La vera riforma competitiva
Di Carlo Pelanda (24-1-2005)
Il governo sta per varare delle misure di competitività intese, in sostanza, come finanziamenti o facilitazioni per specifici settori economici. Saranno d’aiuto, ma va detto che la “competitività” del territorio italiano non verrà certo modificata da queste, ma da altre di carattere più sistemico, alcune avviate, altre no.
Per competitività,
semplificando, si intende la capacità di un’area territoriale sia di attrarre capitale
in varie forme sia di mettere in grado le unità economiche residenti di essere
concorrenziali nel mercato, oggi da intendersi globale. Cosa che crea
occupazione ed opportunità di lavori sempre più qualificati, crescita, più gettito
e quindi più risorse per la qualificazione del territorio. L’Italia è agli ultimi posti dell’indici
internazionali di competitività tra Paesi comparabili. Esistono diversi
indicatori. Alcuni privilegiano gli aspetti di stabilità e ordine di una
nazione: la solidità della moneta, il tasso di criminalità, la credibilità e l’efficienza
del sistema legale, ecc. Altri enfatizzano i costi sistemici diretti ed
indiretti: fiscali, di trasporto, energetici, ecc. Altri ancora, poi, misurano
le dimensioni di concorrenzialità geoeconomica analizzando il vantaggio o
svantaggio di posizione spaziale di un territorio nel mercato: prossimità ad
aree destabilizzate da problemi bellici, distanza geografica dagli assi
principali dei flussi di mercato, prevalenza di pianura o montagna, ecc. Dove i
dati di tale terzo insieme di indicatori vengono riportati o ai costi sistemici
oppure alla valutazione di stabilità ed ordine, cioè di rischio, ad esempio
esempio, per un eventuale investitore. Il problema di fondo è che l’Italia ha
un punteggio basso su tutti i tre fattori di competitività citati. La stabilità
monetaria è ora pari a quella degli altri Paesi dell’area euro, ma l’efficienza
del sistema legale è bassissima, la complessità burocratica, pur migliorata di
recente, elevatissima, la sicurezza contro la criminalità buona al nord, ma
insoddisfacente al sud. I costi sistemici per le imprese sono tra i più alti
del pianeta. La posizione geografica è piuttosto sfortunata. Le Alpi e la natura
peninsulare del nostro territorio rendono, di fatto, l’Italia un’isola, cioè un’area
dove bisogna pagare un prezzo maggiore per collegarla al resto del sistema
europeo. Per i collegamenti via nave con i mercato globale tale svantaggio è
minore, ma la concorrenzialità dei nostri porti risente di infrastrutture non
ancora adeguate. L’analisi dovrebbe essere più lunga, ma, in sostanza, un
investitore non ha molti incentivi a portare capitale in Italia e chi opera dal
nostro territorio soffre di uno svantaggio sistemico evidente. Immagine che
corrisponde ai dati reali: quasi zero investimenti esteri, crisi competitiva
endemica dei produttori italiani in molti settori. Quali svantaggi competitivi è
prioritario cominciare a ridurre? Certamente quelli fiscali, e la riduzione
delle tasse è in corso. Ma, perfino più importante ed urgentissima, è la riduzione del costo dell’energia.
I dati lo stimano superiore di quasi il 30% a quelli di Paesi comparabili e
territori con cui siamo in competizione. In realtà è di quasi il 50%, un’enorme
tassa decompetitiva di fatto. Il governo sta riconsiderando la riapertura del
nucleare, nel lungo periodo. Ma nel breve, evidentemente, ci vorrà più
concorrenza ed un politica energetica che riduca della metà la tassa
energetica. In sintesi, tutto il sistema italiano dovrebbe essere analizzato e
modificato in relazione alle condizioni di competitività territoriale. Il fatto
che ciò non sia ancora chiaro a tutti e che le riforme in materia siano molto
contrastate è la vera crisi competitiva del Paese.