12/02/2002

La questione palestinese merita due tre chiarimenti. Innanzitutto i compagni devono rendersi conto che il loro unilaterale afflato non deriva da sentimenti universali di giustizia ed umanità, ma semplicemente dal fatto che subito dopo il 1947 (fondazione dello stato d’Israele, col consenso di tutti, compresi i russi), col farsi della guerra fredda, i russi “scelsero” i palestinesi e gli americani Israele. Ma sarebbe potuto accadere il contrario, e allora la sinistra per decenni si sarebbe sbracciata con foga “per l’eroico popolo israeliano già vittima dei nazisti”. Da lì comunque, e non altrove, nasce lo storico attaccamento della sinistra italiana e internazionale alla causa palestinese. Ma è roba sofistica, basta il confronto col silenzio quotidiano circa la bestiale tragedia della Corea del Nord (un caso tra tanti), per dimostrare la giustezza di questo ragionamento.

Punto due. C’è qualche poveraccio che scrive sui muri “viva la Palestina libera e rossa”, non sapendo che la mentalità profonda dei popoli islamici è fondamentalmente estranea a quello che noi occidentali ed europei immaginiamo possa essere un sistema di “egualitarismo socialista”: si tratta invece di culture (assolutamente legittime e da rispettare) improntate alla forma e al sentimento principesco, elitario e classista fin nelle midolla. Non s’è mai vista una folla islamica manifestare per qualcosa di egualitario o di sociale. Questo per dire che qualora ai palestinesi riuscisse di fare uno stato autonomo e libero non vi sarebbe ombra di umanesimo socialista.

Voglio insomma ricordare che come sempre le rivoluzioni mangiano i propri figli più generosi: ricordo benissimo a cavallo tra i ’70 e gli ’80 quanti studenti comunisti iraniani che stavano qui in Italia esultavano per la rivoluzione di Khomeini: lo scià li imprigionava e torturava, ma il vecchio li sterminò semplicemente. Ve ne furono che tornarono giù con entusiasmo: non se n’è saputo più nulla.

E allora sarà bene concludere con la cosa più importante: io sarò malato, ma vedo un nesso forte tra questa orribile lotta tra israeliani e palestinesi e la Costantinopoli del 1453. La sua conquista costò agli islamici innumerevoli sacrifici, perché la città, pur ormai isolata dal resto del mondo cristiano, era difesa ottimamente. Ma dopo decenni e cataste di vittime (in senso reale: i fossati davanti alle mura talora si riempirono di cadaveri sopra i quali altri combattevano meglio), in quell’anno l’antica capitale cadde. Che successe dopo? Quel che succederebbe anche adesso se il mondo arabo realizzasse il suo sogno di buttare a mare Israele: una spinta ulteriore e potentissima al revanscismo panarabo e islamico. Dopo Costantinopoli per oltre due secoli il mondo occidentale visse con rischio mortale sopra la testa: solo innumerevoli altri sacrifici e battaglie “miracolate” (Lepanto 1571, Vienna 1637, Candia 1688) salvarono la baracca. Porto pieno rispetto per i palestinesi, e le loro aspirazioni: è naturale auspicare soluzioni eque per tutti, ma fa ridere l’unilateralità.

Ed è curioso che gente come me debba stare qui a ricordare queste verità storiche; noi gente che non perdiamo occasione di polemizzare con le false democrazie e le false libertà individuali che affiorano costantemente nelle nazioni d’occidente e particolarmente in quella italiana, minata da consorterie e mafiosità varie: ma chi non è cieco del tutto sa fin troppo bene che l’alternativa alla nostra civiltà sociale e giuridica, hic et nunc, non sarebbe altro che Safyra o qualcosa di simile. Non possiamo scordare neanche un minuto che non gratis in occidente l’individuo, la singola persona, è arrivata dopo processi lunghissimi e tribolati (e col motore dell’eguaglianza cristiana) a godere di garanzie e rispetto così alte. I compagni non s’accorgono che la loro mistica delle masse e della lotta classe, tradotte in volgare, diventano quella propensione naturale all’intrupparsi dietro conformismi e superficialità che in determinati momenti della storia diventano suicidio (del resto il buon marxista non vede i gli eterni ritorni della storia): a noi, avversari nella politica interna, tocca difendere anche per loro la prospettiva d’occidente.

                                                                           Luigi Fressoia

 

20/04/2002

          I FILOSOFI DEL SOCIALE

 

Il grande sciopero sull’art. 18 mette in evidenza alcune cose. Innanzitutto che non esiste né mai è esistito il monopolio berlusconiano sull’informazione. E’ vero il contrario: c’è un sostanziale monopolio antigovernativo che impedisce perfino la comprensione delle dispute in campo. Ho interpellato tre scioperanti del mio ufficio, nessuna ha saputo dirmi i tre casi di sospensione dell’art. 18 proposti dal governo.

Né costoro sanno che in tutti i paesi d’Europa (per non parlare dell’America) anche per le imprese superiori a 15 dipendenti non esiste alcun obbligo al reintegro ma vige il regime risarcitorio (12 o 18 mensilità). Questo non per dire che bisogna per forza copiare gli altri, ma per sottolineare quanto è falso tirare in ballo perfino “le conquiste dalla rivoluzione francese”.

Dimostra quindi che l’immagine di Berlusconi come gran comunicatore, è un’invenzione mediatica comunista: serve a far dimenticare che egli vince per proposta politica, ed a consolarsi farneticando che vincerebbe per rincoglionimento mediatico.

Ci dice inoltre, questo scioperone del 16 aprile, che vige ancora intatto il mito delle folle, della piazza, della manifestazione risolutiva. Ma è un mito tautologico, vale solo per chi ci crede, cioè per i compagni e dintorni. Hanno preso 16 milioni di voti un anno fa, cosa volete che possa mai significare che parte cospicua di questi scenda in piazza o incroci le braccia? Già a mezzogiorno del 16 Fini ha dichiarato che il governo non torna indietro: a che dunque è servito?

Sono riusciti a scioperare, il 16 aprile, perfino “sulle pensioni”, quando questo è il primo governo che riesce a portare le minime a livelli di decenza. A mio nonno (morto nel 1979 a 87 anni) chiedevo sempre cosa ne pensasse di quella stagione di lotte e “conquiste”; rispondeva sempre no, che gli faceva rabbia l’aumento delle pensioni in percentuale, cioè che mentre lui “godeva” mille lire in più, altri ne godevano 200mila: se fosse vivo, di fronte all’incremento delle sole minime (fino al sospirato milione), avrebbe finalmente esultato. I suoi eredi hanno scioperato!

Insomma, passano i secoli ma il nostro amato popolo ancora una volta si dimostra  capace del ruolo di bue, disponibile al più penoso raggiro.

Guardando più a fondo gli argomenti tirati in ballo, riusciamo a scoprire perfino l’intima filosofia che li regge.

Lodevole prendersi a cuore i timori dei dipendenti, ma stona che nessuno pensi ai bisogni delle aziende. Segno evidente che è passata in molti un’idea marxista della società e dell’economia. Molti filosofi del sociale, anche di destra, dovrebbero spiegare come fa un’azienda di cinquanta operai che attraversa un periodo strutturale di surplus di mano d’opera a poter sopravvivere (e magari poi ripartire bene, perfino riassumendo) senza alleggerirsi di cinque o dieci unità.

Come in tante altre questioni (cos’è il lavoro, il denaro, il profitto; come si forma la ricchezza nazionale e individuale, cos’è un’impresa, un investimento…) campeggia un’impressionante ignoranza. Appunto surrogata dai miti marxisti, quelli che nell’impresa vedono solo lo sfruttamento del padrone sull’operaio, giammai uno sforzo corale per sopravvivere tutti. Vedono il profitto come un furto e non già come l’esito naturale del lavoro, ovvero la necessità oggettiva, irrinunciabile e improcrastinabile che i ricavi superino le uscite. Si ignora programmaticamente che quanto più è agguerrita la concorrenza internazionale (dicesi globalizzazione), tanto più un’azienda deve rimanere competitiva, pena la sua scomparsa.

Se poi si esce dal terreno economico per fare considerazioni un po’ più filosofiche, la questione scade addirittura nel ridicolo. Ma come, esiste da trent’anni il divorzio, cioè io potrei domattina lasciare moglie e figli senza che alcuno abbia a ridire qualcosa epperò sono obbligato a tenermi un dipendente per tutta la vita?

Che dicono i religiosi?

Il girotondone del 16 ci dice allora che il Polo si deve impegnare con forza su qualcosa di più che il semplice riequilibrio dell’informazione: deve prendere atto di avere a che fare con emozioni profonde, ove più della logica pesa la superstizione, il fatalismo, la bigotteria di luoghi comuni, propri del socialcomunismo però innestatisi troppo bene su taluni vizi nazionali.

C’è bisogno di una vasta azione culturale, di cui l’informazione è parte. Facili e stupidi sillogismi devono essere ridicolizzati e smantellati: le cose pubbliche non coincidono affatto con l’interesse pubblico, ricchezza e solidarietà non sono antinomie bensì vanno insieme, senza responsabilità e iniziativa privata non c’è economia…

Dimostrando che l’unica equità e solidarietà sociale possibile è nel surplus che deriva da un’economia competitiva, emergerà alla chiarezza anche del popolo di sinistra che il sindacato si pone fuori da questa prospettiva, realista e popolare. E dunque il 16 aprile ci dice cose importanti anche sulla sinistra, la sua crisi ed evoluzione.

L’attuale tensione politica conferisce due vantaggi inestimabili al polo: la sinistra ricompattandosi su Cofferati si allontana da ogni credibile ipotesi di riconquista della maggioranza elettorale; nel contempo il cavaliere conferma la prospettiva liberale, per la quale è stato votato.

Con due corollari importanti. Anche Cofferati in verità ha tutto da perdere nel tempo lungo, dal clima di tensione. Quando lui dice che non mollerà fino alla vittoria, non fa che aizzare un clima nel quale gli inevitabili atti di violenza (già iniziati, da Genova a Biagi) si legheranno sempre più -nella opinione pubblica- alla sinistra politica e sindacale, nonostante tutte le giaculatorie di rito sul “contributo essenziale del sindacato contro il terrorismo”.

Più precisamente emergerà nitida la verità anche su questo punto “storico”: il sindacato e i partiti di sinistra sono stati davvero un baluardo contro il terrorismo, ma perché a qual tempo essi avevano buone prospettive davanti. Però appena la prospettiva si fa scura, come adesso, cioè il potere si allontana sempre più e si sbriciola giorno per giorno, la sinistra anche storica dimostra insofferenza per i riti della “vuota e formale” democrazia. Inventa parole come “telecrazia”.

Il secondo è che il governo non può lasciarsi intruppare nella mistica del dialogo: è sempre doveroso saper ascoltare, ma guai ad offuscare la capacità innovativa: questa storia dell’art. 18 è già andata troppo per le lunghe. Il tempo che passa inutilmente dà l’aire alla barba di Cofferati.

                                                                                     Luigi Fressoia