20/12/2006

Caro Prof. Pelanda,

 

A scuola, quando prendevo un brutto vuoto, e capitava spesso, cercavo di giustificarmi dicendo: “Il tale (compagno di classe) ha preso ancora meno”. Al che mia madre replicava: “Non devi guardare in basso ma in alto, verso quelli che fanno meglio di te, non peggio”. Indirettamente mi faceva la morale e faceva bene, poiché contemporaneamente m’indicava la via da seguire. 

Questo ricordo mi è tornato in mente leggendo, su Il Giornale di Milano del 3 dicembre, il titolo: “Ai moralisti consiglio la Corea del Nord”, seguito da un’intervista di Eleonora Barbieri a Vittorio Messori, “scrittore cattolico”. Il quale, con una battuta, invita i moralisti guastafeste, che stigmatizzano il consumismo del Natale occidentale, ad andare a festeggiarlo in Corea del Nord. Certo che, come già rilevato a proposito dei voti a scuola, per ogni situazione brutta ce n’è sempre una peggiore. Ma sicuramente anche una migliore, basta cercarla. Cosa che il Messori non fa; anzi si accontenta del “meno peggio”, cioè del consumismo nel quale vede “una tendenza con cui bisogna fare i conti: la nostra società è basata anche su ciò che un moralista considera sprechi “. Poi aggiunge: “Dire che il Natale sia ridotto a una festa di consumi è ormai una banalità. Tali invettive non fanno i conti con la realtà mondiale che è basata sul consumo”.

Ragionamento nel contempo subdolo e riduttivo. Subdolo perché nega ai moralisti il diritto di esprimersi, ridicolizzandoli. Cos’è? la voce della morale deve essere zittita? Come si può pensare di correggere un difetto, qualunque esso sia, se non in base a consigli di tipo (me lo auguro) morale?

Riduttivo perché, se prendere atto di una situazione significa accettarla così com’è, anche se non soddisfa, senza nemmeno sognarsi di poterla correggere (con l’alibi del falso realismo), allora la via del meglio sarà sempre e comunque preclusa; il che, con tutti gli scompensi e le storture che esistono al giorno di oggi, sarebbe da rinunciatario oltre che da cinico irresponsabile. In pieno contrasto con il messaggio del cristianesimo che ogni scrittore cattolico ben conosce.

Per cominciare a valutare gli effetti del consumismo, basta rifarsi alla definizione che ne dà una qualsiasi enciclopedia dell’economia; ad esempio quella della De Agostini del 1998:

«Consumismo, orientamento, diffuso in vasti settori delle società moderne e incoraggiato dalle tecniche pubblicitarie, verso il consumo di quantità sempre maggiori di beni e servizi, indipendentemente dai veri bisogni.»

I danni del consumismo si desumono direttamente dalla definizione. Se io consumo più di quanto ho bisogno reco danno: 1°) a me stesso (mentre consumo, esageratamente, non faccio altro, come leggere piuttosto che passeggiare o ascoltare musica, perciò mi auto-limito, spesso non comunico, mi chiudo nella mono-dimensione del puro materialismo); 2°) agli altri, accaparrando per me, che sono già sazio o provvisto di quanto serve, risorse che potrebbero servire per fini utili.

L’insofferenza che si nota fra i benpensanti contro le critiche al consumismo è legata a molti fattori. La popolarità dell’equazione (errata) consumi = crescita o, ancora più sbagliata, consumi = progresso. Forse un vago senso di colpa nei ceti (sempre meno numerosi?) educati a pensare che il materialismo, da cui discende il consumismo, sia in contrasto con l’ideale cristiano. Soprattutto la difficoltà estrema di trovare una via percorribile verso il meglio, un’alternativa valida al consumismo come strumento di sviluppo. Un po’ la quadratura del cerchio.

Probabilmente si riuscirebbe a venirne fuori, domandandosi qual è il contrario del consumismo. Premesso che consumismo significa “consumare troppo”, quindi ha una sua valenza numerica/ quantitativa, il primo contrario/ correttivo che viene logicamente in mente potrebbe essere “generare risorse”.

Esempio (mondo occidentale): fra gli articoli di consumo più diffusi, molti sono fatti di plastica che è un derivato dai sottoprodotti del petrolio, quindi da una risorsa non rinnovabile anche se si esaurisce lentamente. Esistono tecniche, ormai assodate, per il recupero e il riciclaggio dei materiali plastici. Pertanto se in un determinato arco di tempo, in una determinata area geografica, la quantità di plastica utilizzata per la produzione di articoli destinati al consumo è uguale alla quantità di plastica riciclata (previa raccolta differenziata presso le imprese e la popolazione, ecc.), il “bilancio consumistico” di questo materiale sarebbe in pareggio, quindi situazione ideale o perlomeno accettabile.

Altro esempio (zona sub-sahariana): le popolazioni locali fanno anche chilometri per andare a tagliare le piante delle quali si servono come combustibile per cucinare o altro scopo. Il relativo “bilancio consumistico” sarebbe in pareggio (per modo di dire) se, in un determinato arco di tempo, i quantitativi prelevati fossero, in qualche maniera, contro-bilanciati dal numero di arbusti ripiantati sul territorio.

Salta agli occhi le difficoltà non tanto concettuali per l’elaborazione d’ipotetici bilanci consumistici (chi se ne frega delle statistiche!), quanto di ordine logistico per una migliore distribuzione delle risorse.

Comunque la via per un futuro migliore, che c’è da augurarsi non sia troppo remoto, è una sola: attraverso migliaia e migliaia di realizzazioni concrete, controbilanciare gli sprechi del consumismo con la creazione di risorse, dando naturalmente per scontato che il minor consumo di per sé è una risorsa. Ecco perché contestare per principio chi critica il consumismo è un controsenso economico, un gigantesco assurdo.

Cordialmente

Max Ramstein