PUGLIA, RADAR
E GUERRA FREDDA
Pensieri sulla storia di una grande avventura
industriale e culturale: la Selenia
Di Francesco Musto
(gennaio 2001)
Mi è capitato circa un anno
fa di trovarmi a tavola, per pranzo, nientemeno che con Mr.
Negli
stessi cinquant'anni, d'altra parte, a me sono accadute diverse altre cose. Tra
l'altro, insieme ad alcuni amici di Cerignola, abbiamo costituito a Roma una ventina
di anni fa la "Associazione dei Cerignolani nel mondo"; per cui
quando Mr. McGovern è tornato a Cerignola, lo abbiamo invitato alla nostra
festa annuale a Roma l'otto dicembre del '99, e ne è derivato l'invito a
pranzo.
In
realtà l'incontro è durato più di mezza giornata; per cui c'è stato il tempo
perchè egli mi spiegasse meglio, tra tante altre cose, il motivo della sua
ammirazione per la gente di Cerignola, e per mio padre. Era rimasto
meravigliato e sorpreso più che altro dalla insolita combinazione di cultura
umanistica e di capacità e competenze tecniche che li caratterizzavano. E gli
era rimasta impressa una battuta di mio padre, che anche io gli avevo spesso
sentito ripetere, e cioè che un vero ingegnere deve essere anzitutto un vero
filosofo! Il concetto sottostante era che secondo lui l'uomo si distingue dalle
bestie anzitutto per la sua capacità di creare e poi per quella di adoperare attrezzi, strumenti e protesi; e sempre più
efficaci, utili, comodi, efficienti; e che quindi un uomo è tanto più
completamente uomo quanto più è capace di integrare, individualmente e
collettivamente, cultura umanistica e cultura scientifica. Per mio padre cioè
la tecnologia era il risultato di una sintesi intima e completa delle due
culture e delle due metà del cervello; un uomo era tanto più uomo quanto più
era alto il suo livello tecnologico.
Io
ho cominciato a capire il valore ed il peso di questi discorsi di mio padre
soltanto dopo molti anni. E cioè quando sono partito da Cerignola, mi sono
iscritto alla facoltà di Ingegneria della "Sapienza" di Roma, ed ho
cominciato a poter fare confronti con altri ambienti e persone, a vedere e
valutare dal di fuori, e sempre più da lontano, mio padre, la mia famiglia,
l'ambiente di Cerignola e della Puglia. E tuttora, quando torno in quei posti a
visitare i miei tanti fratelli e nipoti, rimango ancora sorpreso anch'io; e
capisco l'atteggiamento ed i commenti di Mr. McGovern.
Il
primo ricordo che ho della mia infanzia è quello della mia maestra di prima
elementare (una suora salesiana), che diceva con fare convinto ai miei genitori
"Ma certo lui da grande farà l'ingegnere.....". E non mi sorprende:
la prima cosa "da grandi" che io ricordo di aver visto da bambino a
Cerignola era la Centrale Elettrica comunale; e le sue grandi macchine!
Mio padre aveva fatto tutta
la prima guerra mondiale come ufficiale di fanteria. Poco dopo il suo ritorno a
casa, attorno al 1920, il Comune di Cerignola decise la elettrificazione della
città, ed affidò a mio padre la realizzazione della centrale elettrica comunale
e di tutti gli impianti cittadini pubblici; per cui mio padre fino alla metà
degli anni trenta fu il direttore della Centrale, e di conseguenza era
considerato da tutti come una specie di mago, visto che aveva portato la luce notte
e giorno in tutte le strade ed in tutte le case, al girare di un interruttore.
Della Centrale elettrica io ricordo bene il fascino che mi ispiravano gli
enormi motori diesel (che mi dovevano sembrare molto più enormi di quanto in
realtà fossero), le grandi dinamo (allora si usava la corrente continua a 110
Volt), la grande stanza degli accumulatori, che servivano per l'avviamento dei
motori (con delle grandi finestre sempre aperte: per evitare esplosioni
dall'idrogeno sprigionato dagli accumulatori).
Ma della Centrale ricordo
anche la preoccupazione che oscurava il viso di mio padre in occasione delle
feste padronali, quando tutti mi sembravano invece allegri, sereni e rilassati;
il fatto era che le grandi luminarie in tutta la città portavano il carico
sulla Centrale elettrica ai limiti del massimo. E ricordo l'aria di
soddisfazione sul viso di mio padre quando raccontava a mia madre del progetto
di illuminazione elettrica del teatro Mercadante, che aveva curato
personalmente (e di cui conservo gelosamente gli appunti). La mia impressione
era che la soddisfazione non fosse solo di natura tecnica, ma anche artistica e
culturale; la prima volta che sono stato a teatro avrò avuto sei anni, a vedere
il Rigoletto; nel teatro con la nuova illuminazione elettrica.
Mio
padre si interessava di tutto; conservo molti dei suoi libri: la Storia
d'Italia di Guicciardini, I Promessi Sposi, i principali classici della
letteratura italiana, il libro "Elettricità e Materia" del premio
nobel J. J. Thomson del 1903, diversi testi di Radiotelegrafia, di cui uno del
1903, un testo sulla radioattività del 1906, un libro di dispense del corso di
macchine elettriche di Galileo Ferraris, diversi testi di scienze naturali,
alcuni libri fondamentali di matematica di Pinkerle, e tanti altri. E
naturalmente conservo anche parecchi altri libri di svariate tecnologie: sulle
macchine termiche, elettriche, idrauliche, eoliche; sui tubi elettronici e gli
apparecchi radio; fino ai primi testi su l'elettronica, la televisione, le
tecniche audio. Mio padre, come tanti altri, non credeva alla possibilità di
sprigionare (o imprigionare) l'energia atomica, o di realizzare il "raggio
della morte", di cui spesso si parlava sui giornali negli anni trenta. Ma
mi aveva fatto balenare ed intravedere fin da molto piccolo la possibilità di
realizzare i radar.
Durante
la guerra, nei primi anni quaranta, Cerignola non è mai stata minimamente
bombardata. I soliti bene informati, a guerra finita, ci spiegavano che il
motivo era stato che il duomo di Cerignola, la cui cupola si staglia altissima
sulla grande pianura del Tavoliere, serviva come riferimento visivo per i
bombardieri americani sulla via del ritorno. Non posso dire se sia proprio
vero, ma i discorsi nostalgici di Mr. McGovern, quando parlava dell'ansia che
li premeva a bordo dei bombardieri al ritorno dai loro raid in Germania, che si
allentava solo alla vista del duomo a centinaia di chilometri di distanza,
danno un certo credito a questa diceria.
I dintorni di Cerignola
invece furono spesso pesantemente bombardati, e specialmente Foggia, che era un
importantissimo nodo ferroviario. E quindi noi, anche da ragazzi quali eravamo,
abbiamo assistito, purtroppo, "in diretta", a parecchi furiosi
combattimenti aerei tra i bombardieri alleati ed i caccia tedeschi; ed abbiamo
visto molti aerei essere abbattuti, ed i loro occupanti lanciarsi coi
paracadute. Non era quindi strano che nell'officina della azienda di mio padre
arrivassero spesso i più strani strumenti ed apparecchi, prelevati dagli aerei
abbattuti; e portati da noi per curiosità. Io ne ho avuti parecchi fra le mani
(nel 1943 avevo 15 anni), ed era evidente che la loro tecnologia, sia che
fossero di origine tedesca, che americana, era molto più avanzata e sofisticata
di quella italiana (almeno quella che noi conoscevamo): i tubi elettronici e
tutta la componentistica miniaturizzata, le tecniche delle altissime frequenze,
le tecnologie avioniche, non le avevo mai nè viste, nè sentite menzionare o
descrivere.
Ma
in più mio padre sosteneva già a quei tempi che le guerre ormai si vincevano
più che altro per quella che lui chiamava la "potenza industriale";
che per lui era anzitutto la capacità di immaginare, e quindi poi di progettare
e realizzare, prodotti nuovi per nuove ed antiche esigenze; e basati su
tecnologie nuove; ma anche e soprattutto la capacità di "metterli in
produzione", di riprodurli rapidamente su larga scala, ed in modo
economico ed affidabile; ed infine in modo da renderne l'impiego facile,
comodo, "divertente", anche per "utenti" ignoranti,
impreparati, difficili, come i militari. Mi ricordò questa sua idea quando nel
novembre del '44 spuntarono i primi carri armati americani da Piazza Castello;
e da quel momento fu per diverse settimane una sfilata ininterrotta, notte e
giorno, di carri, mezzi, armi, materiali, rifornimenti, di ogni tipo; e tutti
attrezzati e realizzati con tecnologie evidentemente molto superiori alle
nostre; da quelle della meccanica pesante alle radiocomunicazioni, alla
conservazione degli alimenti.
Ma
fra i "reperti" degli aerei abbattuti io avevo sempre cercato di
individuare qualche radar, o qualche suo componente: i ricetrasmettitori radio
li esaminavo, e mi era già abbastanza chiaro cosa erano e come funzionavano. Di
radar credo di aver avuto fra le mani soltanto uno dei primi modelli tedeschi,
e molto mal ridotto: nient'altro. La voglia di radar e la relativa curiosità mi
rimasero intatte fino alla fine della guerra.
Il 1980 è stato un anno
cruciale nel lungo periodo della "guerra fredda". Tutti avevano ormai
capito che il "disgelo" tra America ed unione Sovietica stava
diventando serio ed effettivo.
Negli
anni immediatamente precedenti ebbe luogo una importante gara internazionale,
bandita dal governo dell'Unione Sovietica, per la fornitura e la messa in funzione
di quattro grossi impianti di Sistemi di Controllo del Traffico Aereo per la
regione di Mosca. L'occasione era che vi si dovevano svolgere le Olimpiadi: era
una eccezionale occasione e dimostrazione di apertura verso l'occidente, ma
anche di esposizione delle carenze esistenti. E naturalmente tutte le grandi
aziende europee ed americane erano ansiose di partecipare e di aggiudicarsi la
gara; in ballo in quel caso non c'era soltanto, come di solito, un interessante
e ricco contratto, ma l'occasione di introdursi positivamente in un enorme
mercato nuovo, che era stato fino ad allora completamente chiuso o
inaccessibile; era questo per le aziende occidentali il primo significato del
"disgelo".
La
Selenia aveva una posizione più che buona nel mercato mondiale di questi
sistemi, conseguita con vent'anni di duro lavoro e di capacità innovativa;
poteva quindi legittimamente aspirare a vincere questa gara; negli anni '70 era
arrivata ad essere la numero due al mondo per numero di aeroporti civili
attrezzati e funzionanti coi suoi Sistemi di Controllo del Traffico Aereo,
basati anzitutto sui suoi radar, che ne erano il prodotto principale e più
originale. Li aveva venduti un pò ovunque nel mondo, a partire dai primi anni
'60, e si era distinta ed affermata anche per qualità e prezzo; ma anche, e più
che altro, per la sua dimostrata capacità di adattamento fantasioso alle
esigenze del singolo cliente in decine di paesi diversi.
Ma
la gara in Unione Sovietica era diversa: non vi erano importanti e decisivi
soltanto il prodotto e la credibilità del fornitore; era in ballo la grande
politica mondiale!
All'inizio
delle discussioni e presentazioni coi responsabili del governo sovietico non si
era capito il motivo di un certo loro imbarazzo: sembrava che volessero tenere
la gara il più possibile sotto silenzio, mentre tutti si aspettavano che la
sbandierassero come dimostrazione di apertura all'occidente. Soltanto dopo
diversi incontri, anche informali, il mio Direttore Marketing riuscì a capire
cosa c'era dietro: i responsabili sovietici non gradivano che apparisse
evidente che la loro industria non era in grado di progettare e produrre quei
Sistemi, con le caratteristiche di qualità, ma più che altro di affidabilità,
che le Olimpiadi esigevano: col traffico aereo non si scherza; e non potevano
permettersi che i Sistemi di Controllo del Traffico Aereo rallentassero
l'afflusso dei tifosi di tutto il mondo, o, peggio, provocassero o non
evitassero incidenti; erano quindi presi tra l'incudine di volere un Sistema
efficiente ed affidabile, ed il martello di non dimostrare che non erano capaci
a realizzarlo. E quindi cercavano di indire e gestire la gara il più possibile
"sottovoce", lontano dai clamori e dai riflettori della politica e
della stampa internazionali; atteggiamento quanto mai lontano, ed anzi opposto,
da quello che gli occidentali, ed in particolare gli americani, si aspettavano,
o, peggio, capivano; per nostra fortuna.
Fu
infatti così che fu decisa la nostra strategia di marketing per quella gara,
che ci sembrava persa in partenza. E quindi da allora, e per mesi, tutte le
nostre presentazioni e proposte furono svolte sulla base di due elementari
criteri:
* illustrare il nostro Sistema, le sue
caratteristiche e prestazioni, in tutti i dettagli, insitendo più che altro
sulla sua affidabilità (portando come referenze le esperienze di tanti
aeroporti nel mondo)
* ripetere e ribadire in ogni modo ed in ogni
occasione, formale ed informale, che però la Selenia non poteva contare su
nessun valido supporto politico o governativo (pur essendo una azienda IRI, a
partecipazione statale!), come certamente sarebbe accaduto per tutti i nostri
concorrenti.
Il
nostro messaggio era quindi doppiamente rassicurante: affidabilità del prodotto
ed assenza di clamori politici. Il fatto poi che la Selenia non potesse fare
affidamento su nessuna promozione o aiuto politico o governativo, che da tutti
in Selenia e fuori veniva considerato il maggior limite alla competitività
dell'azienda, era ben chiaro e noto a tutti gli operatori ed addetti di questi
settori in tutto il mondo; il peso politico all'estero del nostro governo era
allora praticamente nullo, più che altro perchè le contropartite che poteva
offrire non esistevano. Quindi noi di solito nelle gare internazionali eravamo
"soli"; ma questo molte volte era un vantaggio; e nel caso della gara
per le Olimpiadi di Mosca lo fu in modo eccezionale. Ma quello che serviva per
affermarsi erano tutte e due le "gambe": fortissima competenza
tecnologica e grandissima cultura "umanistica".
I
due nostri criteri di marketing per la gara di Mosca funzionarono alla grande:
essi interpetravano esattamente quello che i funzionari sovietici volevano
sentirsi dire! E di conseguenza, durante tutto il periodo delle presentazioni
ed offerte della gara, tutte le volte che i più autorevoli rappresentanti
politici e governativi (in clima di "disgelo"!), in particolare
francesi ed americani, si impegnarono attivamente per perorare la causa delle
loro aziende nazionali, più si impegnavano, e più, senza saperlo, lavoravano
per noi: sempre di più allarmavano ed indispettivano i funzionari di Mosca!
Il
risultato fu che la Selenia vinse la gara, e che di clamore in proposito negli
ambienti politici e sulla stampa non ce ne fu affatto: nessuno aveva interesse
a strombazzare l'esito, tranne la Selenia, che però aveva vinto proprio per non
far chiasso! Da allora la Selenia si è posizionata molto bene nei mercati
dell'est, e non solo per i Sistemi di Controllo del Traffico Aereo.
La
Selenia era stata fondata nel 1960, come risultato della fusione della sua
azienda-madre, la Microlambda, e della società che di questa era
"figlia": la Sindel. L'una società era "madre" e l'altra
"figlia" per il fatto che la Sindel era stata creata da un gruppo di
"fuorusciti" dalla Microlambda. La quale era stata fondata nel 1951,
come "joint-venture" fra la finanziaria Finmeccanica dell'IRI e la
Raytheon americana. L'iniziativa era stata chiaramente favorita dai governi ed
in particolare dagli organismi militari, nel clima del Piano Marshall, e della
necessità per la NATO, costituita da poco, di disporre di basi di appoggio e
supporto tecnologico, logistico e produttivo in tutti i paesi europei. Ma in
Italia questo orientamento generale aveva trovato un interpetre particolarmente
geniale: il professor Carlo Calosi, che meriterebbe una biografia intera a
parte. Il professor Calosi aveva dovuto abbandonare l'Italia e si era spostato
negli Stati Uniti durante la guerra; ma nel 1951 era già diventato
"vice-president" della Raytheon, e Presidente della sua
"Microwave and Power Tube Division", che per l'epoca era il
concentrato più alto delle più critiche ed avanzate tecnologie radaristiche. La
Microlambda nacque attorno ad un primo grosso contratto di produzione su
licenza di radar della Raytheon, destinati ai "marines" e
commissionati dalla NATO; e si trattava di quanto ci fosse allora al mondo di
più avanzato nelle tecnologie radar. La Microlambda ne produsse varie centinaia
in pochi anni, migliorandone anche alcune prestazioni; per esempio le antenne,
che poi costituiranno uno dei punti di forza delle capacità tecnologiche della
Selenia. E cominciò a produrre fin dall'inizio anche radar per applicazioni
civili, in particolare per la navigazione delle navi medio-grandi, inizialmente
ancora su licenza Raytheon. Ma la lungimiranza del professor Calosi puntò da
subito ad un obiettivo molto più ambizioso, che pochissimi altri in Italia ed
in Europa si sentirono o furono capaci di perseguire in condizioni analoghe:
creare in Italia gradualmente una capacità completamente autonoma di
progettazione e produzione di radar, in competizione mondiale a quella della
Raytheon; e come seguito sviluppare analoghe capacità in tutti gli altri campi
e settori applicativi che potevano derivare dalle tante tecnologie di base che
concorrono a costituire i radar. Che io sappia, nessuno dei collaboratori,
anche i più diretti ed intimi, del professor Calosi, lo ha mai sentito
esplicitare questo concetto, o esternare questo sogno; ma che fosse il motivo
ispiratore di tutta la sua azione era chiaro a tutti.
Quello che però più ci
sorprendeva era l'atteggiamento in proposito della Raytheon: tutti ci
aspettavamo una resistenza più o meno esplicita; ed invece i comportamenti
erano esattamente contrari! Probabilmente esisteva una qualche forma di
accordo, non so quanto esplicito, con i vertici della Raytheon, e secondo me
molto intelligente e lungimirante, di accettare la sfida della concorrenza fra
le due aziende; perchè di una vera sfida si trattava: intellettuale,
tecnologica, produttiva; ma anzitutto organizzativa e gestionale; ed anzitutto
di capacità di management dell'innovazione. I tempi di allora lo richiedevano e
lo permettevano: i problemi da risolvere e le difficoltà da dominare superavano
di molto i danni eventuali derivanti dalla concorrenza: quello che ci univa era
molto di più di quello che ci poteva dividere; e gli aiuti che ci potevamo
offrire reciprocamente in termini di soluzioni innovative era molto più di
quello che ci potevamo sottrarre in termini di clienti e contratti singoli.
Sta
di fatto che io stesso, in tutte le occasioni dei tanti contatti ed incontri
con molti degli uomini-chiave delle divisioni radaristiche della Raytheon, ho
discusso e collaborato e chiesto i loro pareri ed aiuti per numerosi progetti
nostri originali, molto avanzati tecnologicamente e sistemisticamente, e che
potevano chiaramente costituire delle minacce di mercato verso di loro; e li ho
sempre trovati quanto mai collaborativi, disponibili, e soprattutto leali;
anzi, ci rispettavano e ci ascoltavano (soprattutto me) a tal punto, da essere
spesso in atteggiamento "apprenditivo" verso di noi e di me. In
realtà si era diffuso nelle due aziende un sano ed intelligente atteggiamento
da "dilemma del prigioniero": in prigione, fra reclusi è comunque
meglio collaborare che farsi la guerra; si era capito che i "nemici"
non eravamo reciprocamente noi: i nemici erano "fuori"; e tra l'altro
erano anzitutto le tante cose che non sapevamo ancora fare, i problemi
irrisolti, i limiti dello "stato dell'arte", i problemi sistemistici
ed operativi ancora pendenti: era chiaro che insieme queste enormi muraglie di
difficoltà e di problemi li potevamo scalare meglio che separati, o peggio in
conflitto.
Io ero stato assunto in
Microlambda a novembre del 1956, pochi mesi dopo il grande esodo dei
"transfughi", che includevano anche il professor Calosi; e che
avevano appena fondato a Roma la Sindel, finanziati dalla Edison. Con la Sindel
quindi noi in Microlambda per quattro anni, fino alla fusione ed alla nascita della
Selenia, ci facemmo una dura concorrenza. La Microlambda per assumermi mi fece
"ponti d'oro", anche perchè ero il primo ingegnere italiano che si
volesse occupare di radar non da autodidatta. In realtà era successo che io,
consapevolmente, avevo deciso di specializzarmi in radar già durante il terzo
anno degli studi di ingegneria, quando era uscito il primo bando per un corso
di specializzazione post-laurea sulle tecnologie radar, di due anni, finanziato
dal Consiglio Nazionale delle Ricerche e dal Ministero della Difesa. E quindi
avevo orientato i miei piani di studio, la tesi di laurea, ed i collegamenti
coi professori, in modo da essere quasi sicuro di essere ammesso al corso di
specializzazione, che era a numero chiuso, per pochissimi allievi, e per di più
con una ricca borsa di studio (circa il doppio dello stipendio iniziale di un
neolaureato!). Per cui non ho avuto nessun problema a "trovare
lavoro"; anzi, avevo altre numerose offerte di lavoro da aziende molto
prestigiose; avevo l'imbarazzo della scelta; ma la "voglia di radar"
la avevo in corpo fin dai miei quindici anni; e solo in Microlambda era chiaro
che la potevo soddisfare.
Appena fondata nel 1960, fu
subito chiaro che la Selenia aveva di fronte due grandi problemi: la sua scarsa
notorietà e la mancanza di prodotti suoi per il mercato internazionale. Negli
anni '50 in Microlambda avevamo imparato a produrre molto bene prodotti ad
altissima tecnologia come i radar più avanzati; ed anche a progettarne alcune
parti nuove molto critiche; ed avevamo imparato a progettare sia in funzione
della produzione che dello specifico cliente. In Microlambda ed in Sindel si
erano affinate numerose e notevolissime competenze tecniche e sistemistiche in
campo radar; ma nessuno ci conosceva.
E nel frattempo però avevamo
afferrato la cosa principale: per essere autonomi con prodotti di nostra
concezione e realizzazione dovevamo disporre di una forza progettistica non piccola; più che altro perchè i radar sono la
sintesi di tante tecnologie molto diverse, ciascuna delle quali richiede una
dimensione minima di uomini specializzati e di attrezzature specifiche. Ma per
poterci pagare questa capacità minima di base avevamo bisogno quindi che il
fatturato fosse al di sopra di una soglia non piccola; e questo poteva avvenire
soltanto puntando molto oltre il mercato italiano: dovevamo guardare da subito
al mercato mondiale. Per il quale però all'inizio non eravamo nessuno, e non
avevamo prodotti. All'atto della fusione che dette luogo alla Selenia io ero il
capo dei Sistemi Radar in Microlambda; fui subito trasferito allo stabilimento
di Roma, dove si decise di concentrare la progettazione, lasciando la
produzione a Napoli; e diventai prima capo della progettazione Radar di
Avvistamento, e poi di tutti i sistemi radar. Dieci anni dopo ero il Direttore
della Divisione Radar.
In dieci anni sviluppammo
una quantità incredibile di nuovi sistemi radar, sia per uso civile che
militare: in un incontro natalizio con le famiglie, a mia moglie che gli
chiedeva come me la cavavo sul lavoro, il professor Calosi rispose:
"benissimo, anzi fin troppo: le aziende spesso muoiono di inedia, ma noi
rischiamo di morire di indigestione!". Si riferiva alla grande quantità di
nuovi modelli, nuovi progetti, nuove tecnologie, nuove soluzioni sistemistiche
che noi sfornavamo continuamente. Ed il bello era che ciò accadeva per una
scelta cosciente ed in modo programmato.
Avevamo cioè attivato delle
forme organizzative e gestionali (specialmente verso gli ingegneri
progettisti), che andavano incontro specificamente all'obiettivo della ricerca
di notorietà internazionale, e della creazione rapida di tanti prodotti nuovi.
Il metodo era abbastanza impegnativo; avevamo deciso di selezionare ed assumere
un notevole numero di laureati, prevalentemente ingegneri, scegliendoli
anzitutto in base alle loro tendenze "imprenditoriali; e per destinarli a
fare i progettisti ed i capi-progetto ed i capi-programma. E contestualmente
attivammo, e rendemmo chiara agli interessati, una politica di "spin-off"
interni: attorno alle varie linee di nuovi prodotti, man mano che si
affermavano e crescevano, avremmo creato delle nuove Divisioni: c'era spazio di
crescita per tutti, purchè avvenisse sulla base della crescita aziendale; e
così è avvenuto; addirittura ne sono derivate nuove aziende: la Alenia Spazio,
la Alenia-Marconi Communications. Naturalmente sapevamo che la crescita costa,
ma per tutti gli anni '60 potevamo contare su un secondo ricco contratto di
produzione su licenza Raytheon per la NATO: si trattava del sistema missilistico
HAWK. Ma sapevamo anche che alla fine degli anni '60 non potevamo, ma anche non
volevamo, vivere altro che dei nostri prodotti. Il professor Calosi ci aveva
spiegato che gli americani avevano dieci anni per andare sulla luna, e noi
dieci anni per essere capaci di mettere i piedi in terra!
Ma credo che ci siamo
riusciti. Dai primi anni '70 tutta la nostra produzione era su progetti nostri
(ed era venduta all'estero per il 70%); anzi, io ho avuto la soddisfazione in
quel periodo di firmare più di un contratto di licenza di produzione di nostri
radar per il controllo del traffico aereo alla
Raytheon.
Nel '61 si era saputo che
l'Aeronautica Svedese stava avviando un progetto per la realizzazione di una
rete di sorveglianza aerea radaristica, per l'avvistamento lontano (più di 200
chilometri) di aerei a bassa quota, con particolari e severi requisiti di
prestazioni; volevano tempi di allerta e di reazione del loro sistema di difesa
eccezionalmente brevi, ed una affidabilità altissima del sistema (e specificata
e condizionante contrattualmente). Lo scoglio principale, fra tanti, era però
concettuale, sistemistico, e di conseguenza tecnologico: si trattava non solo
di avvistare e di misurare la distanza e l'azimut degli aerei incursori, ma di
misurarne anche la quota sul terreno, nella singola passata di antenna (per
ridurre i tempi di reazione), in presenza dei ritorni radar dal terreno, che
sono molto più forti dei segnali degli aerei. Noi eravamo già molto capaci di
dominare le tecniche "MTI" (moving target indicator), che, basandosi
sull'effetto Doppler, permettono di cancellare gli echi "fissi" del
terreno, ed evidenziare solo quelli degli oggetti "mobili". Ma nè
noi, nè nessuno al mondo si era ancora cimentato con il problema di misurare
anche la quota in queste condizioni; ed a prima vista il problema sembrava
irresolubile. Quando il nostro Direttore Marketing ci informò di questo
progetto, l'opinione prevalente fu che avevamo pochissime speranze di successo,
ma che ci conveniva partecipare comunque con una proposta, purchè
"decente", per cominciare a farci conoscere. Nel frattempo si
cominciò a capire e sapere che i candidati principali al contratto erano le
ditte inglesi, che in quegli anni si sentivano e si presentavano come le
depositarie di tutto lo scibile radaristico al mondo; ma anche che esse stavano
cercando di convincere gli ufficiali dell'Aeronautica Svedese ad eliminare il
requisito della misura della quota in presenza di echi fissi, semplicemente
perchè non era possibile soddisfarlo.
Questo fu per noi lo stimolo
principale per approfondire l'analisi: se trovavamo una soluzione, la gara era
nostra.
E quindi una domenica
pomeriggio di quel novembre '61, io mi chiusi nel salone di casa mia, e chiesi
a mia moglie di non essere disturbato per qualche ora. La mattina seguente
chiesi che fosse convocata una breve riunione, a cui parteciparono tutti i
principali direttori interessati dell'azienda, ed illustrai la mia soluzione;
la conclusione fu che dopo mezz'ora di discussione il Direttore Generale
concluse: "OK, abbiamo la soluzione, andiamo a lavorare per preparare la
proposta". La Selenia vinse questo contratto fondamentale, che la presentò
subito sul mercato internazionale radaristico, come un "outsider"
agguerritissimo. Più che altro perchè il problema degli attacchi aerei a bassa
quota era il principale problema di quegli anni; e poi perchè l'Aeronautica
Svedese era considerata, e giustamente, uno dei clienti più difficili,
competenti, esigenti, del mondo.
Il prodotto che ne derivò si
chiamò Argos 2000, anche perchè uno dei criteri di selezione nella gara, e di
progetto, era il costo totale nel ciclo di vita del sistema, che quindi doveva
essere il più lungo possibile, ma anche il più economico complessivamente; sta
di fatto che qualche anno fa ho avuto la soddisfazione di essere informato che
nel 1990 era prevista una verifica da parte dell'Aeronautica Svedese per
decidere se prolungare la vita operativa ed economica del sistema; ed è stato
deciso di prolungarla fino al 2015!
Il sistema è stato
brevettato, credo che ancora oggi rappresenti una soluzione di avanguardia per
l'avvistamento e la misura della quota degli aerei a bassa quota, ma più che
altro ci aprì in Selenia la strada per un enorme filone di sviluppo
sistemistico, tecnologico, e quindi commerciale; ed a livello mondiale.
Da quella esperienza sono
derivati moltissimi altri prodotti e sistemi nostri. Anzitutto in campo
militare, per la scoperta aerea lontana, ma anche per la "difesa di
punto"; poi per i radar di inseguimento militari e civili, per quelli
dedicati alla missilistica ed ai sistemi d'arma, per gli usi strumentali
civili, come i radar meteorologici e quelli per la ricostruzione di
traiettorie; infine per i tanti modelli di radar navali militari, per
avvistamento, sorveglianza, inseguimento, controllo dei sistemi di difesa e
missilistici.
Ma i prodotti che più ne
sono stati influenzati, beneficiati e radicalmente reimpostati, sono stati i
radar per il controllo del traffico aereo, per uso anche militare, ma
prevalentemente civile. Essi sono diventati il prodotto di punta della Selenia,
ed il suo veicolo principale di penetrazione nei nuovi mercati.
L'altro filone di sviluppo
fondamentale sono stati i radar navali militari. Nella recente guerra del
Kosovo, un mio amico ammiraglio mi ha fatto sapere che i radar navali che
meglio scoprivano e vedevano gli aerei sulle
montagne
della Jugoslavia erano quelli delle nostre navi, molto più di quelli delle
altre flotte della NATO. Il motivo è semplice: la nostra Marina Militare ci
aveva chiesto fin dai primi anni '60 la soluzione di un altro problema molto
critico, che per le altre Marine era tale solo in condizioni particolari, ma
che per la Marina Italiana era, ed è, il problema principale: è quello di
avvistare eventuali aerei attaccanti "in acque strette" (come
l'Adriatico) quando volano sulle montagne. Noi nei primi anni '60
avevamo sviluppato una intera nuova generazione di radar navali per queste
situazioni, basati sempre sull'effetto Doppler, ma anche su paradigmi
sistemistici nuovi ed originali (la compressione d'impulso coerente); anche
questi sono stati brevettati. Ancora oggi questi sistemi, opportunamente
aggiornati tecnologicamente, vengono apprezzati, e venduti alle marine di tutto
il mondo.
Ma negli anni '60 erano
state messe anche le basi per la "diversificazione" della Selenia. E
quindi fin dai primi anni '70 dalla divisione radar "germinarono"
tante altre divisioni: la divisione attività spaziali (noi avevamo realizzato
tutta l'elettronica di bordo del satellite Sirio, le antenne dei satelliti
americani Intelsat, quelle dei satelliti europei Meteosat, e tante altre parti
essenziali, per bordo e per terra); la divisione sistemi d'arma (missilistici),
che poi ha sviluppato il missile antiaereo Aspide ed i relativi sistemi di
guida; la divisione elaborazione dati, che ha sviluppato i sistemi di
elaborazione per il controllo del traffico aereo, e per il comando e controllo
delle navi militari; la divisione informatica e telecomunicazioni. La struttura
organizzativa dell'azienda si dovette adeguare: si arrivò ad una struttura a
matrice, e quindi si dovettero creare e rafforzare le direzioni centrali
"di staff".
Ma anzittutto si decise di
adeguare, sviluppare, e rafforzare tutto il sistema organizzativo e gestionale
per la strategia dell'innovazione; la capacità di innovare era il nostro
principale prodotto; noi volevamo, e ci siamo
riusciti, vendere innovazione (ma solo nei campi dove ci
sentivamo più forti e consolidati); e dicevamo che il nostro problema non era
il "management della conoscenza", ma il "management della
ignoranza": come far fruttare quello che ancora non sapevamo, e che non
sapevano ancora nemmeno i nostri concorrenti.
Una decisione molto
intelligente ed efficace riguardò la struttura organizzativa per la gestione
dell'innovazione, che fu affrontata con un misto di strutture organizzative e
di procedure operative specifiche. Furono create non una, ma tre direzioni
centrali.
La prima fu la direzione
tecnica, di cui io fui messo, e ne sono rimasto per venti anni, a capo; e che
era la più grande e complessa. Essa includeva i laboratori centrali
specialistici, al servizio di tutte le divisioni, e che racchiudevano tutto il
know-how di base dell'azienda; e comprendeva anche tutte le attività e le
risorse per la ricerca tecnologica nei campi già presenti nei nostri prodotti;
per esempio sull'uso del CAD (computer aided design) nelle nostre produzioni,
sui micro circuiti a grande integrazione, sui primi microprocessori nei nostri
apparati; ed includeva anche le attività di standardizzazione dei sottoassiemi
comuni a più divisioni, come per esempio gli alimentatori, che allora
rappresentavano circa il 30% del costo di fabbrica dei nostri apparati; ma in
più era responsabile del processo di selezione dei laureati ed in particolare
degli ingegneri, dei rapporti con l'università e gli enti di ricerca, della
promozione e gestione del patrimonio brevettuale dell'azienda, della Rivista
Tecnica. Era una direzione di più di duemila cinquecento dipendenti, di cui più
di ottocento ingegneri, prevalentemente progettisti.
La seconda direzione fu la
direzione ricerche di base, a cui erano stati intelligentemente affidati
soltanto due filoni fondamentali di sviluppo: i materiali speciali per i nostri
laboratori (per esempio le ferriti a microonde) e l'elettroottica.
La terza era una direzione
originale ed "anomala": era la direzione per lo sviluppo delle nuove
attività, cioè di nuovi prodotti in nuovi mercati; era la direzione centrale della diversificazione. Era una direzione molto
piccola numericamente, ma molto potente, influente, condizionante per le altre
direzioni centrali e per le divisioni. Il concetto di fondo per la gestione
della innovazione era che le scelte fondamentali per gli orientamenti
strategici e gli investimenti dovevano avvenire attraverso un processo continuo e dialettico fra enti difensori di
orientamenti diversi. Per cui, per esempio, tutte le proposte di investimenti
di una certa dimensione, provenienti da noi o dalle divisioni, per essere prese
in considerazione dalla direzione generale, dovevano avere l'approvazione della
direzione sviluppo nuove attività; la quale però, se esprimeva perplessità o
contrarietà, doveva anche spiegare e documentare quali alternative di
investimento erano più promettenti in quali campi nuovi per la Selenia. E'
stato così che la Selenia è entrata, tra l'altro, nel campo dei sistemi
militari e civili basati sulle tecnologie dell'infrarosso, o in quello degli
elaboratori paralleli.
La diversificazione ha fatto
esplodere la dimensione, il valore, la notorietà, la solidità della Selenia. E
tutti quelli che dagli anni '60 ci aveveno creduto hanno fatto carriere più che
brillanti.
Ma nel frattempo è cambiato
il contesto; ed in particolare quello italiano, politico ed industriale. In
realtà la Selenia nel frattempo era diventata "troppo grande" per le
capacità di conduzione strategica di management della nuova classe politica e
manageriale pubblica; per cui, in più, è arrivata la stagione delle
"privatizzazioni all'italiana". E' stato fatto per esempio, secondo
me, l'errore di eliminare l'IRI e le partecipazioni statali dal panorama
industriale italiano, senza poterlo sostituire con null'altro. Si è partiti
dall'idea che lo Stato doveva allontanarsi dalla gestione diretta
dell'economia, anche di quella delle alte tecnologie, che sono rischiose e con
ritorni lunghi; e si è raggiunto, consapevolmente o meno, il risultato
chiaramente opposto; per esempio, le responsabilità di promuovere e finanziare
lo sviluppo, in particolare nel mezzogiorno, invece di pesare su una
"banca" di investimenti, come era l'IRI, adesso gravano direttamente sul Ministero del
Tesoro; l'IRI era pur sempre un ente di diritto privato, benchè di proprietà
dello Stato. Si era partiti dalla costatazione che le partecipazioni statali
erano diventate uno strumento di sottogoverno, di assistenzialismo, di
corruzione, in mano a quegli ambigui organismi privati che in Italia sono i
partiti politici (e non dello Stato), e si è creduto, o si è
fatto credere che "privatizzando" (all'italiana) questi problemi
sarebbero stati risolti. In realtà bisognava, e tuttora bisogna, far funzionare
lo Stato, al di sopra ed indipendentemente dai partiti, ed allora la formula
IRI poteva e può benissimo funzionare; e secondo me è indispensabile per arrivare
in un futuro non molto prossimo ad attivare una economia completamente
liberalizzata ed un capitalismo diffuso e non familiare come quello che
abbiamo; si è cioè "buttato il bambino con l'acqua sporca". Sta di
fatto che certe attività, come quelle legate alle tecnologie avanzate, che però
sono il motore dello sviluppo, comportano intrinsecamente rischi alti e tempi
di ritorno lunghi; tanto da non poter essere ragionevolmente affrontati e
sostenuti da un capitalismo gracile e povero di esperienza e cultura
industriale matura come quello italiano attuale. L'evoluzione in questo senso
sta avvenendo, ed è anzitutto di natura culturale, ma anche strutturale. Nel
frattempo, e proprio per favorire anche involontariamente questa evoluzione,
secondo me è un fatto positivo che il nocciolo più critico e pregiato della
Selenia sia oggi praticamente gestito dalla Marconi inglese: ci serve lo
straniero. La Marconi è sicuramente un'azienda seria e competente, e capace di
sviluppare tutte le potenzialità esistenti, e "fare cultura", anche
verso i nostri "strateghi" politico-industriali.
Ma sulla storia della
Selenia c'è comunque ancora tanto da scrivere e da riflettere ed imparare, e
non solo per chi ci ha vissuto; e mi propongo di farlo, entro le mie capacità
ed i miei limiti. E la "morale" principale che ne ho derivato e che
ho in mente è condensata nel titolo preliminare che avrei immaginato per questo
libro. Il titolo è "Per entrare nel ventesimo secolo".
Il senso di questo strano titolo sta nel parafrasare un altro titolo di un
libro molto più celebre e di un autore ben più illustre. Si tratta del libro
del filosofo francese Edgar Morin, intitolato "Per uscire dal ventesimo secolo", che in Francia è uscito
nei primi anni '80. In esso Morin ha cercato di delineare con un anticipo di
vent'anni quale sarebbe stata la situazione mondiale oggi, da un punto di vista
politico, culturale, sociale; ed alcune illuminazioni sono davvero notevoli. Io
sostengo però che nell'ultimo dopoguerra la società italiana e le sue culture, in
particolare quella economico-industriale, sono partite con un ritardo di almeno
un secolo rispetto a quelle degli altri paesi industrializzati; e la
manifestazione più evidente ne è l'atteggiamento verso la tecnologia: timore
del nuovo ed incontrollabile, oppure fideismo irrazionale; da allora abbiamo
cercato di "entrare nel ventesimo secolo". Ma affermo anche che
questo gap sta essendo abbastanza rapidamente colmato, anche tenendo conto che
nel frattempo gli altri paesi avanzano ancora, e rapidamente. L'esperienza
della Selenia, insieme ad alcune pochissime altre, ha costituito a questi
effetti il motore e l'esempio principale di questa veloce rincorsa. Il mio
libro sulla storia della Selenia dovrebbe testimoniarlo e dimostrarlo.