Una stretta per calmare gli eccessi della
Borsa
Di Carlo Pelanda (22-3-2000)
L’autorità monetaria statunitense (Fed) ha alzato per la quinta volta in otto mesi il tasso principale di riferimento, portandolo dal 5,75% - fissato il mese scorso - al 6%. Fino a qui la serie di rialzi non ha sorpreso il mercato finanziario. L’economia americana, infatti, è cresciuta del 5,7% nel terzo trimestre del 1999 e di ben il 6,9% nel quarto, arrivando per il quinto anno consecutivo ad un incremento del Pil superiore al 4%. E’ entrata nel 2000 in piena accelerazione senza segnali sostanziali di rallentamento. Questi dati indicano un alto potenziale di tensioni inflazionistiche. Che, appunto, la Fed cerca di contenere preventivamente gettando acqua – cioè il progressivo aumento del costo del denaro - sul fuoco della crescita. Ma, in realtà, il pur robusto rialzo ha moderato ben poco, finora, l’incendio. E ora comincia a serpeggiare nel mercato il timore che la Fed, nelle prossime riunioni del comitato monetario di maggio e giugno, continuerà ad alzare il tasso di riferimento (quello dei “Fed Funds”) portandolo al 6,50%. Che diventerebbe una stretta monetaria pericolosa perché più vicina al limite oltre il quale un ulteriore piccolo rialzo può scatenare una brutta crisi borsistica e recessiva. Tutti gli occhi del mercato globale sono puntati su questo scenario in quanto le prospettive di crescita sia dell’economia reale che delle Borse in America condizionano, di conserva, gli andamenti in tutto il pianeta. Quindi interessa anche a noi cercare di capire meglio la questione, approfondendo, tra i tanti rilevanti, tre punti che appaiono critici.
A) Finora l’inflazione,
nonostante l’enorme crescita, è stata contenuta attorno al 2% annuo (esclusa la
componente volatile del prezzo del petrolio) grazie a due fattori combinati: il
basso costo delle merci importate in
seguito all'alto valore di cambio del dollaro e l’aumento della produttività –
definita come valore di un’ora di lavoro – dovuto all’applicazione delle nuove
tecnologie informative ai processi industriali ed al settore dei servizi. Il
secondo fattore, in particolare, evita provvisoriamente che la piena
occupazione comporti aumenti salariali da scaricare sul prezzo del prodotto
finito. Infatti l’incremento dei prezzi alla produzione – anche per l’effetto
della concorrenza – è minimo. Ma allora la Fed
è paranoica, durando questa situazione, a temere tanto impennate
inflazionistiche? No, il problema – ha dichiarato Greenspan di fronte al
Congresso il mese scorso - è che la
crescita della produttività tende a creare incrementi della domanda aggregata
più grandi dell’offerta aggregata potenziale. Suscita, cioè, delle attese
future di più elevati profitti aziendali e di rialzo borsistico che a loro
volta aumentano il potere e la voglia di acquisto delle famiglie per beni che
non sono stati ancora prodotti. In sintesi, la produttività non è un vaccino
definitivo contro il rischio di surriscaldamento. Ed è un buon punto.
B) C’è un apparente
paradosso. Più la Fed dimostra di essere un ringhioso cane da guardia contro
l’inflazione, alzando i tassi, e più la Borsa – pur oscillando tra correzioni,
anche pesanti, e rimbalzi - tende ad
essere rialzista. In realtà è un comportamento razionale. Se, al contrario, la
Fed comunicasse un atteggiamento lassista sul piano della stabilità monetaria,
la Borsa crollerebbe immediatamente. E’ proprio la fiducia nella vigilanza
antinflazionistica della Fed che spinge i mercati azionari ad osare più di
quanto potrebbero e dovrebbero. Per questo è difficile incanalarli e moderarli.
Poiché Greenspan ritiene che non sarà possibile continuare nel futuro una
crescita borsistica come quella avvenuta nel recente passato, non ha altro
mezzo che quello di alzare continuamente i tassi fino al punto di costringere
la Borsa ad arrendersi e calmarsi. Ha scelto, in sintesi, di rischiare più sul
lato della deflazione e del crollo borsistico (e della recessione) che non su
quello dell’inflazione. Comprensibile, ma è un bel rischio nonostante la
prudenza di rialzare i tassi ogni volta solo di un minimo.
C) Tuttavia la Fed non ha
alcuna intenzione di far atterrare o rallentare oltre misura l’economia
americana. Infatti persegue, per il 2000, un obiettivo di crescita del Pil tra
il 3,50% ed il 3,75 compatibile con un inflazione (strutturale) sotto il 2% e
la situazione di piena occupazione. Quindi sta manovrando a favore della
sostenibilità di un’espansione economica robusta .
In sintesi, il problema è
che la Fed deve continuare a rischiare il ricorso ad una pericolosa stretta
monetaria per mantenere una crescita elevata, cioè per evitare che il mercato
vada in bolla e la costringa, poi, a deflazionare violentemente il sistema. In
altre parole, alza preventivamente il costo del denaro di “1” per evitare di
doverlo fare – per dire – di “3” ex-post, cosa che poi indurrebbe una pesante
recessione. Da una parte tale strategia sembra razionale, ben condotta e
probabilmente la migliore possibile. Dall'altra, appaiono sempre più ristretti
i margini per tenere un equilibrio tra forze contrastanti. Lo scenario più
probabile è che alla fine la Fed ce la faccia ad incanalare l’economia
americana, evitando sia la siccità che l’inondazione. Ma saranno mesi da
cardiopalma, le Borse sul filo del rasoio.