15/04/2004

Stim.mo Prof. Pelanda,

 
approfitto brevemente della Sua disponibilità "informatica", come mi è accaduto un paio d'anni fa, per porre l'accento su una situazione che sto vivendo da qualche anno, in ambito lavorativo. Peraltro, l'argomento esulerebbe un pò da ciò di cui Lei si occupa nei suoi lavori, nelle sue pubblicazioni, tuttavia l'esperienza personale che segue è farcita di tutto ciò io definisco "mala-gestione" e che talvolta costituisce motivo o spunto di riflessione sull'andamento (o sull'andatura) di alcune realtà economiche del nostro Bel Paese. Circa nove anni fa sono entrato a far parte di un'organizzazione sindacale datoriale, dopo aver superato un vero e proprio "concorso": prova scritta di sei ore, preceduta dall'invio di una tesina di carattere generale sul settore economico nel quale l'organizzazione sindacale è impegnata; successiva prova orale, dinanzi ai componenti della giunta esecutiva, con tanto di Presidente e direttore. Ero l'unico partecipante a provenire da una provincia vicina (e più affollata). Così iniziai ad occuparmi di "categorie", intese come le diverse attività economiche che, messe tutte insieme, costituiscono uno dei grandi comparti economici del tessuto imprenditoriale nazionale (ad es. industria, commercio, ecc.). L'organizzazione provinciale era, ed è, "abitata" da una cinquantina di dipendenti, tra cui un direttore e due quadri (io sarei uno di quei due quadri), che si occupano di consulenza a 300° (non proprio 360°). L'impatto con i miei colleghi è stato...bè, ancora oggi non riesco a spiegarmelo. Il fatto è che la mia "diversità", che consiste puramente e semplicemente nella mia appartenenza ad una provincia diversa, è sempre stata un problema...per i miei colleghi, comunque. Questo aspetto, però, passa in secondo piano rispetto al seguente: ad eccezione dello scrivente e di una dozzina di altri soggetti, il resto del personale (direttore compreso) sono entrati a far parte dell'organizzazione grazie a pedate, manate, ecc. ecc. Così accadde che, quando mi trovai a dover dare disposizioni operative a qualche mio collaboratore, nel giro di pochi minuti ero io a fare le cose al posto loro...con ovvia perdita di tempo (e denaro, quello degli associati all'organizzazione stessa!). Sono trascorsi alcuni anni, ma la situazione non è cambiata, anzi, è decisamente peggiorata...denaro sprecato in risorse umane piuttosto impreparate, necessariamente "da assumere". Di recente, il direttore, scuola dell'obbligo, ex-segretario di sindacato, ex-segretario di partito, non ex-consigliere di amministrazione di una cassa di risparmio, non ex-amministratore delegato di una società di servizi (di emanazione associativa), decide di andare in pensione (solo come direttore, ovviamente). Chissà che concorso (penso io)! I candidati verranno sottoposti sicuramente ad un paio di prove scritte, più altrettante prove orali ed un test attitudinale per valutare la predisposizione al comando, la capacità di gestione-soluzione dei problemi. Niente di tutto questo, niente di niente...solo un nome già noto, un luogo di nascita a garanzia della denominazione di origine e, soprattutto, l'essere "dei loro". Il direttore ha convinto tutti..."è lui il mio successore". Così va il (bel) mondo! Ed ora debbo interloquire con uno che, anzichè valutarmi per quel che so, si chiede "ma come fa un torinese a trovarsi qui?"...perchè la regola è lui, o quelli come lui. Ed io, o quelli come me....che cosa siamo?
 
 
Cordialità e stima
 
Massimo  Z.