Più che il dollaro forte poté l’euro debole
Di Carlo Pelanda (27-4-2000)
Se i governi dell’eurozona e la Banca centrale europea (Bce) cominciassero a dire la verità sulla crisi dell’euro, e a tenerne conto, forse la si potrebbe contenere meglio e, più avanti, invertire. Non è credibile, infatti, che l’euro abbia perso in poco più di un anno ben il 20% sul dollaro (ed il 25% sullo yen) solo perché il secondo è momentaneamente fortissimo a seguito della formidabile crescita dell’economia reale statunitense e della bolla borsistica americana. In realtà è l’euro che è debolissimo: si tratta di crisi strutturale. Ed il rimedio dovrà essere altrettanto strutturale e non basarsi sulla semplice attesa fatalistica – come accade ora - che il dollaro prima o poi crolli, riportando quasi automaticamente i capitali nell’eurozona.
Prove. La “teoria bonaria”
comunicata al grande pubblico da parte dei governi europei e della Bce – ancora
ieri ripetuta dal ministro delle finanze tedesco - era che il dollaro sarebbe
sceso, e che l’euro avrebbe recuperato tutto il valore di cambio perduto, ai
primi segnali di sgonfiamento della bolla borsistica americana e di avvio della
ripresa economica nell’eurozona. Invece questo non è successo quando tali
eventi si sono verificati. La Borsa americana è in preda a gravi incertezze.
L’autorità monetaria statunitense, presieduta da Alan Greenspan, vuole
incanalare la crescita reale statunitense attorno al 3,75% di incremento del
Pil per il 2000 forzandola a rallentare, attraverso manovre restrittive (rialzo
dei tassi), dall’insostenibile ritmo attuale di quasi il 6% annualizzato. La
previsione di crescita dell’eurozona è sul 3%. Quindi le due aree economiche
dovrebbero, in teoria, convergere. Se il mercato avesse un po’ di fiducia
nell’economia europea, avrebbe già da ora cominciato ad abbandonare il dollaro
sopravvalutato (in base alla tendenza futura) facendo rifluire i capitali verso
l’euro. Ma, appunto, è successo il contrario.
La Bce ha commentato come “puzzling” (inspiegabile) tale fenomeno.
In realtà è spiegabilissimo. I dati mostrano che la fuga dall’euro a favore del dollaro non è stata
solo favorita, nel recente passato, dalla crescita delle Borse americane e dal
differenziale dei tassi monetari (cioè del maggiore rendimento dei titoli in
dollari), ma, soprattutto, da un enorme flusso di investimenti diretti
dall’area europea verso quella statunitense. Significa, in soldoni, che gli
imprenditori europei comprano aziende e impiantano attività in America e non
investono nulla nell’eurozona. Tale flusso è relativamente indipendente dagli
andamenti borsistici. E ciò spiega come
mai in una situazione di incertezza della Borsa americana il dollaro sale
invece che scendere. Il punto principale è che il mercato non crede che
l’economia reale europea possa dare nel
futuro gli stessi risultati di crescita e profitto prevedibili in quella
americana nonostante la contrazione e le incertezze crescenti della seconda. Il
bubbone dell’euro è sottopelle, non un semplice brufolo passeggero. Tasse elevate,
mercato del lavoro rigido, bilanci statali a rischio per la mancata riforma dei
sistemi pensionistici, in generale l’ostilità dei governi di sinistra nei
confronti del mercato, non rendono credibile una crescita duratura europea, con
aumento dell’occupazione, dell’efficienza tecnologica delle imprese e dei loro
valori azionari.
Come la sfiducia a tale livello riverbera su quello monetario? Il
mercato percepisce che fino a che l’Europa non sarà liberalizzata la Bce dovrà
per forza attuare una politica di “euro debole”. Se il sistema non riesce a crescere sul piano interno a causa
della poca efficienza, e non c’è la possibilità politica di riformarlo a breve,
allora la sola alternativa praticabile è quella di svalutare la moneta per
pompare le esportazioni. Ed è esattamente quello che la Bce ha fatto fin dalla
nascita della moneta unica. Ha semplicemente svalutato. Con un particolare
buffo. La Bce continuava (e continua) a dire che avrebbe perseguito una
politica di “euro forte”, ma avvertendo che con tale definizione si intendeva
la sola difesa contro l’inflazione. Mentre “dollaro forte” vuol dire moneta
alta ed economia reale sostenuta. Il mercato ne ha preso atto. Questa appare essere la vera storia e il
motivo principale di fondo del perché l’euro sia in caduta continua. Non è solo
questione di dollaro forte, ma soprattutto di euro debolissimo (anche se il
recente picco di ribasso dipende, in parte,
dall’esigenza degli Stati Uniti di tenere il dollaro sopravvalutato per
compensare finanziariamente l’eccesso di importazioni). E tale situazione
proietta un’ombra non ottimistica sul futuro. La Bce può anche alzare i tassi
(il mercato ha già scontato uno 0,50%) per ridurre un po’ le speculazioni a
breve contro l’euro, ma non ha alcun strumento per riformare l’economia reale
ingessata. In sintesi, la Bce è condannata a tenere l’euro basso. Questo potrà
anche recuperare una qualche percentuale del valore perduto in relazione al
rallentamento americano, ma resterà moneta debole fino a che gli eurogoverni non
daranno segnali concreti di vera riforma. Almeno si dica questa verità che
indica con precisione chi è veramente il responsabile della fuga dei capitali
di investimento che sta impoverendo gli europei. E che cosa bisogna fare per
farli tornare, stabilmente, a casa.