12/02/2002

da Il Sole 24 Ore di lunedì 11 febbraio 2002)

 
Prima di tutto, lo sviluppo

Fatta eccezione per l’indiscusso incremento di gas serra nell’atmosfera, non vi sono, ad oggi, certezze scientifiche definitive in merito al problema del riscaldamento del pianeta. Non sappiamo se la temperatura stia realmente aumentando (le rilevazioni dei satelliti contraddicono le misurazioni terrestri) e non sappiamo se un eventuale incremento della temperatura indotto dall’uomo comporterà costi superiori ai benefici.

Pur in presenza di tale situazione di incertezza, l’adozione del protocollo di Kyoto viene da più parti caldeggiata sulla base del cosiddetto "principio di precauzione".

L’articolo 3.3 della Convenzione sui cambiamenti climatici del 1992 afferma: "… dove vi sia una minaccia di seri o irreversibili danni, la mancanza di una completa certezza scientifica non può essere addotta come ragione per posporre misure tali da minimizzare le cause del cambiamento climatico".

Un’altra formulazione del principio di precauzione si ritrova nella Dichiarazione di Wingspread: "Quando un’attività presenta rischi potenziali per la salute umana o per l’ambiente, è necessario adottare misure precauzionali anche se la relazione causa-effetto non è dimostrata scientificamente".

Tale argomentazione non tiene nella dovuta considerazione il fatto che l’adozione di misure precauzionali può, a sua volta, causare nuove minacce (o aggravare quelle esistenti) per l’uomo e per l’ambiente. E’ quanto, ad esempio, accadrebbe con la ratifica del protocollo di Kyoto.

Il tentativo di ridurre le emissioni di gas serra comporterebbe non solo un rallentamento della crescita economica dei paesi sviluppati, ma avrebbe un impatto negativo anche sui paesi poveri a causa della riduzione del livello delle esportazioni di questi ultimi.

Come noto, la crescita de reddito è correlata al miglioramento delle condizioni di alimentazione e di quelle sanitarie. Al crescere dello sviluppo economico, si riduce il tasso di mortalità infantile e si allunga la speranza di vita. Come illustrato in Figura 1 e 2, i miglioramenti sono più rapidi nella fase iniziale dello sviluppo. Anche un modesto declino (o una mancata crescita) del reddito dei paesi poveri si tradurrebbe quindi in un rilevante impatto negativo. Tale impatto non sarebbe peraltro limitato all’uomo ma si estenderebbe anche all’ambiente.

 

 

Una società più povera ha livelli di produttività agricola più bassi e, quindi, per un dato livello di prodotto, richiede la conversione in terreno agricolo di una quota più elevata di foreste; viene così a ridursi il potenziale effetto di assorbimento di CO2 (carbon sinks) e si induce una maggiore pressione sulla biodiversità (tra il 1980 ed il 1995 la superficie coperta da foreste è diminuita di 190 milioni di ettari nei paesi in via di sviluppo mentre è aumentata di 20 milioni di ettari in quelli sviluppati).

Considerato che, a fronte di tali prevedibili impatti negativi, l’adozione del Protocollo di Kyoto non apporterebbe alcun beneficio ambientale significativo (il differenziale di temperatura al 2100 rispetto al caso di assenza di interventi sarebbe inferiore a 0,1 °C), il principio di precauzione, correttamente inteso, porta ad escludere l’opportunità di una sua implementazione.

La priorità di intervento dovrebbe essere rivolta alla risoluzione di problemi attuali, quali la malnutrizione e la malaria nei paesi poveri, che potrebbero essere aggravati dal cambiamento climatico.

La crescita della popolazione mondiale determinerà nei prossimi decenni un forte aumento della domanda di cibo. Per rispondere a tale domanda e, contemporaneamente, limitare la trasformazione della superficie terrestre coperta da foreste in terreno agricolo, occorrerebbe cercare di incrementare la produttività delle coltivazioni, in particolare in condizioni ambientali non ottimali quali quelle che potrebbero essere causate dal cambiamento climatico: siccità dovuta all’incremento di temperatura ed alla ridistribuzione delle precipitazioni o una più elevata salinità causata dalla maggiore evaporazione e dall’intrusione di acqua marina nelle aree costiere. Le biotecnologie potrebbero avere un ruolo decisivo in tale settore.

Una seconda linea d’azione è quella che mira alla riduzione della vulnerabilità della società alle avversità, qualunque ne sia la causa, grazie alla crescita economica. L’Olanda è in grado di far fronte ai rischi di inondazione (anzi, vive "sott’acqua") ma il Bangladesh no. Un uragano in Florida non provoca vittime (grazie alle loro auto, i cittadini americani si possono spostare in poche ore di centinaia di chilometri), in Nicaragua sì. Un terremoto in Turchia provoca migliaia di morti, in Giappone no.

Tali politiche d’intervento, accrescimento della adattabilità e riduzione della vulnerabilità alle condizioni climatiche avverse, determinerebbero un incremento della soglia oltre la quale la concentrazione dei gas serra potrebbe diventare pericolosa e sarebbero quindi congruenti con l’obiettivo della Convenzione sui cambiamenti climatici e del protocollo di Kyoto.

francesco.ramella@libero.it