di Alessandro Bettero
      Emergenza occupazione. Crisi delle borse. Qualità della produzione. 
      Giustizia sociale. Nel libero mercato vince chi privilegia il "capitale 
      umano". Obiettivo: lo Stato della crescita.
      
        
        
          |  | "L’Europa non deve seguire 
            necessariamente un modello americano di sviluppo per avere il 
            liberismo e il capitalismo di massa. Nella tradizione europea c’è 
            sempre più Stato, e questo non è un male". Il professor Carlo 
            Pelanda – già consulente scientifico dell’ex segretario dell’Onu, 
            Perez De Cuellar, e tuttora docente di International Futures 
            (Economia e scenari internazionali) e Political Ecology 
            all’Università della Georgia di Athens (Usa) – ha un’idea precisa 
            dei parametri di cui Italia ed Europa devono tenere conto se non 
            vogliono perdere il treno della globalizzazione dell’economia 
            mondiale. Un fenomeno che chiama in causa la fragilità finanziaria 
            dei Paesi emergenti, ma anche le obsolete istituzioni politiche e 
            sociali del vecchio continente. | 
      "In Europa – osserva Pelanda – c’è l’idea che lo Stato debba proteggere 
      l’individuo invece che investirci sopra per renderlo più competitivo. E il 
      risultato è che la ricchezza dell’Europa emigra altrove mentre aumenta la 
      disoccupazione nel nostro continente; una disoccupazione che è prevista in 
      crescita nel 1999 e nel 2000. Oggi l’economia globale richiede che tutti i 
      Paesi siano competitivi, e la competizione avviene tra chi ha le tasse più 
      basse, la scuola migliore, ecc. In sostanza, laddove l’individuo è messo 
      nelle condizioni di avere un più alto valore di mercato. Purtroppo 
      l’Italia, così come l’Europa, è un po’ indietro. Questo lo si vede nella 
      quantità di disoccupati. In tutta Europa la media dei disoccupati è 
      superiore al 10 per cento. Negli Stati Uniti, invece, la disoccupazione è 
      scesa ultimamente ai minimi storici, cioè al 4,3 per cento!"
      Msa. Chi ci guadagna di più, e chi ci rimette, nel mercato 
      globale?
Pelanda. Negli ultimi 8-9 anni, circa 2 miliardi e mezzo 
      di persone sono passate da economie comuniste (e quindi isolate dal 
      mercato internazionale) oppure semplicemente sottosviluppate, all’economia 
      capitalistica globalizzata. E hanno sicuramente migliorato la loro 
      condizione economica. Poi, è un discorso più lungo vedere se hanno 
      migliorato la loro condizione umana. Secondo me, il mercato globale porta 
      ricchezza a tutti. Bisogna, ovviamente, correggere alcuni aspetti. I 
      maggiori problemi che abbiamo sia di ingiustizia sociale che di 
      instabilità finanziaria nel processo turbolento di formazione del mercato 
      globale, sono caratterizzati fondamentalmente dalla libertà del capitale 
      di andare dove fa più profitto. Molti problemi nascono perché istituzioni 
      e Paesi non sono in grado di ricevere questa economia più sofisticata. È 
      chiaro che per partecipare all’economia globale, un Paese deve avere 
      sistemi di trasparenza, di controllo di polizia, per evitare dei processi 
      economici occulti o illegali che creano dei disastri, i quali, a loro 
      volta, ricadono sulla gente, perché una crisi finanziaria genera una 
      recessione nell’economia reale. 
      E la giustizia sociale?
Questo è un tema più delicato. Perché 
      ogni processo di modernizzazione implica fatica, specialmente nei processi 
      iniziali di sviluppo capitalistico e di passaggio da una un’economia 
      rurale a una industriale; implica una fase di sfruttamento e di 
      ingiustizia. In questo momento non siamo ancora in grado di valutare, per 
      una questione di tempi, quale sia stata l’evoluzione della condizione 
      umana dopo i primi sette, otto anni di funzionamento dell’economia globale 
      in tutto il pianeta.
      La crisi delle borse brasiliane può ripetersi ancora, ed espandersi per 
      "effetto domino" anche ad altri Paesi del Sudamerica, replicando quanto è 
      già accaduto l’anno scorso sui mercati finanziari asiatici?
Il 
      pericolo c’è, nel senso che se una grande economia emergente comincia a 
      svalutare, quelle che sono toccate hanno anch’esse una pressione
      svalutativa; per due aspetti: uno pratico, cioè il problema della 
      competitività delle esportazioni; e uno più psicologico del mercato 
      finanziario globale: la crisi di un Paese tende a ridurre la fiducia del 
      mercato in generale sui Paesi emergenti; quindi il mercato tende a 
      ritirare i propri capitali d’investimento da questi Paesi emergenti. Nel 
      caso brasiliano la questione della fiducia c’è, ma non è così marcata 
      com’è stato per la crisi asiatica dell’anno scorso. Possiamo dire che il 
      mercato globale si è vaccinato contro le crisi di fiducia. Cioè il mercato 
      comincia a capire che è proprio la sua natura planetaria a creare una 
      maggiore instabilità. Per cui ci sono meno impatti quando avviene una 
      crisi di questo tipo. 
      Mentre Argentina e Brasile sono i Paesi più avanzati del Sudamerica, ce 
      ne sono altri maggiormente in difficoltà. Per esempio il Venezuela che, a 
      prescindere dal disordine interno, ha visto entrare in crisi i bilanci 
      statali, poiché dipende parecchio dalle risorse petrolifere (e il prezzo 
      del petrolio è molto calato). La stessa cosa succede in Messico dove per 
      mantenere il consenso, il governo non può comprimere oltre una certa 
      misura la spesa pubblica, e deve destinare parte di questa a risolvere 
      problemi di base della popolazione, cioè addirittura programmi di 
      alfabetizzazione. Per cui questi Paesi, peraltro anche molto indebitati, 
      sono a rischio continuo di una crisi di sfiducia che porta via loro il 
      capitale e li manda in tilt. Così sono molto esposti e molto vulnerabili 
      alle variazioni che avvengono nella loro area geo-economica.
      Da tutto questo si evince un dato negativo: i fatti mostrano come 
      passeranno ancora parecchi anni prima di arrivare a capire come si può 
      dare un minimo di stabilità a questo sistema globale.
      L’Italia, così com’è organizzata, riuscirà a sostenere, sul piano 
      politico, economico e produttivo, le sfide imposte dalla globalizzazione?
Mercato globale significa più concorrenza, 
      soprattutto sul piano della qualità dell’istruzione, delle merci, dei 
      processi industriali, della cultura. Per questo ci vorrebbe una politica 
      che aiutasse di più il mercato nazionale a svilupparsi. L’Italia non ha 
      modernizzato gli aspetti tecnici delle istituzioni, cioè è ancora uno 
      stato abbastanza ottocentesco. E, poi, c’è alla guida del Paese una 
      sinistra che non è "amichevole" nei confronti dei requisiti richiesti 
      dalla competizione del mercato globale. Questo suo "non essere amichevole" 
      si vede nei fatti: tiene le tasse molto alte, il che riduce gli 
      investimenti di capitale; tiene molto rigido il mercato del lavoro: se io 
      assumo e non posso licenziare, è ovvio che non assumerò nessuno e lo andrò 
      a fare in altri Paesi che me lo lasciano fare, e questo crea 
      disoccupazione. Oggi non è più possibile tutelare in forme antiquate la 
      ricchezza della popolazione.
      Per l’Italia, ma anche per altri Paesi europei esistono due fenomeni 
      correlati da affrontare: quello dell’occupazione e quello del cosiddetto 
      welfare state. Tra le due alternative: uno stato sociale e un 
      regime di libero mercato, e quindi di alta mobilità della forza lavoro, 
      come avviene per esempio negli Usa, quale opzione dovrebbero scegliere 
      Italia ed Europa per assicurare sviluppo e benessere ai propri 
      cittadini?
Fondamentalmente occorrerebbe non perdere la natura 
      sociale dello Stato, perché questo è un bene, ma bisogna trasformare il 
      concetto di socialità. Al momento lo Stato è sociale perché incentiva il 
      finanziamento passivo degli individui: cioè sono un cittadino, non ho 
      voglia di fare cinquanta chilometri per andare a trovare un altro lavoro, 
      mi dichiaro disoccupato e lo Stato mi dà molti soldi, e questo mi 
      incentiva ad essere un po’ pigro, oltre a sprecare denaro, il che comporta 
      l’aumento delle tasse e quindi un danno al mercato privato e alla sua 
      dinamicità. 
      Senza perdere il concetto che una comunità deve assicurarsi che un 
      individuo viva il meglio possibile, bisogna però, d’altro canto, 
      costringere gli individui ad essere un po’ più attivi. Per cui la 
      comunità, cioè lo Stato, dice al cittadino: "io ti finanzio, ti aiuto, non 
      ti lascio solo, ti pago un corso di ri-formazione se le tue competenze non 
      sono sufficienti, ti do le risorse affinché tu sia in grado di lavorare 
      meglio, di essere più mobile sia intellettualmente che fisicamente per 
      cercarti un lavoro, per fare la tua vita dignitosa, ecc..., ma tu in 
      cambio mi devi dimostrare che sei più attivo sul piano economico". Si 
      tratta di trasformare il contratto sociale di tipo europeo-continentale, 
      cancellando le garanzie passive, cioè l’assistenzialismo, e trasformarle 
      in garanzie attive. Insomma, i soldi pubblici devono essere finalizzati 
      alla crescita continua del "valore di mercato" dell’individuo. 
      Sull’argomento sto scrivendo un libro: Dallo Stato sociale allo Stato 
      della crescita.