02/05/2006

Addio a Galbraith liberal di un'America che non c'è più

 

 Era inevitabile che la morte di John Kenneth Galbraith, sabato scorso a Boston, offrisse lo spunto per qualche riflessione sul significato, ieri e oggi, di essere liberal. Cioè di professare e seguire le idee dell'impegno sociale, dei limiti del mercato e del ruolo di una "mano visibile" della politica che corregga alcuni difetti di quella invisibile dell'economia.

 L'essenza del liberalism americano, ispirato in alcuni concetti-base da quello britannico inizio '900 di Lloyd George, è quella del ruolo correttivo, e se necessario propulsivo, dello Stato. Galbraith è stato un osservatore troppo noto dei difetti del mercato e un protagonista troppo importante della lunga stagione progressista del partito democratico americano, da Roosevelt a Kennedy a Johnson, per non far coincidere un esame su quanto sopravvive del liberalism con il mesto saluto alla sua dipartita, dopo una lunga vita pienamente vissuta.

 Il giudizio più diffuso sulla stampa americana, europea e anche italiana, si tratti di un rammarico o di una constatazione più o meno compiaciuta, è che le idee di John Kenneth Galbraith e di altri a lui congeniali non hanno oggi lo spazio di una volta. Per J. Bradford DeLong, economista a Berkeley e già con Robert Rubin al Tesoro negli anni di Clinton, sono i settantenni ad avere letto Galbraith e a pensare che è molto importante; i cinquantenni sanno che i settantenni lo hanno letto e ritengono che sia importante ma non sanno bene perché; e i trentenni non lo hanno letto.

 Ma a parte i giudizi più o meno affrettati imposti dalla cronaca, la figura dell'economista americano, troppo frettolosamente dismesso dai suoi critici come un buon scrittore che non aveva molto da dire in fatto di economia, ha già avuto una consacrazione meno sommaria. Una biografia pubblicata un anno fa, scritta da un amico, Richad Parker, (John Kenneth Galbraith: His Life, His Politics, His Economics, Farrar, Strauss Giroux, 2005) e alla quale Galbraith stesso ha consegnato il proprio testamento ideale, ben conscio di non essere più da anni al centro delle cose.

 Al centro del lavoro di Galbraith come economista, ricorda Parker, c'è il tentativo di spiegare che cosa ha voluto dire per gli Stati Uniti passare da Paese di piccole fattorie, piccoli commerci piccole industrie a un Paese di grosse corporation e di superstores. Da questo i suoi libri più noti di interpretazione della società e dell'economia contemporanee, americane, The Affluent Society (1958) e The New Industrial State (1967).

 Per Milton Friedman, padre del neoliberalismo e quindi al polo opposto, Galbraith era un aristocratico che, non fidandosi del mercato, preferiva affidare scelte cruciali a uomini saggi capaci di evitare le scelte sbagliate che l'uomo comune avrebbe invece commesso, seguendo il mercato.

 Gli economisti sono oggi tutti figli di Paul Samuelson e dei suoi Fondamenti di analisi economica e, persi dietro qualche modello matematico, ignorano - sostiene Parker - quanto Galbraith sostiene, e cioè che ci sono problemi e nodi molto più legati alla struttura profonda di una società, ai concetti morali ed economici di giusto e ingiusto, di duraturo e fallace.

 I modelli matematici degli economisti contemporanei, continua Parker, servono a dimostrare due cose: o che il mercato funziona, o che c'è una "market failure" da correggere. I neo classici sanno che tutto più o meno funziona, se non disturba troppo il mercato; i monetaristi sono convinti che il cuore è il controllo della massa monetaria; i neo keynesiani che il motore sta nelle corrette decisioni del mercato del lavoro, e delle imprese.

 Galbraith non ha lasciato idee semplici e chiare, tipo il keynesiano "la domanda aggregata crea l'offerta" o il friedmaniano "l'inflazione è sempre e dovunque un fenomeno monetario". Preferiva dichiarazioni più mirate. "Il mondo è complicato, e sia l'ideologia di destra che il pensiero dominante che è l'autoritratto della nostra epoca - affermava - sono terribilmente sbagliati".

 Figlio della Grande Depressione, Galbraith aveva una sensibilità redistributiva che molti americani sembrano oggi condividere meno. L'America è diventata di nuovo, negli ultimi 25 anni, la terra dell'individualismo e delle opportunità. E rilanciarvi l'etica socialdemocratica che Galbraith aveva ereditato dal padre, scozzese, sembra ancora oggi difficile. Ma il viatico lasciato da Galbraith agli ideali allievi può, una volta che il pendolo delle idee avrà ripreso a spostarsi, tornare utile. E' molto semplice: siate brillanri, scrivete bene, e leggete molto.

 
 
 
 
 
 
 
 
Disponibile ad ogni eventuale tipo di chiarimento
Porgo cordiali saluti
 
 
 
Dott. Lorenzo Polojac

 

13/05/2006

Ecco come il cervello reagisce alla pubblicità

In California il primo test al mondo su un gruppo di  telespettatori

L'ha diretto uno scienziato italiano:" Ho visto i flash dei neuroni"

Rivelati i meccanismi dei processi di empatia e di identificazione

 

 Tempi duri per i maghi della pubblicità. Non soltanto le persone mentono quando rispondono ai sondaggi elettorali, ma non sanno neppure che cosa piace sul serio al loro cervello. La scoperta soprendente l'ha fatta il neurologo italiano Marco Iacoboni, membro della Facoltà di Medicina alla UCLA, University of California at Los Angeles, e direttore del Transcranial Magnetic Stimulation Laboratory presso l'Ahmanson-Lovelace Brain Mapping Center della California.

 

L'esperimento

 Negli Stati Uniti il Super Bowl, cioè la finale del campionato di football, è anche la sfida annuale più importante per i pubblicitari. Decine di spot costosissimi vengono prodotti apposta per questa partita e mandati in onda per la prima volta durante la diretta televisiva. Poi si fanno sondaggi e classifiche per vedere chi ha vinto la gara della pubblicità, creando il video più interessante. L'equipe della UCLA University ha deciso di stilare una graduatoria, andando a verificare quale spot aveva stimolato di più il cervello. E' stata utilizzata la risonanza magnetica funzionale, che consente di riprendere non solo le immagini anatomiche dell'organo, ma anche di raccogliere dati fisiologici. In sostanza hanno visto quali erano le regioni del cervello che si attivavano di più oppure di meno, in base agli stimoli ricevuti. L'elemento più singolare scoperto è la divergenza fra ciò che dicono le persone e ciò che dicono i loro cervelli. I partecipanti al test in pratica sostenevano di aver apprezzato un certo spot, ma, in realtà, il pensiero era stato eccitato da un altro. Questo fenomeno avviene in parte per la pressione sociale: le persone rispondono quello che pensano di dover rispondere. Le donne, ad esempio, bocciano gli spot con attrici attraenti, perché credono di doversi opporre allo sfruttamento della figura femminile. In realtà l'esperimento dimostra che questi filmati provocano in loro risposte cerebrali nelle aree dedicate all'empatia e all'identificazione. La divergenza, poi, è provocata anche da questioni di gusto. Forse è vero che un certo spot ci è piaciuto più di altri, ma questo non significa che sia efficace sul piano commerciale. Possiamo gradirlo come fonte di intrattenimento, ma, se non attiva le parti giuste del cervello, non ci spinge a comprare un certo prodotto. Le parti giuste da attivare paiono siano quelle del “reward”, del premio, ossia la corteccia orbitofrontale e il corpo striato. Quando facciamo sentire a una scimmia un suono, e poi le diamo del cibo, l’animale collega i due fattori. La volta successiva, appena sentirà il suono, le zone del “reward” nel suo cervello si attiveranno. Uno spot, per essere efficace, deve svolgere la stessa funzione nell’uomo. Se le zone del “reward” non vengono stimolate, il soggetto non è spinto a cercare quel determinato prodotto che è stato pubblicizzato. Non si è ancora in grado di suggerire a chi fa pubblicità quali siano gli spot migliori per generare l'effetto giusto sul cervello, perchè i dati non sono sufficienti. Continuando questo genere di studi, però, si potrebbe aiutare molto il neuromarketing, prevedendo quali sono gli elementi più attraenti di uno spot in relazione ai vari prodotti proposti.

 Una specie di pubblicità subliminale? Ormai non si fa più. Era una tecnica che funzionava, interponendo nel filmato immagini apparentemente invisibili, ma la reazione negativa dei consumatori ha determinato il suo abbandono . Al momento nessuno sa se gli spot funzionino davvero. E' incredibile, ma non ci sono studi definitivi. Bisogna fare nuovi esperimenti, proponendo, per esempio, lo stesso prodotto in aree simili ma con spot diversi. Se in una delle due aree ci fosse un incremento delle vendite, allora avremmo una prima prova empirica.

 Per quanto riguarda il funzionamento degli spot elettorali, in America servono soprattutto a mettere il candidato in una luce che lo renda eleggibile. Durante le ultime presidenziali fu fatto un test: si mostrò le foto di Bush e Kerry ai partecipanti, registrando le reazioni. Poi si fece vedere loro degli spot. Quindi si mostrò ancora le foto per vedere se c'era stata una variazione nelle reazioni. La differenza era minima, lo spot non aveva cambiato più di tanto la percezione. Per ora i pubblicitari sottopongono le loro idee all'equipe della Ucla University per verificare la reazione dei soggetti prima delle campagne. Forse in futuro, proseguendo su questa strada, si potrà spiegare ai pubblicitari come realizzare spot efficaci.

 

 

Riassuntino schematico come pro memoria:

 

LE REAZIONI DEL CERVELLO:

1) Stimolazione della corteccia orbitofrontale e del corpo striato: sono legate al concetto di premio ("reward"). Se questa zona non viene stimolata, il soggetto non è spinto a cercare il prodotto che è stato pubblicizzato in TV.

2) Stimolazione dei "neuroni specchio": sono legati ai concetti di empatia ed identificazione. Si attivano quando lo spot si rivela efficace.

3) Stimolazione della corteccia cingolata e della corteccia dorsolaterale prefrontale: sono legate al controllo cognitivo.

 

LE REAZIONI PSICOLOGICHE:

1) MENZOGNA: di fronte ad uno spot "forte" si tende sempre a fare un commento politicamente corretto, anche quando le reazioni cerebrali rivelano una reazione opposta.

2) ABITUDINE: quando si vede lo stesso spot per la seconda volta la reazione cala bruscamente rispetto a quella iniziale.

3) AUTOMATISMI: l'attenzione scatta costantemente solo dal punto di vista audiovisivo, anche se non con i livelli di intensità molto variabili.

 

IL TEST:

1) LA TECNICA UTILIZZATA. Risonanza magnetica funzionale (Rmf).

2) CHE COSA RIVELA: differenti livelli di ossigenazione del sangue nel cervello: si correlano con i cambiamenti nell'attività neuronale. La risonanza magnetica permette di riprendere non soltanto le immagini anatomiche del cervello, ma anche di raccogliere una lunga serie di dati fisiologici.

 

 

 

 

Disponibile ad ogni eventuale tipo di chiarimento
Porgo cordiali saluti
 
 
 
Dott. Lorenzo Polojac