Caro Professore Mi perdoni se la coinvolgo, ma la sua opinione
sull’articolo della Sig.ra Ida Magli, il Giornale 28/08/2000 “Il comunismo ha vinto. Ci renderanno tutti uguali”, non
me la vorrei perdere. Io dico la mia. Lo scritto è due volte paradossale, l’inizio vuole stupire
il lettore, il suo prosèguo vuole dimostrare che, sottoposta ad una
analisi critica, nonostante le apparenze e il comune pensiero, la tesi
presentata é valida. In sintesi: si sostiene che quello che non ha potuto ottenere
Marx, Lenin, Stalin e l’armata rossa, farci, in pratica, diventare tutti
uguali, tutti comunisti, sta avvenendo per opera di un “cupio
dissolvi” generale. La mia modesta, analisi mi conduce a queste considerazioni: Il comunismo del mercato, cui allude Tremonti e da cui prende
spunto l’argomentazione della Signora Magli, non richiede assolutamente
che i consumatori debbano essere tutti uguali. Uguali in che? Nei
gusti? Nei desideri? Nei sentimenti? Nelle scelte? Nell’uso degli
oggetti? Nell’alimentazione? Nel modo di vestire? Nella cultura? Si
potrebbe anche continuare. Se ciò accadesse, avremmo, semplicemente, la scomparsa del
mercato e, di conseguenza, l’assenza del problema. Tremonti, secondo me, con “comunismo del mercato”
intendeva affermare la necessità di un mercato che diviene comune a
tutti, aperto a tutti, con regole comuni,
ma capace, questo sì, di soddisfare, esempio a caso, il desiderio
di ogni donna di essere diversa dalle altre. Il mercato di Tremonti ha, come pilastro portante, la
concorrenza, tra produttori di beni o di servizi, che esige, a sua volta,
la diversità dei consumatori. La politica di Tremonti, giusta o
sbagliata, attuabile o no, è quella di sostituire quanto più Stato
possibile col mercato. Seguono alcuni esempi di come “il dover essere tutti
uguali” si manifesti nel “il pensiero unico” che, scrive la Sig.ra
Magli, tutte le categorie politiche, economiche, religiose, scientifiche
ecc. hanno adottato. Ma se esistesse “il pensiero unico” saremmo già
tutti uguali; cosa palesemente contraddetta dalla realtà. Identificare, poi, il comunismo, con l’ideale
dell’uguaglianza intriga maliziosamente il lettore, perché non si
chiarisce a quale “comunismo” si alluda; a quello come s’è
concretamente realizzato nel XX secolo, oppure a quello “vero” di
Bertinotti che, a tutt’oggi, rimane un oggetto misterioso?
Barnard, quando effettuò il primo trapianto, non era mosso
dall’imperativo di rendere un cardiopatico terminale “uguale” ad un
individuo sano, ma di essere il Primo al mondo, il Pioniere, diverso da
tutti gli altri cardiochirurghi. Le Biotecnologie possono abbattere le barriere naturali poste
dal codice genetico; è come affermare che l’energia nucleare può
distruggere ogni forma di vita sulla terra. E allora? Gira e rigira si ritorna all’uomo, alle sue pulsioni
innate, alla sua, anche se inconfessata, aspirazione d’essere
“unico”, al suo desiderio di potere e di potenza, alla sua tendenza
alla sopraffazione, al suo istinto di conservazione. Sarà proprio quest’ultimo, con mezzi, modi e anche costi,
che nemmeno possiamo immaginare, ad impedire che trapianti, manipolazioni
genetiche, clonazioni, “pensiero unico” ecc. possano renderci tutti
uguali. Il finale dell’articolo pone, giustamente, problemi reali.
Concordo pienamente sulla loro importanza, e sulla necessità di aprire un
dibattito nella pubblica opinione per non lasciare le decisioni alla
solita oligarchia. Mi sembra la conclusione di un altro articolo. Cordiali saluti Moreno Lupi P.S. Non posso rivolgermi direttamente alla Sig.ra Magli
perché non so come fare.
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Trovo sul sito altri contributi al dibattito su “Il
progresso alleato della giusta ecologia”, e vorrei intervenire ancora.
Cerchiamo di chiarire subito: quali settori culturali e
politici hanno gli “strumenti” necessari per realizzare una giusta
ecologia? Lei, con un colpo d’ala, propone l’alleanza del progresso
con l’ecologia. L’alleanza, per definizione, presuppone legittimazione
reciproca, obiettivi comuni e condivisi, il necessario rispetto degli
interessi in campo e una flessibilità intellettuale ed operativa sul “come
fare”. La questione è politica. Chi sono gli interlocutori politici e
cosa possiamo aspettarci dai loro “come fare”. Premessa: L’uomo è imperfetto e come tale strutturalmente
impossibilitato, dal suo stesso essere, ad elaborare e ad attuare un
sistema politico/sociale/economico perfetto, “il paradiso in terra”. Sembra ovvio, ma alcune ideologie pretendono, presunzione
suprema, di essere investite dal divino compito di “perfezionare” l’uomo. I Verdi, gli ambientalisti, i variopinti soggetti che Lei
descrive e la sinistra in genere, sostengono che solo politiche
anticapitalistiche e limitanti la tecnologia risolveranno il problema. Queste pretese investono il campo della libertà della
persona. Per il pensiero giacobino/rivoluzionario/leninista la
libertà, sic! consiste nella realizzazione di un fine collettivo
giusto e indiscutibile, che coincide col Bene e con la Verità. La
politica, “il come fare”, diviene onnipotente, assoluta, assurge al
ruolo di categoria perfetta e, come tale, non tollera opposizione. La
prassi rivoluzionaria è intesa come metodo per cambiare l’uomo; i suoi
costi, di qualsiasi tipo ed entità, sono legittimati dal fine. E così, come nota Bertrand Russell, una volta raggiunto il
Bene e la Verità, il genere umano può anche chiudere bottega. Questo, pur con implicazioni diverse, è un tratto comune di
tutti i totalitarismi. Il pensiero liberale, invece, accetta l’uomo con tutte le
sue imperfezioni e identifica la libertà nell’assenza di coercizione,
non escludendo, beninteso, un sistema di regole, di leggi e di controlli,
sistema, invocato, direi, dalla stessa imperfezione umana. Per il
liberalismo, la politica, è vissuta come una categoria imperfetta: come
gli uomini che la fanno. L’aver presente quest’imperfezione e la
necessità di costanti, continui, tempestivi ed efficaci aggiustamenti è,
nello stesso tempo, la sua grande forza e la sua immane fatica. L’alleanza è di pertinenza dei sistemi liberali. L’immane fatica, necessaria per la sua attuazione, sia il
suo orgoglioso stimolo. Da notare: la sacrosanta crociata iniziale dei Verdi,
legittimata dalla miopia politica e culturale del mondo industriale
occidentale poté, in ogni modo, sorgere e svilupparsi nel tanto odiato
occidente capitalistico. I disastri “ecologici”, causati dall’economia
collettivistica, non soggetta, come recita il dogma, alle nefande pulsioni
degli interessi del capitale, sono stati, anche per una maggiore
arretratezza tecnologica, più ingenti e permanenti di quelli prodottisi
in occidente. E tutti zitti. Assioma: non è corretto indicare nel capitalismo, come
sistema, il solo responsabile dei danni ambientali. Ovviamente le caratteristiche fondamentaliste, dogmatiche e
conseguentemente deboli sul piano scientifico, sono più pronunciate nei
nostri Verdi, figliocci complessati di una sinistra, che, come scrive
giustamente Paolo Guzzanti, è quanto di peggio possa esistere a sinistra.
Il che è tutto dire. Io sarò maligno, ma se il capitale segue solo ai suoi
interessi, mi viene da ridere a pensare che la Sig.ra Francescato e
compagnia, non facciano altrettanto. Io do l’appoggio a te, tu dai un
ministero a me. Cordiali saluti
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Caro Sig.Franceschi Leggo sul sito del Prof.Pelanda, il Suo contributo al dibattito auspicato dall’articolo “Il progresso alleato della giusta ecologia”. Lei suscita interessanti argomenti cui vorrei aggiungere, su alcuni punti, il mio parere. 1) ..Concetti d’ecologia scientifica chi ha scritto e sostenuto che una qualsivoglia affermazione, per essere definita scientifica, debba essere accettata dagli scienziati? Gli “scienziati” stessi, naturalmente. Nell’accezione generale è scientifico/a tutto ciò che, nei limiti propri delle capacità d’indagine e delle tecnologie del suo tempo, soddisfa i requisiti del metodo sperimentale. La “verità scientifica”, da Galileo in poi, non può più rivendicare l’attributo della definitività e dell’immutabilità. L’ecologia è una scienza “giovane”, con implicazioni che si prestano a strumentalizzazioni politiche, perciò occorre attenzione a non cadere nella trappola, costruita da noi stessi, che pretende di unire indissolubilmente al problema scientifico in se il suo contenuto morale. Platone sosteneva la capacità, del sapere, di ordinare non solo l’essere ma anche “il dover essere”, vale a dire la morale. Kant riteneva che la legge morale, il “tu devi”, che è presente in ogni uomo, sarebbe riuscita a governare lo sviluppo della scienza e dell’industrializzazione. A proposito si sono sentite tante tesi; Fichte, Comte, J.Dewey, Russel, Husserl, Adorno e altri danno primaria importanza, mi si permetta la semplificazione, all’aspetto filosofico/culturale del problema suggerendo un ricupero in tal senso. Marx, invece, sostiene che l’industrialismo é una necessità ineludibile, ma, tuttavia, per annullarne gli effetti disumani, deve essere posto sotto il completo controllo politico. Politico di chi? Del Partito naturalmente. I famosi “piani quinquennali” costituiscono, infatti, dottrina di come si possa, in un colpo solo, abolire “l’essere” e “il dover essere”. Punti fermi “panta rei”: La storia ha insegnato quanto giusto sia l’originale pensiero d’Eraclito. Malthus non “aveva” torto. Non possedendo, come tutti i mortali, capacità divinatorie, costruiva un’ipotesi in conformità a quello che osservava, che era noto al suo tempo e deduceva alcune conseguenze. Niente metodo sperimentale. Si può, correttamente, affermare che Malthus, per ora, “ha avuto torto”. Teniamo, poi, realisticamente presente, che la soddisfazione del bisogno alimentare elimina, sì, la fame ma non attenua o razionalizza i desideri, anzi. Sovrappopolazione, concordo con Lei, è un termine sbagliato. Il pericolo è costituito dal fatto che l’incremento demografico e l’aspettativa di vita, non sono configurabili come entità illimitate. Questo nel nostro, attuale, ecosistema; se poi renderemo, o scopriremo compatibili con la nostra struttura organica, altri pianeti della Galassia o dell’Universo, il discorso cambierà. La politica dei governi, Indiano e Cinese, che obbliga, con vari mezzi, il decremento demografico nei rispettivi paesi, come deve essere interpretata? Non credo che la quantità produca, conseguentemente e neppure statisticamente, la qualità. Cordiali saluti Moreno Lupi hihlup@tin.it
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Egregio Professore Ho letto, sul Suo sito, l’introduzione
del suo libro “Lo stato della crescita”. La Sua analisi concernente i
problemi politici/sociali posti dal capitalismo globalizzato è esemplare,
esauriente, illuminante e stimolante. Poiché, tertium non datur, o aveva
ragione Marx quando affermava che il capitalismo non sarebbe stato in
grado di controllare, oltre un certo limite, quelle forze produttive da
lui stesso suscitate e sviluppate, e
come ovvia conseguenza si sarebbe instaurata un’economia mondiale
collettivizzata, oppure il capitalismo riesce a comporre la dicotomia tra
necessità, ormai ineludibile, di crescita continua e una ripartizione
socialmente equa della ricchezza prodotta dal sistema; cioè, direttamente
o indirettamente, da tutti. Credo che il concetto di crescita continua come “conditio sine qua non” sia, per la mente umana, strutturalmente creatasi e sviluppatasi in termini finiti e temporali, arduo. Infatti, nel mondo che noi conosciamo, per tutte le culture presenti, il concetto di continuo, estraendoci dal contesto matematico, è legato indissolubilmente al ritmo vita, morte, morte, vita. Certamente crescita continua vuole significare, in effetti, crescita continua ciclica. Probabilmente, nelle caratteristiche strutturali del nuovo mercato globale sono insiti gli anticorpi, ma comunque sorge categorico, come Lei giustamente sottolinea, l’imperativo che il sistema politico mondiale esca da quello stato di torpore, di attendismo, di timore e di riluttanza a pensare “nuovo” che attualmente manifesta. Ho la sensazione che gli strumenti delle due dottrine guida, quella liberale e quella socialista, comprese le loro varie sottocategorie, non siano adeguati, così come gli abbiamo concepiti, a fronteggiare e a risolvere i problemi emergenti. Seattle lo fa capire. Siamo alla presenza della necessità di un radicale rinnovamento culturale dei sistemi politici/economici che hanno caratterizzato i due secoli passati. E’ quanto Lei, in definitiva, sostiene nel momento che indica la strada del superamento degli ambiti nazionali, europei ed americani per far sorgere un nuovo sistema politico, economico e sociale che paragonerei ad un grande puzzle, che è globalmente unitario, ma in cui ogni singola tessera ha una sua precisa funzione e identità. Un compito a cui bisogna da subito porre mano ma con un respiro immancabilmente generazionale. Non riesco, poi, a vedere l’UE, più o meno allargata, protagonista di questo nuovo corso. La civiltà europea, in senso lato, dovrebbe avere la positiva umiltà di smettere di considerarsi, ancora e per sempre, il centro motore dell’intero universo. Oltre l’America con il suo predominio nell’alta tecnologia e nella ricerca di base, cosa sarà la Cina tra vent’anni? Mi sbaglio, sono eccessivamente pessimista? Io non trovo molto strano che, come Lei scrive, “ ci sia così poco dibattito nella nostra comunità nazionale riguardo alle politiche globali”. Quale politico italiano, con incarichi di partito o di governo, possiede il background culturale e la visione strategica necessaria per pensare oltre il suo “particulare” contingente? Quale seguito, i voti si contano, produrrebbero i dibattiti sulle politiche globali? Rimarrebbero le Università, ma qui, “il tacere è bello”. Cordiali saluti Moreno Lupi
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Egregio Professore
Ho letto il suo articolo “La
micro Italia”. Il panorama del sistema/modello industriale italiano che
Lei, così acutamente ed esaurientemente tratteggia, è, purtroppo, esatto
e lascia intravedere un futuro di, anche se lento, inevitabile declino.
Dal punto di vista dell’economia complessiva, reale e potenziale, siamo
già in serie B, ammesso di essere stati, in alcuni periodi, in serie A. Le cause vengono da molto lontano.
Mi viene da pensare cosa sarebbe oggi l’Italia se, il primo Parlamento
del 1861, avesse avuto il coraggio e la lungimiranza strategica di
approvare i quattro disegni di legge presentati da Marco Minghetti
concernenti il decentramento amministrativo dello stato (poteri agli enti
locali, ordinamento regionale su base elettiva, base elettorale allargata
indipendentemente dal censo e dal grado d’istruzione, sindaci eletti dai
consigli comunali, potere legislativo e autonomia finanziaria alle Regioni
per sanità, lavori pubblici, istruzione superiore, agricoltura). La
“devolution” con 140 anni d’anticipo. Comprendo che, per la cultura
risorgimentale, per gli interessi dinastici e dei vari centri di potere,
createsi con la costituzione dello stato unitario e per l’intrinseca
riluttanza dei nostri governanti, e anche di noi governati, ad affrontare
i problemi strutturali, la proposta apparisse quasi blasfema. Comprendo
che la sua attuazione, considerando anche l’influenza della Chiesa,
antiliberale, antirisorgimentale e antiunitaria (Non expedit), avrebbe
comportato rischi, anche notevoli, per quell’unità appena conquistata,
ma che restava, ed é rimasta, unità di territorio ma non d’intenti.
L’assenza, o l’ininfluenza della cultura liberale nella storia
italiana si paga. Il percorso etico-politico dell’Italia è stato un
susseguirsi di situazioni anomale: trasformismo, fascismo, cattocomunismo,
consociativisnmo, ribaltoni, ecc. Tutto subordinato a meschini interessi
di bottega. Non siamo mai stati, in modo chiaro, netto e consequenziale, o
liberali o socialisti e nemmeno socialdemocratici e nemmeno lib-lab.
L’alternanza esige il confronto tra due culture di governo; quando mai
abbiamo avuto, effettivamente, due culture che potessero, nelle loro
chiare diversità, offrire alternativa ed alternanza? Le due egemoni,
quella cattolica e quella della sinistra comunista, dopo un lungo,
apparentemente burrascoso, fidanzamento si sono sposate. E’ vecchia
disputa se deve essere la politica a guidare l’economia, il governo
della casa, o viceversa. La situazione ottimale sarebbe quella in cui gli
obiettivi fossero comuni e condivisi. La storia c’insegna che questo non
è mai accaduto. Considerata la natura dell’uomo, caratterizzata
indelebilmente dall’istinto di conservazione e dal desiderio del potere,
le due categorie sono naturalmente conflittuali. Solo alla presenza di una
reciproca, convinta legittimazione, con tutto quello che ne deriva, anche
in termini di controllo, si realizza il miglior compromesso e sviluppo
possibile. In Italia, ancora oggi, per il pensiero politico della
sinistra, economia è una parolaccia. Alcune settimane fa, in televisione,
si citava il Vangelo a proposito del cammello, della cruna dell’ago e
del ricco nel regno dei cieli. Questa la sinistra dell’ex DC travasata
nel PPI. Sorge spontaneo, dolce, soave e consolatorio il pensiero
“mandiamoli a casina loro”. Con i “se ed i “ma” non si
mutano i dati di fatto. Dopo la diagnosi, la terapia. Quella da Lei
proposta, con la giustissima osservazione che, la strada delle
privatizzazioni, finora fatte male perché, gratta gratta, non si vuole
rinunciare a posizioni di potere, e della riduzione del carico fiscale,
potrebbe non essere sufficiente, mi trova completamente d’accordo, ma
suscita la domanda dei “criteri di fattibilità”. Mettere in atto i quattro punti da
Lei indicati presuppone uno scenario culturale, politico, economico e
sindacale che non esiste, e che, anche un governo di centrodestra, avrebbe
difficoltà a far emergere. Salvo che: (1) affermazione
elettorale netta, inequivocabile, con ampio margine di governabilità del
centro destra; (2) massima coesione, motivazione e disegno strategico
fortemente condiviso dalla maggioranza, dal governo e dagli elettori; (4)
la calma dei forti, reazioni composte e accompagnate da una tensione
morale che lasciasse perdere la voglia, fine a se stessa, di “togliersi
i sassolini dalle scarpe”; (3) gli uomini dei partiti della coalizione
si mettono la cera negli orecchi per resistere al canto delle sirene,
interne ed esterne. Un governo, ed una maggioranza con
questi “attributi”, e perciò con la potenzialità e la prospettiva di
“durare”, metterebbe in crisi irreversibile quell’enorme, plumbeo,
soffocante grumo di interessi e di rendite di posizioni, pubbliche e
private, che sono l’area di riferimento e di supporto dell’attuale
governo. Succederebbe, allora, che il 90% dei sostenitori,
(intellettuali, imprenditori, sindacalisti, pubblici funzionari,
giornalisti ecc.) dell’attuale maggioranza, comportandosi da buoni
italiani, salirebbero di corsa sul carro, e intonerebbero il canto
“quando la barca va, lasciala andare”, magari ingaggiando Orietta
Berti. Cordiali saluti Moreno Lupi hihlup@tin.it
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