
umano. Ma sarà di una complessità infernale evitarlo senza
pagare il prezzo di una catastrofe ambientale. La tecnologia
potrà darci sia un’ecologia artificiale raffinata sia
strumenti con meno impatto sui cicli della vita naturale è
ciò creerà nuovi spazi antropici in equilibrio con una
natura rielaborata per resistere meglio al dominio
planetario della nostra specie. Tuttavia, ci vorranno enormi
cambiamenti per arrivarci senza disfare il tutto.
Non nascondiamoci che il lato più ambiguo della
futurizzazione sia il creare nuovi problemi più grossi nel
momento in cui risolve via progresso quelli precedenti.
Senza armi si era mangiati dalle belve, con quelle siamo a
noi a mangiarle, ma le usiamo anche per distruggerci l’un
l’altro. D’altra parte, di fronte al nuovo problema da
noi stessi generato poi troviamo una nuova soluzione. E qui
c’è la forza del salto nel futuro: risolve i problemi
anche se ne crea di nuovi mentre il fermarsi ne crea meno
sul momento, ma di più e con minore capacità di gestirli
poi.
Tuttavia, anche tale forza potrà vacillare di fronte ad
orizzonti che si avvicinano e paiono perfino indicibili. Per
esempio, se avremo successo nel passo ecofuturizzante, il
problema successivo che genereremo sarà quello di arrivare
ad un confine non facilmente valicabile. Il pianeta diventerà
comunque troppo piccolo per ospitarci, come forse la stessa
forma umana evoluta entro i suoi vincoli ristretti. Quindi
nel tracciare un sentiero di futurizzazione tecnologica
dovremo anche predisporre le prossime generazioni ad
affrontare un salto ancora più acrobatico: la continuazione
dell’evoluzione umana attraverso esodestini. Questi intesi
come sviluppi da costruirsi al di fuori della dimensione
ecologica e biologica complessiva dove è iniziata la nostra
specie. Già oggi si comincia a sentire la tensione tra
umano e post-umano per questioni di minore portata. Per
gestire queste e quella più grossa, forse non così remota
come potrebbe apparire, sarà sensato cominciare il prima
possibile un’apertura della cultura a tali prospettive.
Infatti il punto, sia tecnico sia ideologico e
metodologico, di questo libro è che la speranza di
risolvere con successo i problemi futuri che noi stessi
generiamo con il progresso dipenderà prima di tutto dal
come mobilizziamo la società di oggi, in ogni presente, per
prepararla al domani. L’idea è di superare con aumenti di
velocità e non rallentamenti i problemi. La teoria della
"società veloce" sceglie l’opzione di
accelerare la rincorsa di fronte ad un ostacolo per
superarlo meglio. La teoria, implicita, della "società
lenta" tende, al contrario, al rallentamento o rinuncia
al salto come metodo generale. E la seconda ha molta
diffusione sia come ideologia che ammira la lentezza come
stile di vita e politico sia come accettazione passiva,
anche non voluta, delle inerzie. E ciò sta creando una
dannata complicazione ai velocisti. La cultura che c’è,
la forma degli Stati che esiste, la loro architettura
internazionale e la capacità dell’economia globale di
creare ricchezza per un numero crescente di persone non sono
di velocità sufficiente. Non solo per superare gli ostacoli
futuri, che richiedono più qualità e quantità nei fattori
detti. Ma neanche per fare manutenzione del nostro presente,
cioè saltare le siepi del percorso quotidiano della salute.
Si osserva, infatti, un rallentamento delle capacità
politiche ed economiche di modernizzarsi, cioè di adattarsi
alle nuove condizioni attraverso innovazioni dinamiche. Come
se il sistema occidentale, pur basato sul capitalismo
tecnologico e sulla sua teoria velocizzante (implicita),
fosse in un momento di pausa. Come se la società ricca non
riuscisse più a trovare quella forza che la rese tale nel
recente passato. Non so se ciò sia solo sbandamento
temporaneo di cui non esagerare la portata oppure l’avvio
di una biforcazione dei sentieri dove aumenta la probabilità
di una degenerazione del sistema.
Ma sono certo, qui in base a dati precisi, che molte
componenti del nostro sistema sociale soffrano di vecchiaia
e rallentamento. Quindi bisogna collegare l’atto di
futurizzazione remota con la manutenzione del presente,
dinamizzandolo.
Cosa fare: tentare di disegnare di più il nostro
presente e futuro o confidare nella buona sorte, cioè avere
grande fiducia nella provvidenza e nell’emergere di
soluzioni spontanee? Io tale fiducia la ho. Ma penso che
siamo in mezzo ad un tempo che finisce ed uno che nasce. E
per il secondo siamo senza esperienza. Quindi le soluzioni
spontanee, che comunque trovano origine nel sapere e nelle
caratteristiche di un ciclo storico specifico e non in
qualche capacità magica, potrebbero non arrivare a
dimostrarsi efficaci. C’è odore di cronogenesi, di
creazione di un nuovo tempo, e non me la sento di prendere
il rischio. Non credo, per altro, nemmeno nella possibilità
di poter pianificare e prevedere i futuri. Ma ritengo
fattibile e razionale orientarli con un progetto di massima
e con formule istituzionali e culturali che sappiano gestire
l’imprevisto cogliendone l’opportunità e minimizzandone
i pericoli. Lo vedo come una sorta di ponte provvisorio
gettato tra la sponda del tempo che finisce e quella del
tempo che nasce.
Per questo, alle avvisaglie di una possibile cronogenesi
sento che dobbiamo rispondere senza mezzi termini dando al
presente una direzione storica futurizzante.
Fortificazione
E anche senza mezzi termini va fortificato il modello di
capitalismo tecnologico per permettergli di esprimere meglio
il proprio potenziale di motore concreto di qualsiasi
futurizzazione. Certamente andrà perfezionato inserendolo
in un’architettura politica migliore, sia nazionale che
internazionale. Ma senza deprimere la sua forza motrice,
quindi dando a tale architettura forza propulsiva e non solo
stabilizzatrice. E’ ovvio che il mutamento
distruttivo-creativo comporti la continua generazione di
differenze. Per esempio, l’invenzione e diffusione del
computer ha tolto valore di mercato alle macchine da
scrivere ed a chi le costruiva e riparava. Ma tale
modernizzazione ha reso l’economia più produttiva o
comunque generato nuova domanda di manodopera in altri
settori. Si è creato un problema, ma allo stesso tempo una
nuova opportunità. Quindi il punto più importante non è
quante persone cadano nel problema, ma bensì quante colgano
il più velocemente possibile nuove occasioni di ricchezza.
E ciò dipende da tre cose: la mobilità intellettuale e
fisica degli interessati; che ci sia o meno una funzione
politica che incentivi e sostenga i transiti occupazionali;
e una forma del mercato internazionale che non deprivi di
opportunità un territorio, ma ne aggiunga. Quindi l’equità
sociale del capitalismo tecnologico è raggiungibile, o per
lo meno approssimabile, attraverso una continua
modernizzazione della politica. In particolare: più
investimenti educativi, istituzioni a sostegno di una
mobilità che corrisponde alla dinamicità del continuo
mutamento capitalistico e capacità di ogni governo
nazionale di mantenere competitivo il proprio territorio,
possibilmente entro standard globali che aiutino a fare
questo e non il contrario. Ciò serve a dire che non è per
nulla un mistero come il capitalismo possa diffondersi
armonicamente su tutto il pianeta, cancellando differenze in
basso, creandone di nuove in alto, ma sempre con meno
sofferenze. La formula è semplice: futurizzare
costantemente, sempre di più.
Ma i conservatori, in particolare le sinistre occidentali
o i protezionisti di qualsiasi colore, invece di accettare
la soluzione futurizzante, esasperano la conservazione di
garanzie immobiliste. Che sono sia irrealistiche sia
controproducenti per l’efficacia sociale del capitalismo
tecnologico stesso in quanto, minandone l’efficienza, ne
fanno lavorare più lentamente e malamente i meccanismi. In
sintesi, la cosa più assurda che si nota in questa fase
storica è che tutti i problemi economici e loro conseguenze
sociali hanno una soluzione non troppo difficile da
praticare, almeno concettualmente, in termini di
futurizzazione, ma questa non viene attuata per la
resistenza politica di una parte della società che resta
arretrata, passiva, pigra e, per tali motivi, impaurita dal
nuovo.
E qui si nota un paradosso che indica un cortocircuito
della cultura. La soluzione migliore viene contrastata e
demonizzata come immorale alla luce di una dottrina
tecnicamente inconsistente. E trova simpatia diffusa. Per
esempio le tesi antiglobalizzanti, la dottrina difensiva
delle garanzie della sinistra e del più dei sindacati. Alle
quali si aggiungono altri soliti noti conservatori tipo gli
ambientalisti mistici e i cultori del pensiero debole.
Creando così un impasto dove temi sociali si mescolano con
dottrine cognitive, le seconde dando alle prime un apparente
dignità scientifica, le prime offrendo alle seconde la
loro, ancor più illusoria, grande tradizione morale. Per
esempio, l’idea di una sinistra che lavora sempre a favore
dei deboli. La considerazione che così i deboli resteranno
tali, e lenti, non tocca queste eccelse menti e pertanto il
capitalismo in realtà buono perché risolutore diviene
demonio solo perché mobilizzatore.
Alcuni mi hanno consigliato di cosmetizzare le asperità
del mutamento competitivo capitalistico, cioè delle teorie
velocizzanti. Io, invece, penso che sia meglio
contrattaccare non solo mostrando l’inconsistenza della
pretesa di superiorità etica delle teorie difensive ed
immobiliste, ma, soprattutto, generando in chiaro una teoria
politica delle soluzioni futurizzanti ed esibirne la
maggiore solidità sia tecnica sia morale.
Questo libro, che vuole andare al sodo con meno fronzoli
possibile, è scritto in forma di raccomandazioni
progettuali, articolate in sette missioni di futurizzazione:
1.
Rinforzare il modello capitalistico
2.
Avviare la rivoluzione cognitiva
3.
Costruire lo Stato delle garanzie attive
4.
Dare al mercato globale un’architettura politica
propulsiva
5.
Gestire la rivoluzione tecnologica con un pensiero
forte e non debole
6.
Governare l’ecologia artificiale
7.
Aprire la cultura dell’umanesimo all’evoluzione
degli esodestini
Sette passi di rincorsa per compiere un grande balzo. |