27/10/2000

Signor pelanda,

 
letto il suo articolo su Il Giornale del 26/10/2000
 
le invio quanto segue:
 
 
 
Una nuova forma di povertà
(Perché tasse e contributi elevati sono un vero flagello)
 
Cosa significa essere di sinistra, piuttosto che di destra, oggi in Europa? La vera natura delle differenze tra l’una e l’altra mentalità sono difficili da definire con precisione unanime.
 
Parte della sinistra non ha ancora abbandonato il vecchio stereotipo che vuole sia di sinistra chi sta dalla parte dei lavoratori. Un lavoratore che vota a destra manca di coscienza di classe, e sbaglia. Mentre la nuova sinistra democratica propone oggi, quale nuovo e più raffinato elemento distintivo, un fattore genetico (ereditario o meno?) che suddividerebbe la specie umana in due distinte categorie. Quella dei tendenzialmente egoisti (potenziali evasori fiscali), votanti a destra, e quella dei sociali e partecipativi, votanti a sinistra.
 
Gli economisti parlano di misure diverse di responsabilità personale cui si vuole inchiodare un individuo, per le conseguenze di quella catena di scelte più o meno libere che rappresentano il corso della sua vita. Oppure, parlano di un diverso grado di fiducia riposto nella capacità di un apparato statale e burocratico di gestire efficacemente, e non distruggere, risorse sottratte al mercato per una riallocazione sociale. O ancora, parlano di un diverso peso dato al problema degli incentivi: un disoccupato che percepisce un sussidio generoso, si sforzerà di cercare attivamente un lavoro?
 
Destra e sinistra, insomma, parlano lingue diverse.
 
Io penso che, in realtà, almeno per quanto riguarda lo speciale caso italiano, la radice più importante delle generiche differenze di opinione in merito a questioni di carattere economico politico, sia da imputare a due fattori. Primo, una diversa consapevolezza del perché, e di quanto, tasse e contributi elevati siano “un male” di per sé grave. Secondo, una diversa consapevolezza di quale sia il vero livello medio di prelievo fiscale e contributivo raggiunto oggi in Italia.
 
Comincio dal secondo punto. Un lavoratore dipendente con reddito lordo 100 costa al suo datore di lavoro 153 (in Italia il lordo non è il lordo), e percepisce un netto in busta di circa 70. Se spende tutto il suo reddito e/o possiede un’auto e/o una casa, paga, tra IVA varie-auto ed ICI, almeno altre 15-20 lire di tasse. Riuscendo a consumare effettivamente beni e servizi per un valore di 50-55 lire. Da un vero lordo di 153 (da noi si chiama costo del lavoro) si arriva ad un vero netto di 50-55. L’aliquota fiscale/contributiva complessiva per redditi medio bassi da lavoro dipendente è così del 64-67%, e cioè di due terzi!
 
Raramente, una persona che vota con convinzione a sinistra da sempre, è stata esposta con chiarezza alla verità di questi semplici, sbugiardanti, disarmanti calcoletti. Lo so per esperienza personale. L’interessato si ribella, protesta, cita i dati forniti dal governo, parla dei confronti fatti in TV con gli altri paesi CEE, prova a rifare i conti. Alla fine, almeno sui numeri, deve capitolare. Conosce la sua busta paga e le sue bollette! Ma si riprende, subito, una rivincita di principio. E allora? Che male c’è, poi lo stato ci paga la pensione, la sanità, in America se ti ammali etc. etc…  E la tensione nel frattempo è così palpabile che la discussione non può più andare avanti, il canale della comunicazione si chiude, e non c’è modo di approfondire la vera questione. E cioè, perché aliquote fiscali tanto elevate producono danni tanto devastanti?
 
La risposta è che aliquote fiscali elevate creano dal nulla una nuova subdola forma di povertà. Provocano un collasso nel livello del benessere generale della popolazione veloce, diffuso, e generalizzato. Provocano danni che, per la sinistra intera, rimangono un fenomeno misterioso ed occulto, ma non sconosciuto! Che l’operaio di oggi stia peggio del suo omologo degli anni ’70 è un’affermazione (corretta!) di Fausto Bertinotti!
 
Proviamo a fare chiarezza su questo punto. Un dato livello di benessere materiale richiede la capacita di acquistare un determinato paniere di beni e servizi. Ciascun bene o servizio che un italiano oggi acquista è prezzato sulla base di un costo del lavoro di 153,  al quale si aggiungono quote legittime di spese generali e di profitto dell’impresa produttrice, più l’IVA al 20% sul totale così ottenuto. Un ora del proprio lavoro rende 50-55, un bene o servizio incorporante un’ora di lavoro altrui costa 200-350! Da ciò, la nuova miseria! E da null’altro! Il paniere effettivamente consumabile non può che essere minuscolo.
 
Il progresso tecnologico e l’aumento della produttività del lavoro hanno insieme contrastato e nascosto l’arrivo di questa nuova calamità, mentre aliquote e tasse venivano inesorabilmente adeguate verso l’alto negli ultimi 30 anni. In alcuni settori non si sono però potuti fare miracoli. E così l’affitto di un trilocale in una grande città assorbe oggi un intero stipendio base. Ne assorbiva dalla metà ad un terzo trent’anni fa.
 
Come Italiani non conosciamo la povertà di tipo tradizionale. In un paese come l’India, la produttività del lavoro è bassissima, e questo di per se limita il paniere di beni e servizi consumabili da ciascun indiano. La povertà italiana di oggi è di un genere nuovo. Convive con livelli di produttività del settore privato assai elevati. Con un gigantesco apparato statale dispensatore e sperperatore. Con redditi nominali due-volte-lordi decenti (avremmo superato il PIL della Gran Bretagna). Con prezzi proporzionati a questi ultimi, e quindi elevati, da paese “ricco”. E, infine, con redditi reali due-volte-netti sempre meno distanti da quelli di un paese ex-comunista o del terzo mondo.
 
Perdonatemi la franchezza.
 
Samuel Magiar
(samuel.magiar@tin.it)
 
 

Quanto paga oggi nel complesso un lavoratore dipendente fra tasse e contributi vari?

Prima ancora di seguirmi nei ragionamenti e nei calcoli che seguiranno, provate a dare voi una risposta immediata. Basandovi sulla vostra esperienza diretta, o su ciò che avete nel tempo assorbito da giornali e televisione. Fatto? Bene. Ricordatevi di questa vostra risposta. Io sono pronto a scommettere che la maggior parte di voi ha pensato ad un salasso che va dal 45% al 55%.<?xml:namespace prefix = o ns = "urn:schemas-microsoft-com:office:office" />

Scopo di questo articolo è quello di controbilanciare gli effetti sul vostro modo di percepire e pensare la realtà di tanta (calcolata?) disinformazione globale. Così che, se posti in un futuro prossimo di fronte alla stessa domanda, rispondereste tutti: il salasso per un lavoratore dipendente è di almeno il 70% di quanto questi costi al suo datore di lavoro. Non ci credete? Continuate a leggere!

Prima voce, i contributi INPS a carico del datore di lavoro, e prima mistificazione globale. Il vostro “lordo annuo” non è in realtà per nulla un valore lordo. Una parte preponderante dei contributi che l’INPS pretende da voi per legge (in cambio di una promessa di pensione) non compaiono per nulla nel vostro statino di busta paga. Sono stati eufemisticamente etichettati come contributi “a carico dell’impresa” (ah beh … se li paga l’impresa …).  Ma, credetemi, sono pur sempre contributi INPS, e sono purtroppo invece proprio a carico vostro. E sono anche pesanti! Se il vostro lordo è pari a 100, i contributi INPS “a carico dell’impresa” (ha !) ammontano a 53. Se costate quindi al vostro datore di lavoro 153, se cioè il vostro “vero lordo”, il vero costo del vostro servizio lavorativo, è 153, un terzo circa di questo vero lordo se né và solo per questa prima voce contributiva.

Seconda voce, i contributi INPS a carico del lavoratore, sono del 9% circa del falso lordo di cui sopra. E cioè di circa 9 lire. L’INPS incamera 53+9=62 lire per ogni 153 che voi ne costate alla ditta. Il prelievo solo contributivo è del 40% abbondante. Ora vengono le “tasse” vere e proprie.

Terza voce, l’IRPEF. Tassa calcolata per scaglioni di reddito. Con aliquote progressive, e con detrazione fissa per il lavoratore dipendente. L’aliquota più bassa è oggi del 19% (solo pochi anni fa era dell’11%). Se possedete la vostra prima casa, il suo reddito figurato in sede di calcolo IRPEF annulla o quasi l’effetto della detrazione fissa. Pagherete circa 21 lire di IRPEF per ogni 100 lire di “lordo” o 153 lire di costo del lavoro. Vi sono state così sino ad ora tolte 53+9+21=83 lire, il 54% circa delle 153 lire iniziali, e siete rimasti con un “netto in busta” di 70 lire. Ma si tratta di un vero abuso della parola netto. Provate a spenderlo, il vostro netto in busta!

Quarta voce. Nel farlo pagherete l’IVA, al 20% sulla maggior parte dei beni, ed almeno altre 13 lire se ne andranno così.

Quinta voce, la tassa sui carburanti. Non solamente benzina e gasolio da autotrasporto, ma anche gasolio da riscaldamento. Se spendete ogni anno un milione e mezzo di lire di riscaldamento, ed un milione di lire per 10,000 km in auto, avete pagato tasse speciali sui carburanti per circa un milione. Diciamo 3 lire delle vostre 100 lorde e 153 iniziali.

Sesta voce, il bollo auto. Diciamo una lira per ogni 153.

Settima voce, l’ICI. Diciamo un’altra lira.

E qui ci fermiamo e facciamo i conti: 153-53-9-21-13-3-1-1=52!  Abbiamo potuto consumare beni e servizi per un valore effettivo di 52lire. 101 lire ci sono state sottratte per tasse e contributi vari. 101 su 153. Paghiamo di tasse e contributi vari più del 65% di quanto otteniamo dai nostri datori di lavoro. E questo è un dato drammaticamente diverso da quello mediamente percepito dalla gente.

Il mega-stato super-sociale, per quanto meraviglioso possa apparire ad una parte di noi, costa, al lavoratore medio, i due terzi delle sue fatiche, e non la metà. A me questa considerazione pare non del tutto trascurabile.

Samuel Magiar
samuel.magiar@tin.it

 

Perché aliquote fiscali e contributive elevate sono un vero flagello per l’economia di un paese sviluppato

Dire che a livello individuale pagar troppe tasse fa male è senza dubbio un’affermazione tanto vera quanto banale. Sostenere che la stessa cosa valga a livello collettivo non è più né semplice né banale. E questo perché, a livello aggregato, via via che aumenta il prelievo fiscale, aumentano anche le entrate dello Stato, che spenderà o redistribuirà i denari così raccolti a beneficio dell’intera collettività.

Vero sarà ancora, comunque, che i benefici addizionali per la collettività di bilanci statali in continua crescita potranno risultare al più proporzionali a tale stessa crescita. Molto probabilmente, per via della legge dell’utilità marginale decrescente, meno che proporzionali. Ciò che qui si vuole invece dimostrare, è che i disagi per la collettività nel suo insieme crescono purtroppo in maniera esponenziale al crescere della pressione fiscale. Che le dimensioni di un apparato statale pubblico, rispetto a quelle del suo sottostante sistema economico privato, non possono essere una scelta di natura esclusivamente politica.

La specializzazione nella produzione di beni e servizi, destinati poi al mercato per una serie di scambi merce-denaro e nuovamente denaro-merce, è ciò che contraddistingue oggi un paese economicamente sviluppato da uno ancora classicamente arretrato e povero. Questa specializzazione consente di raggiungere livelli di produttività, e quindi di benessere collettivo, impensabili per economie basate sull’autoproduzione ed il consumo diretto. Una fiscalità elevata è catastrofica per un sistema economico moderno proprio perché và ad interferire con il funzionamento di questo basilare meccanismo.

Chiariamo quest’ultimo punto. Ciascun bene o servizio che un italiano oggi acquista è prezzato sulla base di un costo medio orario lordo del lavoro pari, poniamo, a 100.  E per lordo intendo, qui, lordo anche dei contributi INPS a carico dell’impresa. Un’ora di lavoro frutta invece oggi in media, ad un italiano, un netto di meno di 35 lire. E per netto intendo, qui, netto anche di IVA, ICI, tasse sui carburanti, tasse varie auto, etc. etc.  Ecco spiegata la natura del disagio dovuto ad una fiscalità elevata. Un’ora del proprio lavoro rende meno di 35, un bene o servizio incorporante un’ora di lavoro altrui costa 100. la specializzazione nella produzione dei beni finalizzata allo scambio degli stessi viene resa meno conveniente. Il settore privato dell’economia soffre.

Definiamo ora un fattore di disagio d per gli italiani come funzione dell’aliquota media fiscale/contributiva t. Tale fattore, alla luce di quanto visto sopra, potrà essere dato dalla formula: d=[1/(1-t)]-1. Dove il rapporto 1/(1-t) rappresenta il fattore di moltiplicazione dei prezzi reali di scambio di beni e servizi dovuto ad un dato t. Mentre il -1 rappresenta un termine di standardizzazione che fa sì che d(t=Ø) sia pari a zero. In Italia il fattore di moltiplicazione dei prezzi reali è pari a 1/(1-0,65)=2,86 mentre il fattore di disagio d è 1,86. Si noti come d(t) tenda ad infinito all’avvicinarsi di t ad 1 (statalismo assoluto), con il ritorno di un’economia in precedenza sviluppata verso forme primitive di autoproduzione e consumo diretto.

La formula qui proposta per il disagio fiscale d(t) è riscrivibile come: d=[1-(1-t)]/(1-t). Qui il numeratore è interpretabile come la differenza tra, il prezzo reale che i beni scambiati sul mercato raggiungono in presenza di un prelievo fiscale t, standardizzato pari ad 1, ed il prezzo che quegli stessi beni avrebbero sul mercato in assenza di prelievo, e cioè 1-t. Il disagio stesso è a sua volta reinterpretabile, quindi, come la misura dell’incremento percentuale del prezzo reale di mercato che subiscono beni e servizi causa la presenza di un prelievo fiscale t. In Italia tale aumento è pari al … 186%.

 

Qualsiasi considerazione circa le dimensioni ottimali del settore pubblico di un dato paese dovrà tener conto dell’interazione di innegabili fattori di beneficio con l’importante fattore di disagio qui visto. Una funzione che interpreti i benefici marginali di una spesa pubblica finanziata da t avrà una forma pressoché simmetrica verticalmente a quella della funzione disagio qui analizzata. I benefici tenderanno ad essere infinitamente elevati per valori di t vicini allo Ø. Tenderanno però anche ad un valore finito, possibilmente negativo o al più nullo, per valori di t vicini ad 1.

L’analisi qui svolta tende ad escludere che possano venire di per sé considerate ottimali proposte di società estreme. Orientate verso un liberismo capitalistico incontrollato (t vicino allo zero),  piuttosto che verso forme di socializzazione comunistica di tutti i beni (t vicino ad uno). Rende però anche difficilmente giustificabili proposte di patti sociali che prevedano aliquote fiscali/contributive superiori al 50%.

Samuel Magiar
samuel.magiar@tin.it

 

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