Caro Prof. Pelanda, A
scuola, quando prendevo un brutto vuoto, e capitava spesso, cercavo di
giustificarmi dicendo: “Il tale
(compagno di classe) ha preso ancora meno”. Al che mia madre
replicava: “Non devi guardare
in basso ma in alto, verso quelli che fanno meglio di te, non peggio”.
Indirettamente mi faceva la morale e faceva bene, poiché
contemporaneamente m’indicava la via da seguire.
Questo
ricordo mi è tornato in mente leggendo, su Il Giornale di Milano del 3
dicembre, il titolo: “Ai moralisti consiglio la Corea del Nord”,
seguito da un’intervista di Eleonora Barbieri a Vittorio Messori,
“scrittore cattolico”. Il quale, con una battuta, invita i moralisti
guastafeste, che stigmatizzano il consumismo del Natale occidentale, ad
andare a festeggiarlo in Corea del Nord. Certo che, come già rilevato a
proposito dei voti a scuola, per ogni situazione brutta ce n’è sempre
una peggiore. Ma sicuramente anche una migliore, basta cercarla. Cosa
che il Messori non fa; anzi si accontenta del “meno peggio”,
cioè del consumismo nel
quale vede “una tendenza con
cui bisogna fare i conti: la nostra società è basata anche su ciò che
un moralista considera sprechi “. Poi aggiunge: “Dire
che il Natale sia ridotto a una festa di consumi è ormai una banalità.
Tali invettive non fanno i conti con la realtà mondiale che è basata
sul consumo”. Ragionamento
nel contempo subdolo e riduttivo. Subdolo perché nega ai moralisti il
diritto di esprimersi, ridicolizzandoli. Cos’è? la voce della morale
deve essere zittita? Come si può pensare di correggere un difetto,
qualunque esso sia, se non in base a consigli di tipo (me lo auguro)
morale? Riduttivo
perché, se prendere atto di una situazione significa accettarla così
com’è, anche se non soddisfa, senza nemmeno sognarsi di poterla
correggere (con l’alibi del falso realismo), allora la via del meglio
sarà sempre e comunque preclusa; il che, con tutti gli scompensi e le
storture che esistono al giorno di oggi, sarebbe da rinunciatario oltre
che da cinico irresponsabile. In pieno contrasto con il messaggio del
cristianesimo che ogni scrittore cattolico ben conosce. Per
cominciare a valutare gli effetti del consumismo, basta rifarsi alla
definizione che ne dà una qualsiasi enciclopedia dell’economia; ad
esempio quella della De Agostini del 1998: «Consumismo,
orientamento, diffuso in vasti settori delle società moderne e
incoraggiato dalle tecniche pubblicitarie, verso il consumo di quantità
sempre maggiori di beni e servizi, indipendentemente dai veri bisogni.» I
danni del consumismo si desumono direttamente dalla definizione. Se io
consumo più di quanto ho bisogno reco danno: 1°) a me stesso (mentre
consumo, esageratamente, non faccio altro, come leggere piuttosto che
passeggiare o ascoltare musica, perciò mi auto-limito, spesso non
comunico, mi chiudo nella mono-dimensione del puro materialismo); 2°)
agli altri, accaparrando per me, che sono già sazio o provvisto di
quanto serve, risorse che potrebbero servire per fini utili. L’insofferenza
che si nota fra i benpensanti contro le critiche al consumismo è legata
a molti fattori. La popolarità dell’equazione (errata) consumi
= crescita o, ancora più sbagliata, consumi
= progresso. Forse un vago senso di colpa nei ceti (sempre meno
numerosi?) educati a pensare che il materialismo, da cui discende il
consumismo, sia in contrasto con l’ideale cristiano. Soprattutto la
difficoltà estrema di trovare una via percorribile verso il meglio,
un’alternativa valida al consumismo come strumento di sviluppo. Un
po’ la quadratura del cerchio. Probabilmente
si riuscirebbe a venirne fuori, domandandosi qual è il contrario del
consumismo. Premesso che consumismo significa “consumare
troppo”, quindi ha una sua valenza numerica/ quantitativa, il
primo contrario/ correttivo che viene logicamente in mente potrebbe
essere “generare risorse”.
Esempio
(mondo occidentale): fra gli articoli di consumo più diffusi, molti
sono fatti di plastica che è un derivato dai sottoprodotti del
petrolio, quindi da una risorsa non rinnovabile anche se si esaurisce
lentamente. Esistono tecniche, ormai assodate, per il recupero
e il riciclaggio dei materiali plastici.
Pertanto se in un determinato arco di tempo, in una determinata area
geografica, la quantità di plastica utilizzata per la produzione di
articoli destinati al consumo è uguale alla quantità di plastica
riciclata (previa raccolta differenziata presso le imprese e la
popolazione, ecc.), il “bilancio consumistico” di questo materiale
sarebbe in pareggio, quindi situazione ideale o perlomeno accettabile. Altro
esempio (zona sub-sahariana): le popolazioni locali fanno anche
chilometri per andare a tagliare le piante delle quali si servono come
combustibile per cucinare o altro scopo. Il relativo “bilancio
consumistico” sarebbe in pareggio (per modo di dire) se, in un
determinato arco di tempo, i quantitativi prelevati fossero, in qualche
maniera, contro-bilanciati dal numero di arbusti ripiantati sul
territorio. Salta
agli occhi le difficoltà non tanto concettuali per l’elaborazione
d’ipotetici bilanci consumistici (chi se ne frega delle statistiche!),
quanto di ordine logistico per una migliore distribuzione delle risorse. Comunque
la via per un futuro migliore, che c’è da augurarsi non sia troppo
remoto, è una sola: attraverso migliaia e migliaia di realizzazioni
concrete, controbilanciare gli sprechi del consumismo con la creazione
di risorse, dando naturalmente per scontato che il minor consumo di per
sé è una risorsa. Ecco perché contestare per principio chi critica il
consumismo è un controsenso economico, un gigantesco assurdo. Cordialmente Max
Ramstein
|