11/09/2003

Egregio dottor Pelanda

 

Da qualche anno la seguo con interesse, sia nei dibattiti televisivi, sia nei suoi articoli pubblicati sul giornale L’Arena, e apprezzo la sua competenza nel campo politico ed economico.

Desidererei scambiare con lei alcune riflessioni sull’imminente riforma previdenziale, che il governo italiano sembra sul punto di approvare, e soprattutto avere il suo autorevole parere su alcune mie osservazioni.

La necessità di una riforma del sistema previdenziale italiano è ormai improrogabile e chiesta a gran voce, oltre che da alcune associazioni nazionali anche da numerose organizzazioni internazionali come il  FMI, l’OCSE e UE.

I vari partiti politici, sia di governo sia d’opposizione, sono convinti della necessità di tale riforma ma la affrontano con una certa “cautela” per evitare sia un conflitto con i sindacati che un emorragia di consensi dalle loro fila. Interessanti trovo in ogni modo le ultime proposte sia di incentivare la permanenza sia di disincentivare l’uscita dal mondo del lavoro. Non vedo invece la volontà di introdurre un contributo di solidarietà ai pensionati baby.

A tal proposito vorrei conoscere la sua opinione in merito.

Secondo me, molti uomini politici e sindacalisti non hanno tenuto in giusta considerazione l’ingiustizia sociale che una riforma tesa a garantire i diritti acquisiti e i gli ex-pensionati baby produrrebbe. Ciò che irrita di più chi sta lavorando non è tanto il vedersi allungare di qualche anno l’età lavorativa ma, soprattutto quello che si chiedano solo a loro dei sacrifici, garantendo ad altri privilegi e diritti ormai anacronistici che erano presenti SOLO IN ITALIA.  

Chi, ad esempio, è andato in pensione nel pubblico impiego prima del 1998 con 15-20 oppure 25 anni di contribuzione si troverà ad avere una pensione più alta e ottenuta con minori anni di contribuzione rispetto ai suoi stessi colleghi che andranno in pensione tra 10 oppure 15 anni.

Ci sono poi casi di baby pensionati, ma soprattutto pensionate, che fanno gridare allo scandalo. Ad esempio, conosco personalmente molte ex-insegnanti che sono andate in pensione con 15 anni di contributi, ma, avendo riscattato 4 anni dell’università e avendo avuto due o tre maternità, hanno lavorato effettivamente SOLO 8 ANNI. Addirittura conosco un ex – infermiera che, avendo iniziato a lavorare a quindici anni, ha ottenuto la pensione a soli 29 ANNI D’ETA’.

Ecco quindi che mi sembra un grosso errore, una grave ingiustizia sociale, chiedere oggi a chi sta lavorando 40 ANNI di contribuzione e un calcolo contributivo (meno favorevole di quello retributivo) della pensione SENZA CHIEDERE UN CONTRIBUTO DI SOLIDARIETA’ agli ex- pensionati baby.

Un contributo del 10% -15% e/o un congelamento degli aumenti ISTAT per i pensionati al di sotto dell’età di vecchiaia, potrebbe essere una soluzione riequilibratrice delle ingiustizie sociali esistenti, che dovrebbe essere preso in considerazione.

 

 

Le chiedo inoltre un suo parere su una mia idea riguardo ad un approccio diverso del sistema previdenziale:

L’introduzione dell’assegno pensionistico minimo. La possibilità cioè di lasciare il lavoro non più ad un età prestabilita ma quando, in base a dei calcoli basati sui contributi effettivamente versati, sull’età anagrafica e sull’aspettativa di vita, si può ottenere dall’INPS almeno un assegno pensionistico minimo di 520 euro mensili.

Ad esempio, un operaio desideroso di lasciare il lavoro precocemente potrebbe scegliere una pensione di 520 euro maturata a 50 anni d’età con 35 anni di contributi oppure aspettare qualche anno per averne una più consistente. Un dirigente con 55 anni d’età e solamente 30 di contributi potrebbe essere libero di decidere se lasciare il lavoro con un assegno esiguo o rimanere più a lungo per avere più disponibilità.

In sostanza potrebbe essere una sorta d’allargamento delle ricetta dei disincentivi e degli incentivi, proposti dal governo, ma portati ai limiti estremi.

Gli aspetti positivi di tale sistema potrebbero essere molteplici:

dalla possibilità di dedicarsi alla famiglia (seguire famigliari non autosufficienti, portatori di handicap o bambini) percependo comunque un a rendita tesa ad integrare il budget familiare;

alla possibilità di dedicarsi a propri hobbies o lavori domestici (piccoli lavori agricoli mantenendo attive alcune    

zone rurali di montagna che andrebbero abbandonate);

dalla possibilità di evitare che lo Stato intervenga con prepensionamenti ( quando un azienda decide di licenziare

chi avrà la possibilità di avere un assegno minimo non graverà sul bilancio statale);

alla possibilità d’avere molti nuovi posti di lavoro diminuendo il tasso di disoccupazione nonché dei sussidi.

Certo l’assegno pensionistico minimo garantisce appena una vita di sussistenza ma esso deve essere inquadrato

all’interno di ciascuna famiglia, di ciascuna persona e in base alle loro esigenze. Inoltre attualmente è erogato a

milioni di pensionati con il quale riescono a sopravvivere.

 

La ringrazio della sua attenzione e attendo una sua opinione.

 

 

                                                                                                                              Piubelli Fabio