29/04/2001

 

I dilemmi della sinistra italiana

La cause del riformismo fallito: tra terza via socialismo ed eredità comunista.

 

La galassia della sinistra italiana è una delle categorie concettuali di più difficile definizione. Convivono ex comunisti, comunisti pentiti, neo comunisti, socialisti, gruppi che hanno costituito buona parte delle classi dirigenti degli ultimi governi. C’era un grande interesse di vedere alla prova del governo chi per decenni aveva combattuto, anche con veemenza, i governi a maggioranza democristiana, accusati (oltre che di tante altre nefandezze) di immobilismo e di scarsa propensione innovatrice.

Crollati i regimi comunisti e conquistato il governo, la sinistra italiana si è trovata in mezzo al guado: perseguire una politica condita in salsa comunista che, pur non contemplando la rivolta sociale, presupponesse uno scontro a somma zero fra la classe operaia e tutto il resto (insomma una politica classista); oppure perseguire una politica ispirata ad un sano riformismo di stampo socialista (Gobetti e la sua rivoluzione liberale) sulla scia delle più navigate socialdemocrazie europee (Germania in testa). Ebbene, la sinistra di governo italiana ha scontentato tutti. Non ha scelto la prima opzione, troppo filo comunista, relegandola nelle sole mani di Bertinotti, non ha scelto la seconda, troppo anticomunista e antisindacale, relegandola nelle sole mani di qualche liberal. Il risultato? E’ sotto gli occhi di tutti. Ovvero una politica connotata proprio di quell’immobilismo, che la sinistra stessa aveva osteggiato dei banchi dell’opposizione. Una politica di basso profilo, di ordinaria amministrazione, di pura gestione, di scarso slancio riformista. Basti l’esempio dell’ultima finanziaria, dove si è optato per una più facile (e dai maggiori ritorni elettorali) distribuzione a pioggia del surplus finanziario, invece di ben più incisivi interventi di carattere strutturale (su pensioni, sanità, lavoro, ritorno dal debito, privatizzazioni) al fine di facilitare e consolidare la crescita economica, quindi la competitività, precondizione di una politica riformatrice. L’economista Michele Salvati (senatore dei Ds) sulla rivista il Mulino (4/2000) non usa mezzi termini: “non è stato fatto alcuno sforzo per trasformare dall’interno i Ds in un partito di riformismo liberal-socialista, e tutti quanti – Ds, partiti di centro e comunisti – si sono accontentati di tirare avanti come una normale coalizione da prima repubblica (quattro governi e tre presidenti del Consiglio in una legislatura), così accentuando lo svantaggio strutturale nei confronti del centro-destra”. I Democratici di Sinistra sono passati con troppa disinvoltura, disorientando i loro elettori (e perdendo consensi), dall’ambizione di diventare la forza coagulante di un grande Partito Democratico a quella di trasformarsi in una grande forza socialdemocratica (la Cosa 2 di D’Alema,  non altro che, scrive Salvati, “un accordo romano di cooptazione di vertici”), passando attraverso le suggestioni di una indefinita terza via anglo-tedesca (sulla scia di dell’asse Blair-Schroder, incentrata sul valore dell’imprenditorialità) e francese (elaborata da Jospin in materia di riduzione delle diseguaglianze, partendo dall’assunto che i “lavoratori e i conflitti sindacali continuano ad esistere”). La sinistra italiana - e in primis il suo principale partito (i Ds) - non è approdata da nessuna parte rimanendo radicata in gabbie concettuali inadeguate ai nuovi scenari socio-economici. Per questo ancora oggi la CGIL è il principale referente dell’attuale classe dirigente dei Ds, la quale è stata incapace di valorizzare una realtà dinamica emergente che sta destrutturando le tradizionali gerarchie sociali (si pensi al numero crescente di lavoratori atipici al di fuori delle grazie sindacali). Insomma, ha perso la sfida del riformismo.

 Simone Rosti