Stim.mo Prof. Pelanda,
approfitto brevemente della Sua
disponibilità "informatica", come mi è accaduto un
paio d'anni fa, per porre l'accento su una situazione che sto vivendo
da qualche anno, in ambito lavorativo. Peraltro, l'argomento
esulerebbe un pò da ciò di cui Lei si occupa nei suoi lavori, nelle
sue pubblicazioni, tuttavia l'esperienza personale che segue è
farcita di tutto ciò io definisco "mala-gestione" e
che talvolta costituisce motivo o spunto di riflessione sull'andamento
(o sull'andatura) di alcune realtà economiche del nostro Bel
Paese. Circa nove anni fa sono entrato a far parte di
un'organizzazione sindacale datoriale, dopo aver superato un vero e
proprio "concorso": prova scritta di sei ore, preceduta
dall'invio di una tesina di carattere generale sul settore
economico nel quale l'organizzazione sindacale è impegnata;
successiva prova orale, dinanzi ai componenti della giunta esecutiva,
con tanto di Presidente e direttore. Ero l'unico partecipante a provenire
da una provincia vicina (e più affollata). Così iniziai ad
occuparmi di "categorie", intese come le diverse attività
economiche che, messe tutte insieme, costituiscono uno dei grandi
comparti economici del tessuto imprenditoriale nazionale (ad es.
industria, commercio, ecc.). L'organizzazione provinciale era, ed è,
"abitata" da una cinquantina di dipendenti, tra cui un
direttore e due quadri (io sarei uno di quei due quadri), che si
occupano di consulenza a 300° (non proprio 360°). L'impatto con
i miei colleghi è stato...bè, ancora oggi non riesco a
spiegarmelo. Il fatto è che la mia "diversità", che
consiste puramente e semplicemente nella mia appartenenza ad una
provincia diversa, è sempre stata un problema...per i miei colleghi,
comunque. Questo aspetto, però, passa in secondo piano rispetto
al seguente: ad eccezione dello scrivente e di una dozzina di
altri soggetti, il resto del personale (direttore compreso) sono
entrati a far parte dell'organizzazione grazie a pedate, manate, ecc.
ecc. Così accadde che, quando mi trovai a dover dare disposizioni operative
a qualche mio collaboratore, nel giro di pochi minuti ero io a fare le
cose al posto loro...con ovvia perdita di tempo (e denaro, quello degli
associati all'organizzazione stessa!). Sono trascorsi alcuni anni, ma
la situazione non è cambiata, anzi, è decisamente
peggiorata...denaro sprecato in risorse umane piuttosto
impreparate, necessariamente "da assumere". Di recente,
il direttore, scuola dell'obbligo, ex-segretario di sindacato,
ex-segretario di partito, non ex-consigliere di amministrazione di una
cassa di risparmio, non ex-amministratore delegato di una società di
servizi (di emanazione associativa), decide di andare in pensione
(solo come direttore, ovviamente). Chissà che concorso (penso
io)! I candidati verranno sottoposti sicuramente ad un paio
di prove scritte, più altrettante prove orali ed un test attitudinale
per valutare la predisposizione al comando, la capacità di
gestione-soluzione dei problemi. Niente di tutto questo, niente di
niente...solo un nome già noto, un luogo di nascita a
garanzia della denominazione di origine e, soprattutto, l'essere
"dei loro". Il direttore ha convinto tutti..."è lui il
mio successore". Così va il (bel) mondo! Ed ora debbo
interloquire con uno che, anzichè valutarmi per quel che so, si
chiede "ma come fa un torinese a trovarsi qui?"...perchè
la regola è lui, o quelli come lui. Ed io, o quelli come
me....che cosa siamo?
Cordialità e stima
Massimo Z.
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