ANCORA SU NAPOLI Per dirimere lo scontro istituzionale su noglobal versus polizia (scontri di Napoli marzo 2001), bisogna andare alle origini psicologiche dei rispettivi comportamenti, sennò non se ne esce, ognuno nel chiuso delle rispettive certezze istituzionali e di diritto. Quando
nel novembre 1999 il telegiornale riportò gli scontri di Seattle, io
sentii forte che sarebbe nata una nuova moda, che evidentemente
esprimeva umori latenti nel vasto mondo occidentale, ma pur sempre una
moda. Se quegli scontri fossero avvenuti a Tabritz, a Bengasi o a Lima,
di sicuro moda non sarebbe stata. Ma l’America, azzo, non poteva non
lanciare l’ennesimo surf, o frisby o skate board. Io
so insomma, e ci metterei la testa sopra il ceppo, che Seattle è
l’atto fondativo del nuovo movimento solo e in quanto fu scontro
fisico con la polizia. Se fosse stato un pacifico convegno, pur in
America, non sarebbe rimasto nulla. Ma il coktail di elitismo
intellettuale, sangue ed epifenomenologia americana non poteva che
suonare irresistibile. Chi può negarlo? Non partirono dalle 90 province
pulmanate di giovanotti bardati come Sancho Panza, con elmi, caschi,
bastoni e parastinchi da football americano? Cosa furono quelle
esercitazioni sulla spiaggia di Voltri sotto le telecamere e l’occhio
paranoico di Cagnoletto, nonché con la preziosissima e gioconda
benedizione del cardinale? Sarebbero partiti senza la prospettiva del
bel gesto, della catarsi della lotta, senza l’idea che un giorno
avrebbero potuto raccontare alla ragazza (e poi ai nipoti) “c’ero
anch’io”? (I
problemi del mondo ovviamente sono un’altra cosa: chi può infatti
pensare che possano migliorare d’un grammo con le piazzate?) Ma
ci fu un inconveniente. Quei terronacci di poliziotti, che notoriamente
sanno poco di D’annunzio. Essi
sentirono benissimo il pericolo eminentemente razzista sopra le loro
teste: ad essi sottoproletari infatti era riservato, in tale demenziale
commedia, il ruolo fisso del pungiball, da offrire ai giovini piccolo
borghesi in vena di rivoluzione. Uomini
in carne ed ossa, ragazzi in jeans anche loro, mariti o fidanzati o
imberbi, però poliziotti, ovvero immagine televisiva (banalizzata,
direi fumettistica) del potere. Sciagurati! Dovevano prenderle e tacere
come spaventapasseri. Questo volevano anche le mamme (dei rivoluzionari
umanitari). Non
quindi la sola paura fisica (che pure c’è sempre), ma ben altro: il
rancore e l’odio di classe, quello che annulla ogni deontologia
appresa sui banchi o richiesta dalle direttive ministeriali; Bolzaneto,
Diaz e mille episodi sulle strade cantano l’odio di classe dei
poliziotti, l’odio disperato verso un mondo intellettuale che ancora
nel duemila dà per scontato (con l’unzione sacrale di intellettuali e
moralisti d’ogni risma) che per manifestare un’idea, un sentimento,
bisogna fare a cazzotti coi poliziotti. Chi declamò infatti per
settimane che “la zona rossa è illegale”? Che sarebbe stata
forzata? Soprattutto: chi mai sperò davvero, forzando la linea rossa,
di poter arrivare al corpo degli Otto? Lo scontro era il fine, oltre che
il mezzo. Il fine non è alleviare sofferenze nel vasto mondo, bensì
certificare il proprio status di rivoluzionari mediante il battesimo di
fuoco. So
bene pertanto che la polizia andò ben oltre le righe, picchiò giovani
inermi, né credo fosse così impossibile distinguere: penso invece che
proprio contro le anime belle si sia sfogata nel modo più appagante
l’anima dei poliziotti. Le botte agli inermi, oltre che pedagogiche
(prima di andare al corteo, accertati con chi sei e con quali parole
d’ordine), erano manganellate mancate sulla testa dei mandanti
irresponsabili, non certo Casarini o Cagnoletto o circuiti
internazionali che pure esistono, bensì indirizzate idealmente ai bonzi
e ai soloni del politicume massmediologico, che per settimane hanno
civettato coi propositi violenti. Queste
sono a mio avviso le radici psicologiche degli eventi. Non le varie
argomentazioni di merito, chi dette e ricevette ordini. Men che meno i
temi politici: l’economia, la fame, i processi di globalizzazione,
l’inquinamento, l’elettrosmog, gli ogm, etc. In verità secondari,
pretesti. Ne è prova che appena ciascuno di questi argomenti viene
approfondito in un qualsiasi contraddittorio, tutto si fa articolato e
complesso, foriero di bene o di male a seconda di molti altri fattori,
tutte le posizioni ritrovano ragioni e giustificazioni: ma quel che di
sicuro rimane totalmente immotivato è la radicalità, l’assolutezza e
la demonizzazione di chicchessia. Che invece sono indispensabili per
andare alla guerra. Lo
scontro alla procura di Napoli contiene anche uno spaccato antico della
società meridionale: contrapposti ai poliziotti (gli antichi cafoni) ci
sono i signori e signorini magistrati, di sicuro discendenti di quelli
che nei secoli ruotarono attorno alle corti coi titoli più diversi, ma
la sostanza nobiliare non cambia: trattasi -come riferito dal
procuratore Cordova- di gente capace di andare a lavorare anche 1,7
volte alla settimana. Noi
non possiamo dimenticare quanto da giovani e adolescenti sia facile
finire in situazioni pericolose a causa delle migliori intenzioni, né
che la polizia -di per sé- non può essere cosa assolutamente
simpatica. Ma se la politica dei compagni obbliga alla solita ottusità
(era cileno anche il marzo 2001?) e impone l’aut aut bianco-nero, noi
del popolo d’Italia non possiamo che scegliere, tra i due, i
poliziotti. Perugia,
21 maggio 2002
Luigi Fressoia
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