Il nuovo cibo tecnologico
non piace alla maggioranza, ma la minoranza che lo vuole è sufficiente per
svilupparlo
Di Carlo Pelanda (21-8-2004)
Artificializzazione del
cibo. E’ cominciata con il primo pezzo di carne messo sulle braci o il primo
impasto di acqua e frumento macinato e continua come crescente
industrializzazione del ciclo alimentare. Ma nonostante l’enorme progresso
tecnologico degli ultimi decenni – liofilizzati, pappette per neonati,
surgelati - resta ancorata ad un processo di trasformazione di tipo primitivo:
per esempio, allevamento dell’animale, macellazione, lavorazione e consumo. In
un recente scambio di idee tra capitalisti di ventura, specialisti del settore
alimentare e scenaristi – tra cui
questa rubrica - ci si è chiesti cosa
stava bloccando ulteriori passi di artificializzazione. Per esempio, che senso
ha ricavare proteine da un manzo intero? Nessuno, se posso far crescere la
bistecca già in scatola via ingegneria genetica saltando i costi di allevamento
dell’animale completo. Infatti, si è stimato, un chilo di “carne” costerebbe al
consumo meno di un euro contro i più di dieci correnti ed il profitto del
produttore aumenterebbe di sette volte. Il prodotto sarebbe sanissimo, ben
trasportabile e conservabile, modificabile in relazione a diete particolari.
Sfamerebbe i poveri e darebbe meno calorie agli obesi. Inoltre, eviterebbe il
barbaro stermino di esseri viventi quali pesci e, con in più l’imprigionamento
in lager, animali da alimentazione. Perché non si sta saltando la mediazione
zootecnica ed agricola per trasformare proteine e carboidrati in aggregati
gustabili nel momento in cui si è scoperto che potranno essere creati
direttamente in laboratorio? L’analisi ha dato tre risposte: (a) l’oscurantismo
diffuso, combinato con il conservatorismo alimentare, rende negativo il marchio
“artificiale”; (b) la nuova tecnologia toglierebbe lavoro ad allevatori ed
agricoltori e ciò creerebbe enormi problemi economici e di consenso; (c) i
brevetti del cibo tecnologico, se questo diventasse la fonte alimentare
prevalente, dovrebbero per forza essere resi pubblici, per evitare monopoli
delicatissimi, e ciò disincentiva l’investitore. Ma entro questi vincoli si è
individuata una porticina da dove iniziare gli investimenti futurizzanti “next food”.
Negli alimenti dietetici “artificiale” è un marchio positivo perché garantisce
quantità e ottimo gusto a fronte di minime calorie. Dalle stesse tecnologie,
poi, possono essere derivati alimenti a minimo costo ed alto nutrimento per i
poveri del pianeta a cui nessuno può opporsi pena l’accusa di immoralità.
Quindi è probabile saranno obesi, diabetici, affamati – loro tutori - ed
animalisti il primo traino di domanda
per la rivoluzione del cibo.
Carlo Pelanda