Nel mercato globale dell’auto sopravviverà chi riuscirà per primo a chiudere le grandi fabbriche tradizionali

 

Di Carlo Pelanda (5-3-2002)

 

 

Il pubblico italiano è certamente curioso di capire se nel paese resterà una capacità di produrre automobili. Il dubbio è stato alimentato dalle difficoltà crescenti del settore auto della Fiat e da mosse tecniche che potevano far intendere la volontà di cederlo per concentrarsi su altre aree di business. Tale ipotesi è stata smentita pochi giorni fa dal vertice gestionale. Ma a quali condizioni sarà possibile? Il fattore di successo principale, nello scenario a 10-15 anni dell’intero mercato globale dell’auto, riguarda la capacità di passare più velocemente dei competitori da un modello produttivo concentrato e rigido ad uno diffuso e flessibile. La “grande fabbrica” con decine di migliaia di addetti che gestiscono tutte le fasi di costruzione di un mezzo è una  trappola per la remuneratività. L’organizzazione è troppo complessa e pesante per poterla adattare all’evoluzione dei mercati, innovare le offerte e sostenerle con aumenti di produttività (valore di un’ora di lavoro) e, in generale, di efficienza. Questo freno nel  lato del “processo” ha ridotto la speranza di ritorno sul capitale investito nell’auto dal buon 20% circa di qualche decennio fa al deludente 3% dei tempi recenti, se non peggio. Per accelerare di nuovo e raggiungere la velocità del profitto i grandi costruttori dovranno chiudere i megaimpianti manifatturieri e diventare assemblatori intelligenti e supertecnologici di componenti fornite da una rete di piccole unità di outsourcing. Questa teoria è nota da tempo, già in applicazione iniziale, ma tutte le grandi aziende sono piuttosto lente nel trasformarla in fatti perché, appunto, più grande è un’organizzazione e più è carica di inerzia e di vincoli sindacali. Il conservatorismo gestionale verrà certamente sbloccato, in tutti, perché il vecchio modello concentrato è ormai insostenibile. Si differenzieranno, quindi, per la velocità con cui sapranno liberarsi della manodopera concentrata in eccesso. Il punto, qui semplificato, è che sarà la resistenza sindacale, e quindi la configurazione politica di un territorio, a decidere quali costruttori vivranno o moriranno. Ciò potrebbe suonare a morto per la Fiat. Ma c’è una buona notizia. Il governo tedesco ha riaffermato la volontà di difendere le grandi concentrazioni industriali (per esempio, Wolfsburg, Volkswagen) e in Francia non sono probabili liberalizzazioni a breve. Quindi la Fiat, almeno in Europa, potrebbe godere di competitori più lenti nel cambiare. E’ un augurio a Torino. Ma anche alla sinistra francese e tedesca di vincere le elezioni per dare un vantaggio competitivo all’industria residente in Italia.