| 
 I
          dilemmi della sinistra italianaLa cause del
          riformismo fallito: tra terza via socialismo ed eredità comunista.
             La
          galassia della sinistra italiana è una delle categorie concettuali di
          più difficile definizione. Convivono ex comunisti, comunisti pentiti,
          neo comunisti, socialisti, gruppi che hanno costituito buona parte
          delle classi dirigenti degli ultimi governi. C’era un grande
          interesse di vedere alla prova del governo chi per decenni aveva
          combattuto, anche con veemenza, i governi a maggioranza democristiana,
          accusati (oltre che di tante altre nefandezze) di immobilismo e di
          scarsa propensione innovatrice.  Crollati
          i regimi comunisti e conquistato il governo, la sinistra italiana si
          è trovata in mezzo al guado: perseguire una politica condita in salsa
          comunista che, pur non contemplando la rivolta sociale, presupponesse
          uno scontro a somma zero fra la classe operaia e tutto il resto
          (insomma una politica classista); oppure perseguire una politica
          ispirata ad un sano riformismo di stampo socialista (Gobetti e la sua
          rivoluzione liberale) sulla scia delle più navigate socialdemocrazie
          europee (Germania in testa). Ebbene, la sinistra di governo italiana
          ha scontentato tutti. Non ha scelto la prima opzione, troppo filo
          comunista, relegandola nelle sole mani di Bertinotti, non ha scelto la
          seconda, troppo anticomunista e antisindacale, relegandola nelle sole
          mani di qualche liberal. Il risultato? E’ sotto gli occhi di tutti.
          Ovvero una politica connotata proprio di quell’immobilismo, che la
          sinistra stessa aveva osteggiato dei banchi dell’opposizione. Una
          politica di basso profilo, di ordinaria amministrazione, di pura
          gestione, di scarso slancio riformista. Basti l’esempio dell’ultima
          finanziaria, dove si è optato per una più facile (e dai maggiori
          ritorni elettorali) distribuzione a pioggia del surplus finanziario,
          invece di ben più incisivi interventi di carattere strutturale (su
          pensioni, sanità, lavoro, ritorno dal debito, privatizzazioni) al
          fine di facilitare e consolidare la crescita economica, quindi la
          competitività, precondizione di una politica riformatrice. L’economista
          Michele Salvati (senatore dei Ds) sulla rivista il Mulino
          (4/2000) non usa mezzi termini: “non è stato fatto alcuno sforzo
          per trasformare dall’interno i Ds in un partito di riformismo
          liberal-socialista, e tutti quanti – Ds, partiti di centro e
          comunisti – si sono accontentati di tirare avanti come una normale
          coalizione da prima repubblica (quattro governi e tre presidenti del
          Consiglio in una legislatura), così accentuando lo svantaggio
          strutturale nei confronti del centro-destra”. I Democratici di
          Sinistra sono passati con troppa disinvoltura, disorientando i loro
          elettori (e perdendo consensi), dall’ambizione di diventare la forza
          coagulante di un grande Partito Democratico a quella di trasformarsi
          in una grande forza socialdemocratica (la Cosa 2 di D’Alema, 
          non altro che, scrive Salvati, “un accordo romano di
          cooptazione di vertici”), passando attraverso le suggestioni di una
          indefinita terza via anglo-tedesca (sulla scia di dell’asse
          Blair-Schroder, incentrata sul valore dell’imprenditorialità) e
          francese (elaborata da Jospin in materia di riduzione delle
          diseguaglianze, partendo dall’assunto che i “lavoratori e i
          conflitti sindacali continuano ad esistere”). La sinistra italiana -
          e in primis il suo principale partito (i Ds) - non è approdata da
          nessuna parte rimanendo radicata in gabbie concettuali inadeguate ai
          nuovi scenari socio-economici. Per questo ancora oggi la CGIL è il
          principale referente dell’attuale classe dirigente dei Ds, la quale
          è stata incapace di valorizzare una realtà dinamica emergente che
          sta destrutturando le tradizionali gerarchie sociali (si pensi al
          numero crescente di lavoratori atipici al di fuori delle grazie
          sindacali). Insomma, ha perso la sfida del riformismo.   Simone Rosti  
 |