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 Le deviazioni dalla razionalità della teoria classica 
          L'esperimento sull'"EFFETTO
          DOTE" mostra che l'attaccamento alle cose che possediamo altera
          la percezione del loro valore
         
           Non è sorprendente che le decisioni
          degli uomini comuni che abitano il mondo che ci circonda devino in
          vari modi dalle decisioni degli "eroici" uomini economici
          che popolano il mondo ideale della teoria della scelta razionale.
          Pochi di noi sarebbero disposti a ritenere che i propri simili siano
          perfettamente razionali. Siamo consapevoli di essere fallibili, di
          avere limitate capacità di calcolo, limitato accesso alle
          informazioni, poca memoria e anche questa poco affidabile. Nella vita
          di tutti i giorni amiamo, soffriamo, proviamo gioia, paura, rabbia, e
          altri sentimenti che condizionano le nostre scelte in modo poco
          "calcolato". Non che gli economisti ne siano meno
          consapevoli, tuttavia hanno a lungo ritenuto che le deviazioni dal
          comportamento razionale fossero trascurabili per spiegare il
          comportamento aggregato degli attori economici ed il funzionamento dei
          mercati.
         
           La "Behavioral Economics"
          (Camerer, Loewenstein, Rabin e coll. Princeton University, 2004) mette
          in discussione questa convinzione di fondo. Venti anni di ricerche
          sperimentali ed indagini sul campo documentano che le violazioni della
          razionalità sono abbondanti, diffuse e sistematiche; e, come tali,
          esercitano un peso considerevole sul comportamento economico. Si
          prenda un concetto cardine dell'economia come quello di PREFERENZA. In
          riferimento alle preferenze la teoria della scelta razionale fa alcune
          assunzioni che sono intuitivamente plausibili, matematicamente
          trattabili ed empiricamente controllabili. Una di queste è che le
          preferenze siano "invarianti" rispetto alla transitoria
          posizione patrimoniale dell'individuo.
         
           Con un semplice esperimento, Dick
          Thaler ha mostrato che, per quanto plausibile, questa assunzione non
          è sempre valida. Molti di noi, infatti, risentono dell'"EFFETTO
          DOTE": richiediamo cioè per un bene in nostro possesso più di
          quanto noi stessi siamo disposti a pagare per averlo.
         
           Ecco l'ESPERIMENTO:
         
           Una classe di studenti di economia
          viene divisa a caso in due gruppi. Ad un gruppo viene regalata una
          tazza, una di quelle tipiche tazzone da caffè americano con il logo
          dell'università ben stampato. Fra i due gruppi viene bandita un'asta
          allo scopo di verificare quanti dollari chiedono i possessori di tazza
          per separarsi dall'oggetto che hanno ottenuto in dote solo pochi
          minuti prima. E quanti dollari sono disposti a pagare gli studenti
          senza tazza per averne una.
         
           RISULTATI: i possessori di tazza non
          sono disposti a vendere mediamente sotto i 5,25 dollari. Gli studenti
          senza tazza non sono disposti a comperare mediamente sopra i 2,75
          dollari. Il solo fatto di essere divenuti proprietari di un oggetto
          (anche piuttosto insignificante) è sufficiente perchè quell'oggetto
          venga istantaneamente valutato da chi lo possiede quasi il doppio
          rispetto a chi non ce l'ha.
         
           L'effetto dote è connesso ad un
          altro fenomeno particolarmente pervasivo: l'"AVVERSIONE ALLE
          PERDITE", per cui la disutilità di una perdita è maggiore
          dell'utilità di una vincita delle stesse dimensioni.
         
           Per vedere questo effetto in azione,
          occorre lasciare le asettiche aule universitarie per il mondo
          "selvaggio" dei "taxi drivers". Colin Camerer e
          colleghi hanno notato che i tassisti di New York sono abituati a
          decidere quante ore lavorare ogni singolo giorno in base ad un
          obbiettivo di guadagno: raggiunto il quale, "smontano". I
          tassisti pertanto lavorano meno ore nei giorni "caldi" di
          quanto facciano nei giorni con poca richiesta. Durante i primi,
          banalmente, hanno bisogno di meno tempo per raggiungere il loro
          obbiettivo. Dal punto di vista della scelta razionale i tassisti
          dovrebbero sostituire lavoro e tempo libero inter-temporalmente:
          lavorando quindi più ore quando il tasso di salario è alto e
          consumando più tempo libero quando quest'ultimo "costa
          meno", cioè quando il salario cui si rinuncia è basso. I
          risultati dell'analisi sul campo evidenziano invece una correlazione
          negativa tra ore lavorative e tasso di salario giornaliero, in linea
          con il principio di avversione alle perdite. Il fallimento nel
          raggiungere l'obbiettivo di guadagno è percepito dal tassista come
          una perdita, per compensare la quale egli è disposto a lavorare
          più a lungo; al contrario, il fatto di superare l'obbiettivo è
          percepito come una vincita, ottenuta la quale egli è meno incentivato
          a lavorare.
         
           L'attenzione rivolta al
          comportamento effettivamente osservato dell'uomo di strada piuttosto
          che al comportamento idealizzato dell'homo oeconomicus, aiuta a farsi
          un'idea degli obbiettivi della neodisciplina. Più precisamente, la
          "Behavioral Economics" mira ad "accrescere il potere
          esplicativo dell'economia dotandola di basi cognitive più
          realistiche", nella convinzione che, importando nella teoria
          economica gli aspetti procedurali delle decisioni individuali, sia
          possibile generare nuovi e più plausibili modelli teorici, migliori
          predizioni e scelte di politica economica più efficaci. Questo
          approccio non implica il rifiuto in blocco del modello neoclassico.
          Anzi, la cosiddetta "Rational Economics" continua a
          costituire il punto di riferimento teorico, in virtù della sua
          plausibilità normativa; e quello metodologico, in virtù della sua
          trattabilità e generalità. Tuttavia, invece di considerare non
          falsificabile la teoria neoclassica, l'economia cognitiva rivendica la
          fertilità delle confutazioni empiriche in prospettiva di una nuova
          sintesi "quasi razionale".
         
           Certo, una lista di violazioni ad
          una teoria - per quanto ben documentata - non costituisce ancora una
          (buona) teoria alternativa. Lo riconoscono anche Colin Camerer, Gorge
          Loewenstein e Matthew Rabin: la "Behavioral Economics" si
          presenta oggi come "una collezione di strumenti o di idee"
          piuttosto che come una teoria unificata; "uno stile di
          modellizzazione dei problemi" piuttosto che un paradigma
          scientifico pienamente articolato. Ciononostante, la loro speranza è
          che i modelli psico-economici si rivelino presto empiricamente ben
          fondati, predittivamente accurati e formalmente trattabili. A quel
          punto - come già è accaduto per lo sviluppo delle scienze più
          mature - è possibile che le ristrette assunzioni della razionalità
          economica saranno considerate come un caso speciale di una teoria
          della razionalità più generale fondata su basi
          cognitivo-comportamentali. A giudicare dai contributi di Camerer e
          colleghi, è una speranza ben riposta.
         
          Disponibile ad ogni tipo di chiarimento
         
          Porgo cordiali saluti ed un augurio di una
          buona estate 2004
         
          Lorenzo Polojac
         
          Psicologo e Responsabile Commerciale
          Imperator S.r.l.
         
          Trieste
         
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