|  Introduzione Attualmente,
      sul piano strettamente politico, la globalizzazione non è un pieno, ma un
      vuoto. E rischia di diventarlo anche sul piano economico. Alle spinte
      derivanti dalla quasi totale libertà di circolazione dei capitali e un
      po’ meno dei beni e dei servizi non corrisponde, infatti, una parallela
      spinta alla costruzione di istituzioni capaci di incanalare il capitalismo
      globalizzato, quello che è stato anche chiamato «turbocapitalismo»,
      verso un corretto svolgersi, cioè verso un’operatività che prevenga
      inondazioni o siccità di mezzi e si ritorca contro sè stesso e gli
      assetti democratici che lo sorreggono. Parte
      della (re)istituzionalizzazione del mercato in chiave globale è compito
      che ricade sui singoli Stati nazionali. Essi devono assicurare la
      competitività economica del loro territorio nei confronti del resto del
      mondo, accettando le regole del capitalismo mondializzato. Ma la parte più
      importante di questo processo riguarda le relazioni tra Stati nazionali
      perché essi devono provvedere nel loro insieme alla costruzione di
      un’architettura politica del mercato globale che, oltre a definire gli
      standard ai quali attenersi, dovrebbe essere capace di governare i gap
      concorrenziali di origine strutturale e le forme di competitività
      selvaggia. Gli Stati nazionali vivono questo duplice compito in modo errato, tramutandolo in un sentimento di frustrazione che sfocia in una crisi sostanziale della loro sovranità. Il mondo della cultura, invece di reagire a questo stato di cose, tende a razionalizzarla, sostenendo che gli Stati nazionali non hanno più strumenti politici per incanalare l’attività del mercato globale verso obiettivi condivisi dalla maggioranza dei cittadini. Secondo questa impostazione gli Stati nazionali sono in irreversibile decadenza e possono solo rispecchiare tale crisi, cavalcando la protesta di piazza o reagendo in forma protezionista o abbandonandosi alle regole dettate dal mercato a scapito dei diritti e delle speranze di benessere delle loro popolazioni. Con
      queste lacune, la struttura del mercato globale potrebbe indebolirsi e
      crollare. Se così accadesse, la politica si sarebbe lasciata sfuggire una
      grande occasione, perché le spinte spontanee dell’economia di mercato
      hanno offerto al mondo una soluzione per lo sviluppo materiale e per la
      creazione di condizioni di libertà dei cittadini mai prospettate prima.  Per
      questo noi riteniamo che una delle prime missioni delle nuove istituzioni
      internazionali dovrebbe essere quella di rinforzare dall’esterno la
      sovranità politica dei territori nazionali, affinché ciascun luogo del
      mondo possa trovare un suo proprio modo d’essere per assicurare la
      crescita della ricchezza e rafforzare il consenso al mantenimento
      dell’economia di mercato a livello globale e la diffusione della
      democrazia. Temiamo, invece, che queste istituzioni si propongano di
      espropriare ulteriormente a loro favore le sovranità nazionali,
      nell’illusione, laddove non esista malafede, che questa sia la soluzione
      del vuoto politico nel processo di globalizzazione.  La novità del nostro approccio, se di novità si tratta, consiste nel concepire una funzione sovranazionale che fornisca, dall’esterno, agli Stati nazionali la possibilità di esercitare una propria sovranità nell’uso dei flussi globali e consenta loro di rendersi più permeabili alle regole del mercato internazionale. Abbiamo
      sintetizzato questo concetto denominandolo “sovranità bilanciata”. In
      tal modo, uno Stato nazionale avrà la possibilità di restituire ai
      cittadini quanto più possibile della loro sovranità, riconducendo la
      politica entro confini più accettabili. Ma potrà farlo solo se un
      ordinamento esterno renderà possibile il riappropriarsi dei poteri
      statuali esercitati dal mercato per impotenza o per semplice ignavia delle
      stesse autorità nazionali.  Se
      portato avanti da una singola nazione in modo separato dalle altre, il
      tentativo di pervenire allo stesso risultato è destinato
      all’insuccesso, dato che il mercato globale ha forza sufficiente per
      impedirlo e per mantenere uno stato di quasi anarchia planetaria. Coloro
      che vogliono conservare la fisionomia attuale del mercato globale credono
      sia un bene il poter beneficiare dell’assenza di istituzioni di
      controllo mondializzate e non si accorgono che, invece, il sistema viene
      minato dalla mancanza di un antitrust
      planetario, di un governo della moneta svolto in un’ottica globale, di
      una trasparenza dei mercati finanziari nazionali e di scelte fiscali fatte
      nei consessi democratici e non imposte dalla volontà del mercato. 
       Nel
      mercato globale sono presenti, ma vengono soffocate, le stesse istanze che
      hanno portato in passato gli Stati nazionali a costruire istituzioni per
      tutelare il principio democratico della no
      taxation without representation (nessuna imposizione fiscale può
      essere decisa senza rappresentanza democratica dei tassati) e la
      conseguente necessità di regolare il funzionamento dei mercati della
      moneta, della finanza e dei beni, nonché di garantire la tutela sociale
      (il welfare). Ciò conduce a un
      crescente malumore che, invece di concentrarsi sul vuoto politico per
      spingere la politica a colmarlo, punta gli strali, come a Seattle (1999) e
      a Praga (2000), sul meccanismo di mercato e sulla sua spinta globalizzante.
      Ma così si sbaglia obiettivo! In
      passato, si è provveduto a costruire prima l’assetto statuale di
      esercizio della sovranità, poi quello di esercizio delle regolazione e
      dei controlli e, più tardi, del welfare.
      Questo percorso oggi non si può ripetere, perché si deve fronteggiare la
      complicazione che deriva dall’assenza di un governo globale che convive
      con la formazione di soggetti finanziari e industriali a raggio
      planetario, i quali mal tollerano i vincoli dei governi nazionali, finendo
      con umiliare la sovranità degli Stati. Non auspichiamo, perché
      pericolosa, l’istituzione di un governo mondiale nel senso stretto del
      termine, ma riteniamo sufficiente simulare l’esistenza di un organismo
      sovrano capace di controllare i comportamenti dei mercati a favore di
      tutti, attraverso una più forte cooperazione tra Stati che si avvalga di
      organismi sovranazionali aventi come missione quella di restituire
      sovranità alle nazioni e non di espropriarla. Il
      problema quindi non è quello di avere un governo globale, ma di costruire
      una «funzione politica» globale. Per
      raggiungere l’obiettivo di ridare forza alla sovranità nazionale
      attraverso una buona organizzazione politica del mercato globale, occorre
      definire uno standard unico da applicare ovunque, accompagnandolo con una
      «funzione di polizia» esercitata nazionalmente e uguale in tutto il
      pianeta, con la possibilità d’essere attivata, secondo regole
      predeterminate, anche dall’organismo sovranazionale che funge da braccio
      operativo della funzione politica globale. A loro volta gli Stati agiranno
      da presidio locale del mercato globale e lo faranno se il vuoto politico
      verrà colmato da istituzioni capaci di rassicurarli nell’esercizio
      della loro sovranità, sia pure vincolata dalle regole alla cui
      definizione hanno contribuito.  Il
      ricarico con rinforzo delle sovranità nazionali dall’esterno ha la
      natura del chiodo a cui appendere il quadro politico del futuro. Va
      sottolineato che nessuna ingegneria istituzionale planetaria potrebbe
      avere successo senza un sistema monetario 
      che dia vita a una moneta unica mondiale o a un insieme di monete
      che ne simuli il comportamento e ne determini gli stessi effetti. Quando
      si invoca la flessibilità dei cambi lo si fa per evitare mali peggiori
      nelle crisi di competitività nazionali, cioè in quelle che incidono
      strutturalmente sull’accumulazione di ricchezza a seguito di recessioni
      o di boom con effetti endemici. La flessibilità dei ambi è certamente un
      shock absorber, ma è anche una
      fonte di disturbi e, pertanto, non è il modello salutare per un sistema
      economico che voglia creare ricchezza e diffonderla socialmente. La
      svalutazione della moneta come reazione d’emergenza a un difetto
      economico di un’area è, in realtà, un impoverimento differito della
      popolazione che, solo apparentemente, è una manifestazione di sovranità
      ma, di fatto, è una sua ulteriore limitazione. In una situazione di
      emergenza e per breve tempo la svalutazione del cambio si può accettare,
      ma se diviene sistematica, allora si arriva al paradosso di formalizzare
      come risorsa normale il ricorso a uno strumento che fa pagare agli
      individui le incapacità della politica. In tal caso si crea il
      presupposto per l’affermarsi di forme di concorrenza monetaria tra Stati
      condotta dalle forze economiche locali o globali, con conseguenze sociali
      ed economiche molto gravi. Come
      insistentemente sottolineato dal Nobel dell’economia Robert Mundell, non
      è possibile concepire lo sviluppo di un mercato realmente globale, e la
      promessa di ricchezza crescente per tutti gli individui del pianeta che
      questo porta con sé, senza prevedere prima o poi un’agenda precisa di
      formazione di una moneta unica planetaria, preceduta da regole comuni
      capaci di garantire una stabilizzazione progressiva del valore globale
      della ricchezza, soprattutto della massa crescente delle sue forme
      finanziarie.  Se
      i governi non sapranno farlo, provvederà il mercato, se già non vi ha
      provveduto in via permanente, scegliendo il dollaro americano. Questa, però,
      è una soluzione instabile per tutti e svantaggiosa per gli stessi Stati
      Uniti.   Per
      raggiungere tale scopo occorre un’istituzione sovranazionale che si
      faccia carico di intraprendere questa via. Il progettare una moneta
      globale, anche se solo nei suoi elementi preliminari, è il compito forse
      più arduo e allo stesso tempo più importante della ricerca politica ed
      economica odierna. Europa docet. Si tratta, infatti, di costruire un luogo
      di massima sovranità monetaria in un mondo che comunque non potrà
      concentrare allo stesso modo la sovranità politica. In un mondo normale,
      come non è più il nostro, la sovranità politica sarebbe componente
      essenziale di quella monetaria. Al fallimento dell’una seguirebbe
      inevitabilmente quella dell’altra. Argomentare
      su questi aspetti dell’esercizio della sovranità democratica è un
      compito concettuale molto arduo, ma non ci spaventa. L’innesco della
      soluzione è quello di concepire una teoria economica fusa con quella
      politica e viceversa. Questo ci preoccupa un po di più perché troppi
      sono i colleghi, i ricercatori e i pensatori che ritengono separabili
      economia e politica, oppure non fruttifero esaltare troppo la loro
      inseparabilità.  Noi,
      invece, enfatizziamo tale connessione soprattutto per dotarci degli
      strumenti utili a capire la soluzione di un’emergenza che si sta
      profilando all’orizzonte: la crisi di sovranità dello Stato sta
      trasformando l’azione del mercato in politica stessa e la politica in un
      vuoto. Cioè in una relazione con il mercato dove la politica procede per
      abdicazioni successive: rinuncio alla sovranità monetaria nazionale, come
      nell’Unione Europea, ma non costruisco un modo dove questa possa essere
      ripristinata in forma collaborativa con altre nazioni; rinuncio alla
      socialità dello Stato perché questa non è sostenibile sul piano globale
      (e, per giunta, non è condotta in modo efficiente), ma non la innovo e
      non la ricostruisco su un piano di regole comuni e in modo più diffuso
      mondialmente, impoverendo la democrazia e il grado di civiltà del
      pianeta. In sintesi, oggi la relazione tra politica e mercato tende a
      sbilanciarsi troppo sul secondo, rivitalizzando per reazione le forme
      nazionaliste, socialiste o, in generale, protezioniste che si speravano
      superate e aprendo la strada al rafforzamento di un pensiero «economicista»
      troppo semplificato. Che
      non sia più possibile né auspicabile una politica contro il mercato non
      vuol dire che la politica stessa e le istituzioni che produce siano
      irrilevanti per l’economia. Riteniamo frettolosi coloro che invocano
      meno politica per liberare del tutto il mercato e trasformarlo in organo e
      in cultura di governo del pianeta. Ambedue gli autori di questo volume
      sono liberisti  «ruminanti» -   cioè
      che non inghiottono famelici tutte le mode economiciste, ma masticano
      lentamente i bocconi per capirne meglio il sapore –, e sono preoccupati
      dalla teorizzazione dell’irrilevanza della politica che tende a prendere
      piede, dell’eventuale prevalenza della de-evoluzione sull’evoluzione
      della sovranità popolare. Temiamo, in sintesi, che il vuoto nella
      globalizzazione aumenti invece che diminuire. Per questo, pur portatori di
      diverse sensibilità e competenze, si sono trovati del tutto concordi sul
      fatto che occorra una politica forte per avere un mercato che lo sia
      altrettanto, ma in forme socialmente accettabili. La
      tesi di questo volume è che abbiamo bisogno di costruire un luogo di
      definizione delle regole di esercizio della sovranità politica globale
      affinché il mercato planetario si possa formare e possa crescere senza
      crisi eccessive, a beneficio di tutti.  
       Non
      ci fermeremo alle enunciazioni generali. Tenteremo di abbozzare le nuove
      istituzioni che secondo noi servono alla globalizzazione per trasformarsi
      in un pieno (politico) e non restare un vuoto. Cercheremo di delineare
      soprattutto le missioni da assegnare a istituzioni sovranazionali
      futuribili piuttosto che addentrarci nella loro organizzazione, rilevante
      per la loro efficacia, ma non per la validità preliminare delle nostre
      tesi. Abbiamo individuate cinque funzioni e le riteniamo tutte indispensabili per colmare il vuoto politico:  
      la missione di fissare regole
      standard, per perseguire l’obiettivo di far concorrere tutti gli
      Stati alla costruzione consensuale di un quadro di regole omogenee a cui
      attenersi sul piano interno; la
      missione di offrire garanzie
      sussidiarie, per assicurare che tutti gli Stati rispettino le regole
      standard consensualmente concordate; · la missione di prevedere compensazioni, per mettere in grado ogni singolo Stato di gestire il gap tra sovranità nazionale e mercato globale (compresa la gestione delle emergenze); · la missione di garantire la stabilità monetaria, cioè il chiodo al quale appendere tutto il quadro (che, proprio per questo, deve essere robusto); ·       
      la missione di tutelare
      l’eco- e il bio-sistema planetario, perché il degrado ambientale e
      la buona gestione della rivoluzione biologica in atto investono l’intero
      pianeta e non sono gestibili esclusivamente a livello nazionale.  Il lettore attento avrà notato che tali missioni, quinta a parte, sono molto simili a quelle che individuarono e definirono dopo la seconda guerra mondiale gli ideatori del nuovo ordine mondiale, creando istituzioni come l’Organizzazione delle Nazioni Unite (più oltre ONU), il Fondo Monetario Internazionale (FMI), la Banca Mondiale (WB), l’Accordo Generale per le Tariffe e il Commercio (GATT), ora Organizzazione per il Commercio Mondiale (WTO), e il Gruppo dei 7 paesi più industrializzati (G7). Tale osservazione è corretta. La formazione di un quadro cooperativo internazionale implicava fin d’allora una cessione di sovranità degli Stati nazionali agli organismi sovranazionali e possiamo sostenere che i meccanismi di trasferimento allora ideati hanno funzionato (finché così è stato). Ogni istituzione presenta però un arco vitale che si sviluppa dalla nascita, invecchia e muore, sia per il passare del tempo, sia per l’alternarsi delle vicende della vita e degli equilibri-squilibri internazionali. Con differenze di contenuto causate dalla fine dei blocchi politici alternativi e dall’emergere delle nuove tecnologie dell’informatica e delle telecomunicazioni, il problema si ripresenta oggi molto simile, ma richiede diverse soluzioni. Rispetto
      alle condizioni di mezzo secolo fa, la globalizzazione impone oggi una
      cessione di sovranità nazionale maggiore ed è perciò necessario trovare
      il modo di gestire questo passaggio a livello sovranazionale ponendosi
      come fine di restituirla rafforzata a livello locale. Se non si riesce
      nell’intento, la perdita si traduce in riduzione di ricchezza per il
      mondo e in redistribuzione della stessa secondo regole diverse da quelle
      della no taxation without
      representation. Conviene ricordare a questo punto che tale regola è
      stata posta a fondamento della convivenza democratica nazionale in molti
      paesi, ma non di tutti, mentre ora è giunto il momento di estenderla alla
      convivenza globale, se non si vuole interrompere il processo di
      incivilimento culturale ed economico del mondo. A che cosa servirebbe la
      globalizzazione se non avesse questi sbocchi? Oggi
      bisogna riprogettare le istituzioni create in passato e ripensare alle
      loro missioni, perché il compito di gestire il trasferimento della
      sovranità a livelli superiori e restituirla ai territori che compongono
      il mercato globale è immensamente più complesso di quello affrontato
      mezzo secolo fa. Il G7 e suoi moltiplicatori fino al G24 non sono
      sufficienti ad assolvere l’insieme delle funzioni richieste dal nuovo
      stato di cose; la loro azione può avere effetti illusori, perché quasi
      sempre gli accordi che essi propriziano indicano obiettivi senza mettere a
      disposizione gli strumenti per raggiungerli; e possono avere anche sbocchi
      pericolosi, perché evidenziano l’esistenza di una sovranità, sia essa
      statale sia di mercato, che domina sulle altre. Quale
      scenario finale abbiamo in mente? Un’architettura
      politica del mercato planetario che veda ancora protagonisti gli Stati
      nazionali nell’ambito di consessi internazionali che si prefiggano di
      operare come agenti del loro stesso cambiamento in un’ottica globale. Gli
      Stati nazionali si dovranno trasformare in presidi locali del mercato
      globale. Così i processi positivi di quest’ultimo fluiranno senza
      grosse difficoltà in ogni nazione del pianeta. In sintesi, la costruzione
      della globalizzazione, dal vuoto al pieno, ha bisogno di un’architettura
      alla cui base vi siano gli Stati, che mantengano la loro identità, se lo
      vogliono, anche riunendosi in un unico cervello di sistema. Ma questa idea
      di nuovo ordine mondiale fatto di Stati sempre più autocoordinati
      richiede che ciascuno di essi riesca a restare sufficientemente sovrano
      per organizzare la propria apertura al mercato esterno in modo tale da non
      causare crisi economiche e di consenso all’interno. Ecco perché
      riteniamo indissolubile il binomio sovranità e ricchezza, sul quale
      ritorneremo con più dovizia di argomenti nel corpo del lavoro, e perché
      riteniamo punto centrale e critico del nuovo ordine mondiale il
      trasferimento della sovranità a istituzioni internazionali che sappiano
      restituirla al luogo di origine in forma compatibile con gli interessi
      delle nazioni, quando e nei modi che servono. 
        Noi
      riteniamo concreta la possibilità di attuazione della nostra proposta
      essendo innate nella globalizzazione spinte capaci di fertilizzare
      l’utopia insita in essa, se la politica saprà coglierne in pieno il
      significato. Bernard
      Shaw ha affermato che il mondo va governato dai saggi, ma progredisce per
      le idee dei pazzi. I
      due autori coltivano con la loro proposta l’ambizione di far fare un
      passo avanti alla civiltà del mondo     Carlo
      Pelanda e Paolo Savona   University
      of Georgia e Università
      LUISS-Guido Carli, ottobre 2000     
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