26/05/2002

ANCORA SU NAPOLI

 

Per dirimere lo scontro istituzionale su noglobal versus polizia (scontri di Napoli marzo 2001), bisogna andare alle origini psicologiche dei rispettivi comportamenti, sennò non se ne esce, ognuno nel chiuso delle rispettive certezze istituzionali e di diritto.

Quando nel novembre 1999 il telegiornale riportò gli scontri di Seattle, io sentii forte che sarebbe nata una nuova moda, che evidentemente esprimeva umori latenti nel vasto mondo occidentale, ma pur sempre una moda. Se quegli scontri fossero avvenuti a Tabritz, a Bengasi o a Lima, di sicuro moda non sarebbe stata. Ma l’America, azzo, non poteva non lanciare l’ennesimo surf, o frisby o skate board.

Io so insomma, e ci metterei la testa sopra il ceppo, che Seattle è l’atto fondativo del nuovo movimento solo e in quanto fu scontro fisico con la polizia. Se fosse stato un pacifico convegno, pur in America, non sarebbe rimasto nulla. Ma il coktail di elitismo intellettuale, sangue ed epifenomenologia americana non poteva che suonare irresistibile. Chi può negarlo? Non partirono dalle 90 province pulmanate di giovanotti bardati come Sancho Panza, con elmi, caschi, bastoni e parastinchi da football americano? Cosa furono quelle esercitazioni sulla spiaggia di Voltri sotto le telecamere e l’occhio paranoico di Cagnoletto, nonché con la preziosissima e gioconda benedizione del cardinale? Sarebbero partiti senza la prospettiva del bel gesto, della catarsi della lotta, senza l’idea che un giorno avrebbero potuto raccontare alla ragazza (e poi ai nipoti) “c’ero anch’io”?

(I problemi del mondo ovviamente sono un’altra cosa: chi può infatti pensare che possano migliorare d’un grammo con le piazzate?)

Ma ci fu un inconveniente. Quei terronacci di poliziotti, che notoriamente sanno poco di D’annunzio.

Essi sentirono benissimo il pericolo eminentemente razzista sopra le loro teste: ad essi sottoproletari infatti era riservato, in tale demenziale commedia, il ruolo fisso del pungiball, da offrire ai giovini piccolo borghesi in vena di rivoluzione.

Uomini in carne ed ossa, ragazzi in jeans anche loro, mariti o fidanzati o imberbi, però poliziotti, ovvero immagine televisiva (banalizzata, direi fumettistica) del potere. Sciagurati! Dovevano prenderle e tacere come spaventapasseri. Questo volevano anche le mamme (dei rivoluzionari umanitari).

Non quindi la sola paura fisica (che pure c’è sempre), ma ben altro: il rancore e l’odio di classe, quello che annulla ogni deontologia appresa sui banchi o richiesta dalle direttive ministeriali; Bolzaneto, Diaz e mille episodi sulle strade cantano l’odio di classe dei poliziotti, l’odio disperato verso un mondo intellettuale che ancora nel duemila dà per scontato (con l’unzione sacrale di intellettuali e moralisti d’ogni risma) che per manifestare un’idea, un sentimento, bisogna fare a cazzotti coi poliziotti. Chi declamò infatti per settimane che “la zona rossa è illegale”? Che sarebbe stata forzata? Soprattutto: chi mai sperò davvero, forzando la linea rossa, di poter arrivare al corpo degli Otto? Lo scontro era il fine, oltre che il mezzo. Il fine non è alleviare sofferenze nel vasto mondo, bensì certificare il proprio status di rivoluzionari mediante il battesimo di fuoco.

So bene pertanto che la polizia andò ben oltre le righe, picchiò giovani inermi, né credo fosse così impossibile distinguere: penso invece che proprio contro le anime belle si sia sfogata nel modo più appagante l’anima dei poliziotti. Le botte agli inermi, oltre che pedagogiche (prima di andare al corteo, accertati con chi sei e con quali parole d’ordine), erano manganellate mancate sulla testa dei mandanti irresponsabili, non certo Casarini o Cagnoletto o circuiti internazionali che pure esistono, bensì indirizzate idealmente ai bonzi e ai soloni del politicume massmediologico, che per settimane hanno civettato coi propositi violenti.

Queste sono a mio avviso le radici psicologiche degli eventi. Non le varie argomentazioni di merito, chi dette e ricevette ordini. Men che meno i temi politici: l’economia, la fame, i processi di globalizzazione, l’inquinamento, l’elettrosmog, gli ogm, etc. In verità secondari, pretesti. Ne è prova che appena ciascuno di questi argomenti viene approfondito in un qualsiasi contraddittorio, tutto si fa articolato e complesso, foriero di bene o di male a seconda di molti altri fattori, tutte le posizioni ritrovano ragioni e giustificazioni: ma quel che di sicuro rimane totalmente immotivato è la radicalità, l’assolutezza e la demonizzazione di chicchessia. Che invece sono indispensabili per andare alla guerra.

Lo scontro alla procura di Napoli contiene anche uno spaccato antico della società meridionale: contrapposti ai poliziotti (gli antichi cafoni) ci sono i signori e signorini magistrati, di sicuro discendenti di quelli che nei secoli ruotarono attorno alle corti coi titoli più diversi, ma la sostanza nobiliare non cambia: trattasi -come riferito dal procuratore Cordova- di gente capace di andare a lavorare anche 1,7 volte alla settimana.

 

Noi non possiamo dimenticare quanto da giovani e adolescenti sia facile finire in situazioni pericolose a causa delle migliori intenzioni, né che la polizia -di per sé- non può essere cosa assolutamente simpatica. Ma se la politica dei compagni obbliga alla solita ottusità (era cileno anche il marzo 2001?) e impone l’aut aut bianco-nero, noi del popolo d’Italia non possiamo che scegliere, tra i due, i poliziotti.

Perugia, 21 maggio 2002

                                                                           Luigi Fressoia