La questione palestinese merita due tre chiarimenti. Innanzitutto i compagni devono rendersi conto che il loro unilaterale afflato non deriva da sentimenti universali di giustizia ed umanità, ma semplicemente dal fatto che subito dopo il 1947 (fondazione dello stato d’Israele, col consenso di tutti, compresi i russi), col farsi della guerra fredda, i russi “scelsero” i palestinesi e gli americani Israele. Ma sarebbe potuto accadere il contrario, e allora la sinistra per decenni si sarebbe sbracciata con foga “per l’eroico popolo israeliano già vittima dei nazisti”. Da lì comunque, e non altrove, nasce lo storico attaccamento della sinistra italiana e internazionale alla causa palestinese. Ma è roba sofistica, basta il confronto col silenzio quotidiano circa la bestiale tragedia della Corea del Nord (un caso tra tanti), per dimostrare la giustezza di questo ragionamento. Punto
due. C’è qualche poveraccio che scrive sui muri “viva la Palestina
libera e rossa”, non sapendo che la mentalità profonda dei popoli
islamici è fondamentalmente estranea a quello che noi occidentali ed
europei immaginiamo possa essere un sistema di “egualitarismo
socialista”: si tratta invece di culture (assolutamente legittime e da
rispettare) improntate alla forma e al sentimento principesco, elitario
e classista fin nelle midolla. Non s’è mai vista una folla islamica
manifestare per qualcosa di egualitario o di sociale. Questo per dire
che qualora ai palestinesi riuscisse di fare uno stato autonomo e libero
non vi sarebbe ombra di umanesimo socialista. Voglio
insomma ricordare che come sempre le rivoluzioni mangiano i propri figli
più generosi: ricordo benissimo a cavallo tra i ’70 e gli ’80
quanti studenti comunisti iraniani che stavano qui in Italia esultavano
per la rivoluzione di Khomeini: lo scià li imprigionava e torturava, ma
il vecchio li sterminò semplicemente. Ve ne furono che tornarono giù
con entusiasmo: non se n’è saputo più nulla. E
allora sarà bene concludere con la cosa più importante: io sarò
malato, ma vedo un nesso forte tra questa orribile lotta tra israeliani
e palestinesi e la Costantinopoli del 1453. La sua conquista costò agli
islamici innumerevoli sacrifici, perché la città, pur ormai isolata
dal resto del mondo cristiano, era difesa ottimamente. Ma dopo decenni e
cataste di vittime (in senso reale: i fossati davanti alle mura talora
si riempirono di cadaveri sopra i quali altri combattevano meglio), in
quell’anno l’antica capitale cadde. Che successe dopo? Quel che
succederebbe anche adesso se il mondo arabo realizzasse il suo sogno di
buttare a mare Israele: una spinta ulteriore e potentissima al
revanscismo panarabo e islamico. Dopo Costantinopoli per oltre due
secoli il mondo occidentale visse con rischio mortale sopra la testa:
solo innumerevoli altri sacrifici e battaglie “miracolate” (Lepanto
1571, Vienna 1637, Candia 1688) salvarono la baracca. Porto pieno
rispetto per i palestinesi, e le loro aspirazioni: è naturale auspicare
soluzioni eque per tutti, ma fa ridere l’unilateralità. Ed
è curioso che gente come me debba stare qui a ricordare queste verità
storiche; noi gente che non perdiamo occasione di polemizzare con le
false democrazie e le false libertà individuali che affiorano
costantemente nelle nazioni d’occidente e particolarmente in quella
italiana, minata da consorterie e mafiosità varie: ma chi non è cieco
del tutto sa fin troppo bene che l’alternativa alla nostra civiltà
sociale e giuridica, hic et nunc, non sarebbe altro che Safyra o
qualcosa di simile. Non possiamo scordare neanche un minuto che non
gratis in occidente l’individuo, la singola persona, è arrivata dopo
processi lunghissimi e tribolati (e col motore dell’eguaglianza
cristiana) a godere di garanzie e rispetto così alte. I compagni non
s’accorgono che la loro mistica delle masse e della lotta classe,
tradotte in volgare, diventano quella propensione naturale
all’intrupparsi dietro conformismi e superficialità che in
determinati momenti della storia diventano suicidio (del resto il buon
marxista non vede i gli eterni ritorni della storia): a noi, avversari
nella politica interna, tocca difendere anche per loro la prospettiva
d’occidente.
Luigi Fressoia
|
I FILOSOFI DEL SOCIALE Il grande sciopero sull’art. 18 mette in evidenza alcune cose. Innanzitutto che non esiste né mai è esistito il monopolio berlusconiano sull’informazione. E’ vero il contrario: c’è un sostanziale monopolio antigovernativo che impedisce perfino la comprensione delle dispute in campo. Ho interpellato tre scioperanti del mio ufficio, nessuna ha saputo dirmi i tre casi di sospensione dell’art. 18 proposti dal governo. Né costoro sanno che in tutti i paesi d’Europa (per non parlare dell’America) anche per le imprese superiori a 15 dipendenti non esiste alcun obbligo al reintegro ma vige il regime risarcitorio (12 o 18 mensilità). Questo non per dire che bisogna per forza copiare gli altri, ma per sottolineare quanto è falso tirare in ballo perfino “le conquiste dalla rivoluzione francese”. Dimostra quindi che l’immagine di Berlusconi come gran comunicatore, è un’invenzione mediatica comunista: serve a far dimenticare che egli vince per proposta politica, ed a consolarsi farneticando che vincerebbe per rincoglionimento mediatico. Ci dice inoltre, questo scioperone del 16 aprile, che vige ancora intatto il mito delle folle, della piazza, della manifestazione risolutiva. Ma è un mito tautologico, vale solo per chi ci crede, cioè per i compagni e dintorni. Hanno preso 16 milioni di voti un anno fa, cosa volete che possa mai significare che parte cospicua di questi scenda in piazza o incroci le braccia? Già a mezzogiorno del 16 Fini ha dichiarato che il governo non torna indietro: a che dunque è servito? Sono riusciti a scioperare, il 16 aprile, perfino “sulle pensioni”, quando questo è il primo governo che riesce a portare le minime a livelli di decenza. A mio nonno (morto nel 1979 a 87 anni) chiedevo sempre cosa ne pensasse di quella stagione di lotte e “conquiste”; rispondeva sempre no, che gli faceva rabbia l’aumento delle pensioni in percentuale, cioè che mentre lui “godeva” mille lire in più, altri ne godevano 200mila: se fosse vivo, di fronte all’incremento delle sole minime (fino al sospirato milione), avrebbe finalmente esultato. I suoi eredi hanno scioperato! Insomma, passano i secoli ma il nostro amato popolo ancora una volta si dimostra capace del ruolo di bue, disponibile al più penoso raggiro. Guardando più a fondo gli argomenti tirati in ballo, riusciamo a scoprire perfino l’intima filosofia che li regge. Lodevole prendersi a cuore i timori dei dipendenti, ma stona che nessuno pensi ai bisogni delle aziende. Segno evidente che è passata in molti un’idea marxista della società e dell’economia. Molti filosofi del sociale, anche di destra, dovrebbero spiegare come fa un’azienda di cinquanta operai che attraversa un periodo strutturale di surplus di mano d’opera a poter sopravvivere (e magari poi ripartire bene, perfino riassumendo) senza alleggerirsi di cinque o dieci unità. Come
in tante altre questioni (cos’è il lavoro, il denaro, il profitto;
come si forma la ricchezza nazionale e individuale, cos’è
un’impresa, un investimento…) campeggia un’impressionante
ignoranza. Appunto surrogata dai miti marxisti, quelli che
nell’impresa vedono solo lo sfruttamento del padrone sull’operaio,
giammai uno sforzo corale per sopravvivere tutti. Vedono il profitto
come un furto e non già come l’esito naturale del lavoro, ovvero la
necessità oggettiva, irrinunciabile e improcrastinabile che i ricavi
superino le uscite. Si ignora programmaticamente che quanto più è
agguerrita la concorrenza internazionale (dicesi globalizzazione), tanto
più un’azienda deve rimanere competitiva, pena la sua scomparsa. Se poi si esce dal terreno economico per fare considerazioni un po’ più filosofiche, la questione scade addirittura nel ridicolo. Ma come, esiste da trent’anni il divorzio, cioè io potrei domattina lasciare moglie e figli senza che alcuno abbia a ridire qualcosa epperò sono obbligato a tenermi un dipendente per tutta la vita? Che dicono i religiosi? Il girotondone del 16 ci dice allora che il Polo si deve impegnare con forza su qualcosa di più che il semplice riequilibrio dell’informazione: deve prendere atto di avere a che fare con emozioni profonde, ove più della logica pesa la superstizione, il fatalismo, la bigotteria di luoghi comuni, propri del socialcomunismo però innestatisi troppo bene su taluni vizi nazionali. C’è
bisogno di una vasta azione culturale, di cui l’informazione è parte.
Facili e stupidi sillogismi devono essere ridicolizzati e smantellati:
le cose pubbliche non coincidono affatto con l’interesse pubblico,
ricchezza e solidarietà non sono antinomie bensì vanno insieme, senza
responsabilità e iniziativa privata non c’è economia… Dimostrando
che l’unica equità e solidarietà sociale possibile è nel surplus
che deriva da un’economia competitiva, emergerà alla chiarezza anche
del popolo di sinistra che il sindacato si pone fuori da questa
prospettiva, realista e popolare. E dunque il 16 aprile ci dice cose
importanti anche sulla sinistra, la sua crisi ed evoluzione. L’attuale
tensione politica conferisce due vantaggi inestimabili al polo: la
sinistra ricompattandosi su Cofferati si allontana da ogni credibile
ipotesi di riconquista della maggioranza elettorale; nel contempo il
cavaliere conferma la prospettiva liberale, per la quale è stato
votato. Con
due corollari importanti. Anche Cofferati in verità ha tutto da perdere
nel tempo lungo, dal clima di tensione. Quando lui dice che non mollerà
fino alla vittoria, non fa che aizzare un clima nel quale gli
inevitabili atti di violenza (già iniziati, da Genova a Biagi) si
legheranno sempre più -nella opinione pubblica- alla sinistra politica
e sindacale, nonostante tutte le giaculatorie di rito sul “contributo
essenziale del sindacato contro il terrorismo”. Più
precisamente emergerà nitida la verità anche su questo punto
“storico”: il sindacato e i partiti di sinistra sono stati davvero
un baluardo contro il terrorismo, ma perché a qual tempo essi avevano
buone prospettive davanti. Però appena la prospettiva si fa scura, come
adesso, cioè il potere si allontana sempre più e si sbriciola giorno
per giorno, la sinistra anche storica dimostra insofferenza per i riti
della “vuota e formale” democrazia. Inventa parole come “telecrazia”. Il
secondo è che il governo non può lasciarsi intruppare nella mistica
del dialogo: è sempre doveroso saper ascoltare, ma guai ad offuscare la
capacità innovativa: questa storia dell’art. 18 è già andata troppo
per le lunghe. Il tempo che passa inutilmente dà l’aire alla barba di
Cofferati.
Luigi Fressoia
|