11/11/2001

                                                         

            Roma, 11 novembre 2001

 

                        Caro prof. Pelanda,

            visto che non è capitata un'altra occasione per incontrarci, approfitto della sua presenza in radio a "Prima Pagina" questa settimana per farmi vivo.

            E vorrei tentare di dare una piccola e parzialissima risposta alla sua provocatoria domanda:"siamo pronti alla guerra?".

            La domanda è chiaramente retorica; in particolare con riferimento a questo tipo di "guerra": non vi sono e non vi erano abbastanza preparati gli USA, molto meno l'Europa, figuriamoci l'Italia.

            Il guaio è che però gli USA (e l'Inghilterra) a qualche tipo di guerra erano e sono preparati, mentre l'Europa no, e l'Italia ancor meno.

            Le facce di questa impreparazione sono tante e direi in generale ben note, sia nelle cause che nelle manifestazioni.

            Ma io vorrei essere in questa risposta più specifico, anche se più parziale. E vorrei quindi evidenziare che uno degli aspetti in cui in Italia ed in Europa siamo impreparati a qualunque guerra è l'assenza di una seria politica e strategia industriale, orientata allo sviluppo e basata sulla innovazione tecnologica; quella che in Europa è ancora molto debole è la potenza industriale utilizzabile in guerra, che non è fatta solo di orientamento alle armi, ma prima di tutto è basata sulla capacità innovativa tecnologica; e che è condizione necessaria per una seria politica militare, e quindi per una credibile politica estera; se ricorda, è la lezione che ho imparato da mio padre!

            Se guardo per questo aspetto all'Italia, mi viene da far riferimento oggi al caso della nostra eventuale partecipazione al programma dell'aereo da trasporto militare di AIRBUS.

            Nessuno, mi sembra, ha messo in evidenza che i costi per l'esercizio e l'operatività di questi aerei durante la loro vita economica ed operativa sono confrontabili con quelli di produzione e di acquisto; e se la nostra Aeronautica afferma che non gli servono, mi chiedo che senso abbia l'idea che al finanziamento provveda il Ministero delle Attività Produttive. Potrei anche capire che quest'ultimo finanzi l'acquisto, ma finanzierà anche poi l'addestramento, la logistica di supporto, la manutenzione, in generale l'esercizio degli aerei? E se invece a queste spese provvederà il Ministero della Difesa, com fa lo stesso a sostenere che gli aerei non gli servono? Insomma, mi sembra che l'idea sia di partecipare a produrre alcuni pezzetti di questi aerei, a costi assurdi, per avere un pò di lavoro poco utile e poco produttivo, a spese del contribuente, e di lasciarli poi arruginire da qualche parte. Come interpretazione di una filosofia governativa "di mercato" e "liberista" non mi sembra male! Puzza tanto di economia "assistita" della peggior specie.

            Tra l'altro, pochi giorni fa è morto l'onorevole Leone, ex presidente della Repubblica, coinvolto a suo tempo (primi anni '70) nello "scandalo Lockeed", in cui si trattava ancora di un aereo da trasporto militare analogo, che si voleva produrre in Italia; e le polemiche erano molto simili a quelle attuali per l'AIRBUS.

            In ambedue i casi, ed in tanti altri, io ci vedo all'origine, tra l'altro, una endemica carenza di politica industriale. Per spiegarmi, più o meno in concomitanza con lo "scandalo Lockeed" un gruppo di dirigenti di alcune aziende IRI ci impegnammo (inutilmente) in un acceso dibattito interno in proposito; e sostenemmo che in Italia non possiamo perennemente "non scegliere", "non decidere"; e che in Italia non c'era (e non c'è) spazio per una attività produttiva significativa e redditizia in campo aeronautico; e che i soldi spesi per alimentarne le inevitabili perdite, che puntualmente si sono verificate e che così continueranno, potevano (e potrebbero) molto più efficacemente essere investiti per sviluppare attività ed aziende più adatte alla realtà culturale, economica, commerciale, politica, strategica, dell'Italia. La produzione aeronautica è "capital intensive", e l'Italia è enormemente indebitata; richiede materiali, componenti, semilavorati, attrezzature, molto costosi e che non sono prodotti in Italia; non ha in Italia un mercato di dimensione appena sufficiente. Dovevamo (e dovremmo) invece sviluppare e favorire aziende più "human resources-intensive", più "knowledge-intensive"; noi per esempio proponevamo di creare in Italia una "MICROSOFT", e forse ci saremmo riusciti.

            Ma dietro a tutto ciò, con riferimento anche all'Europa, io ci vedo anche un'altra carenza condizionante: il tipo di "capitalismo" (familiare) prevalente, e (in particolare in Italia) l'ostilità culturale e politica verso la grande azienda industriale; per cui, l'idea che le nostre "famiglie-padrone" e gli artigiani ("piccolo è bello"!) europei ed in particolare italiani possano sostenere una economia ed una organizzazione sociale "di guerra" mi sembra, almeno per parecchio ancora, impossibile.

            Un'altra piccola dimostrazione di impreparazione, tutta italiana: la percentuale di investimenti in ricerca tecnologica in Italia, rispetto ad un totale complessivo in attività di ricerca comunque molto basso, è circa un decimo rispetto a quella di qualunque altro paese industrializzato.

            Mi piacerebbe un suo commento.

            Grazie e spero prima o poi di incontrarla.

            Cordiali saluti

                                                                                                            F. Musto