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E V O L U Z I O N E   D E L L A   G U E R R A

1. Introduzione

 

Lo sviluppo tecnologico sta causando una discontinuita` nel modo con cui organizzare ed impiegare la forza militare. Stanno mutando non solo le modalità d'impiego di questa, ma anche i suoi significato e strumentalità per il conseguimento di obiettivi politici.

Ogni epoca è stata caratterizzata da un proprio e specifico modo di concepire e condurre la guerra. Va notato che esso è sempre stato analogo a quello di produrre la ricchezza. L'organizzazione sociale e il livello di sviluppo tecnologico hanno agito in modo pressoché speculare sulla guerra e sull'economia. I Toffler distinguono, in termini classificatori, una civiltà agricola, una industriale ed una post-industriale, a cui corrisponderebbero guerre ed economie della 1°, della 2° e della 3° ondata. Secondo questo schema, attualmente ci troveremmo all'inizio della 3° ondata.

La rivoluzione dell'informazione sta trasformando l'economia e la strategia. La conoscenza è divenuta un fattore produttivo fondamentale. Una maggiore conoscenza consente di diminuire, a parità di risultati, l'impiego degli altri fattori produttivi, in economia, e di potenza, in guerra, come la manodopera, il capitale e le materie prime. La conoscenza ha una peculiarità. A differenza degli altri fattori produttivi, sia di ricchezza che di potenza militare, l'utilizzo della conoscenza non la consuma, ma crea nuova conoscenza.

In campo militare l'utilizzo sistematico dell'informazione globale e in tempo reale, soprattutto nei sistemi integrati C3I/RISTA (Comando, Controllo, Comunicazione e Intelligence/Ricognizione, Informazione, Sorveglianza, Acquisizione Obiettivi) e nella guida o autoguida di precisione delle armi ha provocato, come si è già potuto rilevare dalle esperienze della guerra del Golfo, queste principali conseguenze.

A) Sostituzione almeno parziale della "manovra delle forze" con quella del "fuoco", con maggiore importanza dei tiri indiretti rispetto a quelli di contatto. Tale tendenza è incrementata anche dalla comparsa di armi autocercanti i propri obiettivi (armi brilliant al posto di armi smart ). Il contendente che abbia la superiorità nel campo dell'informazione e delle armi di precisione a lunga gittata avrà tutto l'interesse ad evitare il contatto diretto, per ridurre le proprie perdite. In spirito, é un'evoluzione forse determinante per mettere l'Occidente in condizioni di fronteggiare la crescente superiorità demografica del Terzo Mondo. I tiri in profondità consentono non solo di neutralizzare e di logorare, ma di ottenere effetti di distruzione di obiettivi duri e mobili, come i mezzi corazzati, indipendentemente dalla distanza di tiro.

B) Estensione delle operazioni a tutta la profondità del teatro operativo sin dall'apertura delle ostilità.

C) Contemporaneità e simultaneità delle operazioni dirette contro il centro di gravità del dispositivo avversario. Una volta le operazioni erano composte soprattutto da manovre a distanza dal nemico e da successivi combattimenti di contatto, che venivano effettuati in successione e serialità e non in parallelo. Di conseguenza, i livelli strategico, operativo e tattico tendono a fondersi fra di loro in un unico livello integrato.

D) Maggiore importanza del tempo nel ciclo informativo-decisionale-esecutivo (IDA: Ideazione, Decisione, Azione, come noto nella sua formulazione classica). Il tempo è divenuto la dimensione strategica critica. A differenza dello spazio, che segue la legge dei rendimenti marginali decrescenti, il guadagno di tempo segue una regola inversa, quella dei rendimenti marginali crescenti: un guadagno di tempo ha significato maggiore del guadagno di tempo di pari entità che lo precede. Di conseguenza é facile - e non é una novità in se- dimostrare che le moderne organizzazioni militari attribuiscono grande importanza alla contrazione dei tempi informativi, decisionali ed esecutivi.

E) Le strutture militari, che sono sempre state caratterizzate da un'accentuata verticalità, tendono ad incorporare elementi caratteristici delle organizzazioni orizzontali a rete, basate sull'accesso diretto e completo a tutte le informazioni disponibili. Il sistema - basato sostanzialmente sulla digitalizzazione delle situazioni propria e del nemico - accresce la flessibilità e la rapidità d'azione e di reazione. L'unitarietà è garantita da una pianificazione centralizzata che definisce soprattutto i centri di gravità dell'azione, lasciando ai livelli subordinati un'ampia iniziativa nel rispettivo spazio di battaglia , su cui essi manovrano tutte le forze e il fuoco che in tale spazio possa intervenire.

F) Il combattimento terrestre diviene, per certi versi, molto più simile a quello navale, integrando le azioni aeree e facendo ampio ricorso allo spazio extra-atmosferico: le operazioni terrestri da combinate tendono a divenire interforze a livelli inferiori a quelli in cui si fermava in precedenza l'integrazione.

G) Una componente fondamentale del combattimento è quello per ottenere la superiorità dell'informazione. Occorre organizzare delle azioni anti-C3I/RISTA dell'avversario con un piano integrato di misure attive (ECM, accecamento o attacco ai sensori, ecc.) e passive (mascheramento, inganno, ecc.). L'utilizzazione delle tecnologie della simulazione e della realtà virtuale può rivelarsi estremamente efficace.

La rivoluzione dell'informazione non è in condizioni di provocare, anche nel medio periodo, una vera e propria discontinuità, cioé quella che solitamente viene designata col nome di Rivoluzione negli affari militari (RMA). Si sta verificando invece al massimo una Rivoluzione Tecnico Militare (MTR), che riguarda i sistemi d'arma e i mezzi militari, ma non le modalità di condotta della guerra, la natura del conflitto e una riorganizzazione strutturale delle forze. Sarebbe in corso quindi un'evoluzione più che una rivoluzione vera e propria.

Il problema non è solo teorico. Riguarda infatti il mantenimento dell'attuale superiorità militare dell'Occidente. Essa non è tanto, o almeno non è solo, tecnologica, ma organizzativa, addestrativa, nonchè più sofisticata sul piano delle dottrine strategiche, operative e logistiche. E' presumibile infatti che i futuri avversari dell'Occidente sviluppino contromisure, non solo politico-strategiche (incertezza dell'aggressione, azione di propaganda per evitare la mobilitazione delle opinioni pubbliche occidentali, ecc.), ma anche tecniche e operative (ad esempio, disturbo ai sistemi satellitari), per impedire all'Occidente di sfruttare la sua superiorità e di ottenere risultati decisivi.

Esistono poi tre fattori interni ed esterni che limitano la portata di tale evoluzione, la rallentano, comunque, la rendono meno incisiva e comunque meno rivoluzionaria:.

Primo, la resistenza corporativa al cambiamento da parte delle tecno-strutture militari. Tutte e tre le Forze Armate interpretano a proprio vantaggio, o almeno con una propria ottica, i riflessi dell'evoluzione tecnologica e gli insegnamenti della guerra del Golfo. Il livello d'integrazione interforze è ovunque ancora troppo ridotto per consentire l'elaborazione di dottrine e pianificazioni interforze, che costituiscano una matrice sistemica e unitaria delle attività delle tre Forze Armate. Solo rielaborando tali premesse il cambiamento potrebbe essere accelerato e provocare un vero e proprio salto di qualità. In caso contrario gli effetti saranno solo cumulativi ed incrementali;

Secondo, le Forze Armate non possono permettersi soluzioni di continuità nella loro efficienza e capacità d'intervento, soprattutto in un periodo come l'attuale caratterizzato da grandi incertezza e variabilità politico-strategiche. Un rapido assorbimento delle innovazioni è contrastato da un lato dalle riduzioni delle strutture delle Forze Armate e dell'entità del personale, avvenuti in tutti gli Stati occidentali alla fine della guerra fredda, e, dall'altro lato, dalla contrazione dei bilanci della difesa, che tendono, come sempre, a fare privilegiare il breve periodo rispetto alle prospettive a più lungo termine;

Terzo, la rivoluzione tecnologica, o per meglio dire gli effetti sulle capacità operative delle nuove tecnologie, è stata studiata e sperimentata soprattutto per operazioni ad alto e media intensità, come quelle avvenute durante la guerra del Golfo. Non è stato invece effettuato un analogo approfondimento per i conflitti a bassa intensità, che sono i più frequenti e politicamente - anche se non militarmente - i più critici nel breve termine. In essi le nuove tecnologie devono, oltre che conferire una maggiore efficienza/efficacia alle azioni, contrarre i tempi e diminuire il livello di perdite non solo proprie ma anche della popolazione civili e degli stessi combattenti avversari. Si richiedono al riguardo sistemi molto selettivi per quanto riguarda effetti sugli obiettivi e danni collaterali al territorio e alla popolazione. L'impiego di robot e di armi non letali sembra offrire al riguardo interessanti prospettive, come le offrono i nuovi sensori e i sistemi di fusione dati, di digitalizzazione automatica e di diffusione delle informazioni. In proposito è da accennare ad un'altra difficoltà: gli interventi del tipo considerato hanno, di solito, carattere multinazionale, con partecipazione anche di Stati meno avanzati. La diffusione sistematica delle ultime tecnologie è contrastata anche dall'interesse dell'Occidente di evitarne la proliferazione, che potrebbe in futuro compromettere la sua sicurezza.

La rivoluzione dell'informazione e l'utilizzazione delle nuove tecnologie dovrebbero comunque offrire interessanti prospettive anche per i conflitti a bassa intensità, come le operazioni di peace-keeping e di peace-building, anche se evidentemente non nella forma di complesso "intelligence-strike in profondità", e della trasformazione delle operazioni da sequenziali in contemporanee, che si sono prima ricordate. In tale secondo tipo di conflitto sembrano possedere perticolari potenzialità le tecnologie dell'informazione, quelle delle armi non letali e le psico-tecnologie. Dovrebbero però essere approfonditi l'effettivo impatto sull'efficienza degli interventi "leggeri", nonché le possibilità di un impiego multifunzionale, cioé in tutti i possibili tipi di operazione indipendentemente dalla loro intensità. Una multifunzionalità delle dotazioni è evidentemente importantissima sotto il profilo economico.

Comunque sia, più che l'innovazione tecnologica, è il cambiamento radicale del contesto strategico e dei compiti che possono essere affidati alle forze armate occidentali che sta provocando una vera e propria rivoluzione nelle loro strutture e dottrine d'impiego. Dai compiti statici, di difesa del territorio, propri del periodo bipolare (in particolare per gli europei), esse hanno assunto compiti dinamici, di intervento esterno, molto differenziati come contenuto, poiché si estendono dalle missioni umanitarie alle operazioni ad alta intensità, coprendo tutta la gamma possibile dei conflitti, da quelli agricoli a quelli post-industriali.

L'incertezza e la variabilità costituiscono i paradigmi fondamentali dei nuovi compiti. Non è più possibile preorganizzare unità calibrate nelle loro varie componenti per assolvere funzioni standard. La catena di comando organica e quella di comando operativo vanno quindi distinte. Le operazioni sono più multinazionali e più interforze che nel passato. L'ordinamento delle unità deve essere ispirato a concetti di modularità, che consentano di variare la potenza impiegata, variandola a seconda delle necessità contingenti. Le alleanze multinazionali permanenti non hanno lo stesso valore che avevano nel mondo bipolare. Non solo non si conosce più il nemico, ma neppure l'amico e, quando lo si conosce, non si può essere più sicuri di potersene fidare, il che è almeno altrettanto importante.

L'impatto dei media e l'indispensabilità del consenso dell'opinione pubblica pongono dei condizionamenti alla condotta delle operazioni, tanto più elevati quanto minori sono la loro intensità e le loro dimensioni. La propaganda, la contropropaganda, la disinformazione, ecc. non sono fatti nuovi nella storia. Sono sempre esistiti. Le nuove tecnologie della comunicazione globale, in tempo reale e, fra breve, differenziata secondo i vari segmenti di audience, pongono però problemi prima ignorati, la cui soluzione è determinante per il buon esito degli interventi.

L'impatto dello sviluppo tecnologico degli armamenti a degli altri sistemi militari (C3I, ad esempio) non potrebbe essere compreso compiutamente, considerandolo indipendentemente dalle trasformazioni che ha subito il contesto politico-strategico e le altre condizioni d'intorno che influiscono sulle operazioni.

Per questo, nel rapporto che segue, viene esaminato per primo, e diffusamente, il radicale mutamento intervenuto nel contesto politico-strategico internazionale, con particolare riferimento a quanto è di più diretto interesse per l'Italia.

Successivamente verrà approfondito il cambiamento dei paradigmi e dei requisiti nell'impiego della forza e nelle organizzazioni militari, dettagliando taluni aspetti e concetti fondamentali della scienza militare, come la meccanica di un conflitto, le dimensioni strategiche - le forze, il tempo e lo spazio - , il concetto di vulnerabilità dei sistemi militari e i tipi di combattimento e di conflitto (di logoramento, di annientamento, ecc), cercando di individuare l'impatto della rivoluzione dell'informazione su tali parametri. Solo in tal modo è possibile affrontare organicamente il problema della rivoluzione tecnologica militare e individuarne le conseguenze sulla condotta delle operazioni e la natura delle guerre future.

Nella terza sezione vengono poi esaminati i concetti di rivoluzione tecnico-militare e di rivoluzione negli affari militari, approfondendo le principali innovazioni tecnologiche e organizzative in corso e i termini dei dibattiti concernenti le priorità tecnologiche ed approvvigionative e le trasformazioni strutturali in corso nei sistemi di difesa dei diversi Paesi.

Il rapporto si conclude con una sintesi delle principali tendenze rilevate nei vari settori, per delineare i paradigmi delle future operazioni e guerre, corredata da una serie di raccomandazioni, che per altro vogliono essere solo spunti per successivi approfondimenti, circa taluni provvedimenti prioritari che si potrebbero adottare nelle Forze Armate italiane, compatibilmente con l'entità complessiva delle risorse disponibili. Il criterio logico é quello di conferire loro maggiore capacità di fronteggiare i compiti che potrebbero essere affidati nel nuovo contesto della sicurezza nazionale e collettiva.

 

 

2. I futuri contesti della sicurezza

 

2.1. Il nuovo sistema internazionale,

La fine della guerra fredda non ha eliminato i conflitti. La forza militare resta un elemento fondamentale nelle relazioni internazionali. Il sistema mondiale é sempre frazionato in Stati, che perseguono obiettivi spesso divergenti e potenzialmente conflittuali. A fenomeni di integrazione sistemica globale - a livello economico, finanziario e scientifico - si contrappongono, da un lato, fenomeni di disintegrazione e di balcanizzazione e, dall'altro, tendenze alla costituzione di poli o di blocchi regionali.

Il "dopo-guerra fredda" ha segnato la ripresa della storia e della conflittualità etnica e religiosa, a cui gli Stati-nazione non sanno far fronte adeguatamente, anche perché sono indeboliti da forze sub-nazionali (regionalismi, localismi), transnazionali (finanza, informazione, economia, religioni, ecc.) e sovranazionali (non tanto l'ONU, quanto le alleanze e i blocchi politico-strategico-economici regionali, come la NATO, l'Unione Europea, e in futuro forse il NAFTA e l'APEC). Caratteristica della conflittualità interna attuale é che la rivolta contro gli Stati non è più condotta, come avveniva in passato, dalle regioni e dai ceti sociali più poveri, ma da quelli più ricchi. Gli oneri imposti a questi ultimi dagli Stati in nome della solidarietà nazionale non sono più compensati dai vantaggi che gli Stati loro forniscono in termini di protezione doganale, commesse pubbliche e imposizione dell'ordine sociale.

Le frontiere non tengono più. Non sono più in condizione di proteggere il benessere degli Stati industrializzati dalla competizione economica di quelli in via di sviluppo, che hanno costi della manodopera enormemente inferiori. Hanno influito al riguardo anche la fine del confronto bipolare, le nuove tecnologie dell'informazione, la diminuzione dei costi di trasporto e delle telecomunicazioni e la cosiddetta civilizzazione della guerra.

Nel confronto bipolare, Europa e Giappone erano condizionati nella competizione economica dalla loro dipendenza strategica dagli Stati Uniti. Ora non lo sono più o lo sono meno. Le nuove tecnologie dell'informazione hanno resa obsoleta la cosiddetta teoria del ciclo prodotto, per il quale gli Stati più avanzati avevano il monopolio delle produzioni ad alta tecnologia, mentre quelli di nuova industrializzazione assorbivano le produzioni a tecnologia ormai matura (anche se tale teoria potrebbe essere rivitalizzata da una reindustrializzazione competitiva da parte delle nazioni avanzate).

La diffusione dell'informazione - basti per tutti pensare al sistema Internet - ha eliminato gran parte della gerarchizzazione delle conoscenze. Gli Stati di nuova industrializzazione (tigri asiatiche, la Cina marittima, per certi versi l'India, ecc.) passano direttamente alle produzioni più avanzate, ponendosi come pericolosi concorrenti a quelli più industrializzati ed obbligandoli ad adottare un comportamento geoeconomico offensivo. La moderna strategia geoeconomica é improntata ad uno spirito dell'offensiva, molto simile a quello che informava le concezioni militari del periodo precedente la prima guerra mondiale. E' pertanto estremamente destabilizzante.

La diminuzione dei costi delle telecomunicazioni e dei trasporti sta provocando una delocalizzazione delle produzioni. I capitali si investono dove la manodopera è più qualificata e a minor prezzo; dove le infrastrutture e i servizi sono migliori; dove il fisco é più favorevole. Si muta così in misura molto rapida la tradizionale divisione internazionale del lavoro, accrescendo gli squilibri e la competizione fra gli stati, con possibilità che la competizione economica determini tensioni e confronti politici e al limite militari.

Esiste una sempre più accentuata convergenza fra le tecnologie militari e quelle civili. Lo sviluppo tecnologico rende molto più possibile e rapido che nel passato il passaggio dall' aratro alla spada, determinando ulteriori condizioni di incertezza, di instabilità e di imprevedibilità politico-strategica. In particolare, la proliferazione missilistica e di armi di distruzione di massa é sempre meno contenibile. Manca una strategia e una dottrina operativa che indichino le linee guida da seguire per contrastarla una volta che sia avvenuta. La dissuasione nucleare del periodo bipolare - globale e razionale - non tiene più e non esercita, con il suo sofisticato equilibrio di confronto e di cooperazione, un effetto moderatore e limitatore anche nelle zone periferiche, cioé nel Terzo Mondo.

Gli Stati non sono in condizioni di fronteggiare adeguatamente le minacce non-militari alla sicurezza, di bloccare la pressione demografica e fenomeni di criminalità internazionale legati soprattutto al traffico della droga.

L'esplosione economica del Sud-Est asiatico, la diffusione di tecnologie e di armamenti sofisticati, le prospettive di proliferazione di armi di distruzione di massa, l'esistenza di grossi squilibri interni che minacciano la tenuta degli Stati e che spesso li inducono ad una politica aggressiva, il sorgere di poli geoeconomici regionali potenzialmente conflittuali fra di loro, i radicalismi religiosi e nazionali, le non risolte rivendicazioni territoriali, i contrasti etnici, ecc., stanno configurando una situazione molto diversa da quella conosciuta nei quarant'anni di guerra fredda. All'ordine di Yalta è subentrato il disordine delle nazioni. All'improbabile grande e disastrosa guerra fra i due blocchi, impedita dall'efficacia della dissuasione nucleare, si è sostituita la realtà di molte piccole guerre sia interstatali a livello regionale, sia e soprattutto infrastatali per il collasso e la contestazione a cui sono sottoposte le autorità centrali di molti stati multinazionali, quali l'ex-Jugoslavia e l'ex-Unione Sovietica.In linea più generale, sono a rischio tutti gli stati ex-coloniali, i cui confini sono stati tracciati indipendentemente da ogni considerazione etnica e storica. Nel corso della guerra fredda uno dei fattori più stabilizzanti era stata la tacita convenzione fra Mosca e Washington di non mettere in discussione i confini ereditati dagli Stati nati dal processo di decolonizzazione. Esso è ora scomparso. Non esistono paradigmi aventi un'efficacia simile a quella dell'interesse comune all'Est e all'Ovest di mantenere l'equilibrio fra i due blocchi, che possa ordinare la comunità internazionale. I fallimenti della decolonizzazione, della democratizzazione, dello sviluppo e dei processi di nation-building e di state-building negli stati ex-coloniali, stanno provocando in molti Paesi del Terzo Mondo, sia a Sud che ad Est dell'Europa, la richiesta di assistenza, di tutela, di essere - in una sola parola - ricolonizzati, possibilmente sotto forma di mandato o amministrazione fiduciaria internazionale. Ma la situazione é mutata rispetto al secolo scorso: le colonie non si cercano più, ma si rifiutano. Nessuno Stato industrializzato vuole né può assumersi l'onere di risolvere - ammesso che sia possibile - gli enormi problemi di sviluppo in tale nazioni, anche perché la copertura globale e in tempo reale dei media impediscono l'adozione delle misure alquanto brusche che avevano permesso all'Europa la pacificazione delle colonie conquistate. L'Occidente manca delle rudi fanterie necessarie per tali operazioni e non ha alcun interesse all'occupazione territoriale, dati i problemi di ordine pubblico che comporta, ed anche in relazione al fatto che può ottenere gli stessi vantaggi economici con mezzi molto più accettabili e indiretti, cioè con quelli della geoeconomia e con il mantenimento al potere di élites favorevoli.

D'altra parte, tali conflitti, anche se non coinvolgono interessi vitali dell'Occidente, influiscono sulla sua sicurezza in modi diversi. Rendono instabili i mercati ed impossibile la normalizzazione delle relazioni nord-sud ed est-ovest, che richiedono grandi investimenti e quindi stabilità e certezza. Senza di esse non é possibile lo sviluppo, premessa per la neutralizzazione dei rischi non militari alla sicurezza conseguenti alla bomba demografica e all'esplosione dei radicalismi, che finirebbero per destabilizzare dall'interno molti Stati che sono interessanti partners economici dell'Occidente.

Questi conflitti locali e regionali, inoltre, hanno un potenziale di espansione che potrebbe coinvolgere nell'instabilità aree e regioni vicine, come è ad esempio il caso della ex-Jugoslavia, in cui il conflitto attualmente limitato potrebbe internazionalizzarsi, provocando una nuova guerra balcanica.

Esiste, almeno in Occidente, il convincimento diffuso che la legittimazione dei suoi privilegi, potenza e ricchezza possa essere fondata solo sulla affermazione a livello mondiale di valori universalistici - democrazia, rispetto dei diritti umani, ecc. - derivati dall'influsso da un lato dell'internazionalismo wilsoniano, e dall'altro lato dalle emozioni provocate dai media nell'opinione pubblica e rimbalzate da questa sulle decisioni politiche. Però l' del nuovo ordine mondiale, del villaggio globale, del governo mondiale e così via, sembra entrare rapidamente in crisi, dopo i disastri della Somalia e della Bosnia. Sempre meno sostenibili sono il cosiddetto diritto-dovere d'ingerenza a fini umanitari della comunità internazionale, cioé la commistione di operazioni tradizionali di peacekeeping - basate sul consenso delle parti in lotta, sulla neutralità dei caschi blu e sul non impiego della forza militare - con operazioni di peace-enforcing, legittimate da risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, ma impraticabili nella realtà - come hanno dimostrato gli avvenimenti a Beirut, a Mogadiscio e in Bosnia. La loro efficacia infatti presupporrebbe due fatti contraddittori. Primo, che i Caschi Blu possano essere considerati neutrali da una parte anche dopo che ne sostengono formalmente o di fatto l'altra. Secondo, che siano compatibili le funzioni di arbitro con quelle di attore o giocatore proprie di quelle di peace enforcement. Uno può fare l'arbitro o il giocatore, ma non può svolgere entrambi i ruoli contemporaneamente. Ciò ha dimostrato i limiti delle istituzioni internazionali, e sta provocando un loro progressivo discredito, dopo il periodo di ottimismo o, se vogliamo, di gloria che hanno avuto negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra fredda.

Nel confronto bipolare esistevano chiari principi organizzatori: la minaccia sovietica e la garanzia americana che era valida ed affidabile proprio perché esisteva la minaccia dell'URSS minacciante interessi vitali degli Stati Uniti: poter accedere ai mercati europeo e giapponese e impedire il dominio da parte di una sola potenza dell'intera massa continentale euro-asiatica, con minaccia diretta, anche se differita, all' emisfero occidentale, cioé al territorio degli Stati Uniti.

Nella situazione verificatasi a seguito del collasso degli imperi, esterno prima e interno poi, sovietici, non esiste più un principio organizzatore. Gli Stati Uniti non vogliono e comunque non potrebbero - anche in relazione ai loro problemi interni e allo scarso rendimento economico della forza militare - svolgere il ruolo di gendarmi del mondo. Nessuno stato è disponibile a cedere una parte della sua sovranità ad un foro talmente ondivago e comunque scarsamente rappresentativo, come le Nazioni Unite. La scomparsa di una minaccia globale ad interessi vitali ha indebolito la stessa coesione dell'Occidente, talché le istituzioni europee (dalla NATO, alla CSCE - ora OSCE - alla stessa Unione Europea) concepite al tempo della guerra fredda sono più o meno in crisi e devono riadeguare i propri ruoli e programmi. L'incertezza e l'imprevedibilità dominano il futuro delle relazioni internazionali. Nessuno dei principali attori internazionali ha definito il suo nuovo ruolo.

Come si è detto, gli Stati Uniti non intendono divenire il gendarme mondiale, ma hanno chiaramente affermato (nella "Presidential Decision Directive n. 25", "Reforming Multilateral Peace Operations", del 14 maggio 1994) che interverranno nel quadro delle Nazioni Unite solo allorquando siano in gioco loro specifici interessi nazionali, e che comunque Washington manterrà una capacità d'intervento unilaterale e che si avvarrà di essa quando lo riterrà opportuno.

Questa evoluzione ha affossato qualsiasi speranza di un ordine mondiale ispirato all'idealismo wilsoniano, anche se molti utopici ad oltranza continuano a predicarne l'attuabilità. Comunque, sia le operazioni di pace e del cosiddetto umanitarismo militare, vuoi che fossero un semplice alibi che i governi occidentali, sotto la pressione dei media, hanno utilizzato nei riguardi delle opinioni pubbliche interne ed internazionali, vuoi che fossero dei paraventi per perseguire obiettivi politici nazionali di tipo tradizionale, come di fatto è rilevabile nel comportamento delle varie nazioni intervenute in Bosnia, hanno dimostrato i propri limiti intrinsici. Perciò è entrato in crisi il concetto stesso di un nuovo ordine internazionale, basato sui sistemi collettivi globali di sicurezza, mentre le opinioni pubbliche si sono accorte che anche i caschi blu forniti dai loro stati hanno il sangue rosso. Ciò non significa che siano scomparsi i concetti di sicurezza collettiva e di intervento multilaterale. Vuol dire semplicemente che il multilateralismo ha significato solo in quanto permette di realizzare in modo più efficace e più economico gli interessi nazionali dei vari Stati.

E' in questo contesto che vanno esaminati il ruolo e la strumentalità della forza militare per la sicurezza occidentale e italiana e che va approfondito l'impatto dell'evoluzione tecnologica sulle capacità strategiche necessarie o auspicabili per far fronte alle nuove esigenze di sicurezza. Il mutamento radicale subìto dallo scenario internazionale a seguito della scomparsa della minaccia sovietica li ha modificati integralmente. I paradigmi utilizzati nel passato non appaiono più idonei all'elaborazione delle dottrine strategiche, della pianificazione delle forze e della selezione e prioritarizzazione delle tecnologie da sviluppare per i sistemi d'arma e per i mezzi del futuro.

La Rivoluzione negli affari militari (RMA) non dipende tanto, o almeno non dipende solo, dalla Rivoluzione dell'informazione o dalla Rivoluzione tecnico-militare (MTR) di per se. Non è un fatto solo tecnologico. E' profondamente condizionata dal mutamento del ruolo e delle funzioni degli strumenti militari nel nuovo scenario della sicurezza regionale europea, contro rischi nel Sud o nell'Est, o mondiale, contro il sorgere di nuovi competitori globali, ad esempio contro il risorgere di una minaccia di Mosca, qualora essa riesca a ricostituire l'unitarietà politico-economico-militare dell'ex-URSS, o più verosimilmente dal sorgere di nuove superpotenze, specie della Cina, quando trasformerà in militare la sua crescente potenza economica e tecnologica.

 

2.2. Mutamento dei concetti della sicurezza

 

Nel corso della guerra fredda il significato e la natura della sicurezza, gli indicatori per valutare la rispondenza alle esigenze delle capacità militari disponibili e l'apporto che potevano dare le istituzioni collettive di sicurezza, prima fra tutte la NATO - senza peraltro trascurare l'UEO, la CSCE (OSCE) e l'ONU - erano definibili con sufficiente chiarezza ed affidabilità. Ora la situazione è completamente mutata. I mutamenti si riferiscono a tutti i settori prima ricordati.

La sicurezza occidentale mirava al contenimento della paventata espansione sovietica in Europa e in Estremo Oriente. Puntava, quindi al mantenimento dello status quo, in attesa, come era stato teorizzato da George Kennan e ufficializzato dalla Dottrina Truman (e dallo NSC 68), che le contraddizioni interne, la scarsa efficienza economica e la compressione della libertà del sistema sovietico, provocassero il suo collasso interno. Il sistema era basato sull'equilibrio del terrore che aveva assunto nei confronti della stabilità politico-strategica il ruolo del tradizionale equilibrio delle forze. L'incertezza dell'impiego delle armi nucleari e quindi della distruzione reciproca aveva sostituito l'incertezza di una vittoria militare sul campo della parte che avesse preso iniziative aggressive.

L'impiego della forza era uno strumento di ultimo ricorso. La sicurezza era prevalentemente militare. Le dimensioni tecnologiche (in un certo senso, astoriche e apolitiche) della sicurezza dominavano su tutte le altre. Il mantenimento dello status quo in Europa - che costituiva il teatro di confronto principale fra i due blocchi - era realizzato con il collegamento delle difese avanzate europee con il deterrente nucleare centrale degli Stati Uniti. La guerra possibile - cioé quella convenzionale in Europa a seguito di un'aggressione permessa a Mosca dalla superiorità delle forze del Patto di Varsavia rispetto a quelle NATO - veniva così collegata con la guerra impossibile, cioé quella nucleare generale, divenendo così la prima anch'essa impossibile. Paradossalmente, la validità di tale collegamento, per evitare che la dissuasione si traducesse in un'autodissuasione, era mantenuta rendendo meno impossibile la guerra impossibile, con i meccanismi della risposta flessibile. Le forze aeroterrestri americane in Europa rafforzavano la difesa europea, ma erano anche ostaggi per garantire la validità della garanzia americana. Le armi nucleari tattiche (poi di teatro ed ora sub-strategiche), permettendo opzioni o scenari di guerra limitata al solo territorio europeo, rafforzavano il coupling fra Europa e Stati Uniti proprio perché rendevano meno inverosimile il ricorso alle armi nucleari in caso di sconfitta convenzionale. La stessa decisione del generale De Gaulle di far uscire la Francia dalla struttura militare integrata della NATO, togliendo profondità strategica al suo dispositivo, obbligava gli Stati Uniti non solo ad una difesa avanzata, ma anche ad un rapido impiego (early use) delle armi nucleari, che proprio la dottrina NATO della risposta flessibile - rifiutata dal presidente francese - voleva evitare.

In sostanza le Forze Armate occidentali svolgevano un ruolo sostanzialmente statico. Solo nelle aree esterne (out of area), dove la linea del cointainment all'espansione sovietica non era presidiata da alleanze permanenti, le Forze Armate occidentali, soprattutto statunitensi, svolgevano un ruolo dinamico, di intervento diretto, come in Corea, nel Vietnam, o indiretto, a sostegno dei regimi che si opponevano alle guerre rivoluzionarie di ispirazione marxista. La leadership statunitense era incontestata. Il significato dei sistemi di difesa occidentali era sostanzialmente simile a quello di un'assicurazione. Con una differenza sostanziale, tuttavia, rispetto ai premi di assicurazione per responsabilità civili: in questi ultimi l'entità del premio di assicurazione non modifica la probabilità dell'evento contro cui si è assicurati. Nel caso della sicurezza, che dipende dalle decisioni del potenziale avversario, le cose sono invece diverse. L'adeguatezza del premio di assicurazione, cioé della prevenzione difensiva, diminuisce la probabilità di aggressione.

Protetto dal dispositivo statico di difesa NATO, l'Occidente condusse brillanti operazioni di destabilizzazione interna del blocco sovietico, come il sostegno a Solidarnosc e alla dissidenza sovietica, anche se il crollo dell'URSS derivò soprattutto dalle carenze proprie del sistema politico-economico-sociale comunista. Il mantenimento di un enorme apparato militare e dell'impero comportava un aumento di costi ben superiore a quello che l'economia sovietica poteva finanziare. La crisi economica delegittimò progressivamente la nomenklatura al potere. La maldestra gestione gorbacioviana del ridimensionamento delle ambizioni globali dell'URSS lo trasformò in un vero e proprio collasso, inducendo i nuovi responsabili di Mosca ad accettare, con la Carta di Parigi, condizioni addirittura incredibili, da resa incondizionata. Con essa non veniva cancellata solo Yalta, ma anche Versailles. La successiva crisi interna di Mosca, provocò lo smembramento dell'URSS riportando la situazione a quella prevista nella pace di Brest Litovsk.

Nel corso della guerra fredda l'economia in Occidente era subordinata alle esigenze della sicurezza militare: frenò la competizione economica dell'Europa e del Giappone con gli USA; servì a mantenere un adeguato apparato difensivo e la coesione dell'Occidente, anche con il finanziamento di spese sociali, proprie del Welfare State, di dimensioni mai viste nella storia, finalizzate anche ad evitare l'infiltrazione comunista nelle masse occidentali.

Ora la situazione è completamente mutata. Con la fine del Patto di Varsavia, prima, e con la frammentazione dell'URSS, poi, è scomparso ogni pericolo diretto agli interessi vitali, cioé ai territori, dell'Occidente. Esso è ora separato dalla Russia da una doppia fascia di stati-cuscinetto: gli stati dell'Europa Centro-Orientale e le Repubbliche ex-sovietiche più occidentali, dagli Stati Baltici all'Ucraina e, più a Sud, dalle tre repubbliche transcaucasiche.

L'unica minaccia militare ad interessi vitali dell'Occidente è costituita dalla possibilità di una proliferazione missilistica e di armi di distruzione di massa a Sud e da una ripresa del tentativo di dominio dell'area del Golfo, indispensabile per i rifornimenti petroliferi all'Occidente, da parte dell'Irak o dell'Iran. Ad un orizzonte comunque di lungo periodo, e comunque in termini di estrema incertezza se non di improbabilità, può essere considerata la minaccia di una restaurazione della potenza imperiale della Russia. Più credibile potrebbe essere il potenziale aggressivo della Cina che vuole modificare lo status quo impostole con i cosiddetti trattati ineguali.

Solo relativamente a tali tipi di minaccia la sicurezza mantiene la sua precedente natura di assicurazione contro possibili aggressioni. Negli altri casi si tratterà di interventi limitati esterni volti a mantenere la stabilità e la pace, cioé l'ordine codificato dal diritto internazionale che è coerente con gli interessi di fondo dell'Occidente.

Un esempio dei nuovi ruoli svolti dalle Forze Armate occidentali nel nuovo quadro della sicurezza è costituito dall'intervento nel Golfo della coalizione a leadership americana. Molti esperti lo considerano il paradigma di possibili futuri interventi in crisi regionali maggiori anche dal punto di vista delle nuove tecnologie militari e dottrine operative e tattiche seguite. In realtà si tratta di un caso irripetibile, in cui, per il conseguimento di obiettivi limitati (la liberazione del Kuwait), sono stati impiegati mezzi praticamente illimitati, con l'acquiescienza quasi collaborativa di Saddam Hussein, che non interferì con il loro schieramento e che agì in modo tanto aggressivo ed intollerabile da facilitare la coesione della coalizione e il sostegno all'intervento dell'opinione pubblica internazionale e di quelle interne degli Stati che avevano inviato forze nell'area (a parte minori dissensi, come nel caso italiano).

E' praticamente impossibile che in futuro si ripetano simili circostanze, che cioé un aggressore permetta lo schieramento indisturbato di forze di intervento esterno senza attaccare i primi reparti affluiti in zona e che non cerchi di utilizzare le vulnerabilità soprattutto comunicative dell'Occidente, per rompere la coesione delle coalizioni.

Comunque sia, gli interventi saranno decisi dai singoli Stati sulla base dell'esistenza di precisi interessi nazionali, non solo diretti (come é stato per l'Italia l'intervento di "aiuto internazionale" in Albania), ma anche paralleli o indiretti, come quello di dimostrare la propria presenza e partecipazione agli affari mondiali (come è stato il caso per l'Italia in Somalia e in Mozambico), di sostenere iniziative dei propri alleati per averne il supporto in altri settori o per ragioni di immagine o di consenso politico interno, come spesso accade per gli interventi cosiddetti umanitari, effettuati sotto pressione delle emozioni suscitate dai media sulle opinioni pubbliche. A differenza di quanto avveniva per la difesa del territorio nazionale, che è una basilare e irrinunciabile obbligazione politica, tali interventi esterni sono politicamente degli optional, soprattutto quando non sono in gioco interessi diretti. Vanno quindi considerati veri e propri investimenti, effettuati in vista del conseguimento di interessi nazionali e di quelli generali dell'Occidente. Il loro principale obiettivo sarà quello di realizzare condizioni di stabilità politica favorevoli ad un'espansione della propria area d'influenza economica e commerciale.

Si può affermare che, a differenza di quanto capitava nella guerra fredda, non è più l'economia al servizio della politica militare di sicurezza, ma è l'intervento militare che é diventato strumentale a finalità economiche. La normalità storica é stata ripristinata con tutto il suo carico di incertezza.

In ogni caso, la sicurezza non ha più dimensioni prevalentemente militari, ma è divenuta un concetto più ampio caratterizzato da una spiccata multidimensionalità e multifunzionalità. Minacce non militari, come ondate di immigrazione provocate dal rovesciamento violento degli attuali regimi politici, ad esempio nei Paesi della costa sud del Mediterraneo, potrebbero essere preventivamente fronteggiate con interventi militari interni a quei paesi, in modo da stabilizzarli, renderne più possibile lo sviluppo economico, la diminuzione della disoccupazione ed il consolidamento dei regimi politici. E' chiaro che, in tale contesto, la forza militare costituisce solo una delle componenti dell'azione degli Stati, e che spesso avrà solo un ruolo marginale, complementare e subordinato ad altre componenti, ad esempio negli interventi di peace-building, in cui i comandi militari devono provvedere in proprio all'amministrazione, ai servizi pubblici fondamentali, alla ricostituzione della polizia e di altri istituzioni politico-sociali.

Quanto più debole è uno Stato, tanto maggiormente la sua azione internazionale si potrà svolgere in settori non propriamente militari, di combattimento diretto, in quanto più adeguate a tali compiti minori saranno le proprie risorse, anche in termini di consenso delle opinioni pubbliche. Evidentemente, i ritorni sono di entità inversa.

Occorre comunque tener conto del fatto che, per affermare la sua presenza internazionale, uno Stato dispone ora di una gamma di possibilità molto più ampia che nel passato. Ciò é particolarmente interessante per l'Italia che può graduare gli interventi, in relazione all'entità dei rischi e dei costi che comportano, in relazione alla situazione contingente e al grado di consenso dell'opinione pubblica. Tale gamma - con una crescente possibilità di graduazione dei rischi e dei benefici - va dagli interventi puramente umanitari, all'impiego di forze di polizia, di forze navali, di forze aeree, per giungere all'impiego di forze terrestri di supporto e soprattutto di combattimento. Ciò può determinare soluzioni apparentemente paradossali. Se uno Stato vuole garantire con minimi rischi una sua presenza internazionale in un intervento di peacekeeping, poiché le sue condizioni politiche interne, o lo stato delle sue forze terrestri basate sulla leva, non consentono di assorbire perdite, può impiegare forze navali. Potrebbe, per esempio, decidere di investire sulla Marina e non sull'Esercito per avere una buona scusa di non effettuare operazioni più pericolose. Ovviamente, se intende aumentare il suo peso internazionale, non ha alternative: o stare a basso profilo o dotarsi di forze terrestri e di strutture idonee ad assorbire perdite senza far decadere il sostegno della propria opinione pubblica.

L'impiego della forza, soprattutto nei conflitti etnici o interstatuali, non è più uno strumento di last resort della politica. Una volta che sono scoppiati è ben difficile poterli far cessare. Occorre quindi prevenirli, come d'altronde il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Boutros Ghali ha sostenuto nella sua "Agenda per la pace". Un primo esperimento al riguardo, finora con esiti positivi, è stato realizzato con lo schieramento in Macedonia di un battaglione scandinavo e di una compagnia statunitense. Sotto il profilo tecnico-militare, si può affermare che tali missioni potranno avere un valore rilevante solo se tempestive e soprattutto solo se esiste un' escalation dominance. Essa deriva dalla possibilità materiale e soprattutto dalla volontà politica degli Stati che partecipano a tali interventi preventivi di impiegare tutta la forza necessaria in caso di fallimento della dissuasione. In caso contrario, la diplomazia preventiva si ridurrebbe a un semplice bluff e, ancora più grave, tale verrebbe considerata con perdita di prestigio delle istituzioni internazionali e degli Stati che hanno concorso a tali operazioni.

Ne deriva che la forza militare nel mondo post-bipolare non può essere più considerata strumento di ultimo ricorso, almeno sotto il profilo temporale.

Il caso della guerra del Golfo sembra sostanzialmente deviante. Non è pensabile che nella normalità degli interventi le risposte possano essere adottate con successive risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, con ultimatum a lunga scadenza e così via. Non per nulla l'Occidente è stato rimproverato per non essere intervenuto tempestivamente nella ex-Jugoslavia, permettendo l'esplosione della crisi. L' ultimo ricosrso , che tra l'altro costituisce una delle caratteristiche fondamentali perché una guerra possa essere considerata giusta, va riferito alle valutazioni dell'indispensabilità dell'impiego di una forza adeguata, non ai tempi del suo intervento. Una volta che si sia valutato che una crisi non possa essere risolta se non con l'immissione di una forza militare esterna, l'intervento deve essere tempestivo.

Parallelamente anche un altro dei principi fondamentali della guerra giusta, cioé la proporzionalità fra mezzi e fini, non può essere riferito all'entità delle forze d'intervento. Non implica la gradualità dell'impiego della forza. Quest'ultima può raggiungere risultati positivi solo se impiegata di sorpresa e a massa. Anzi, maggiore è l'entità delle forze impegnate, minore è la probabilità di doverle effettivamente impiegare e comunque inferiori sono le perdite ed il tempo necessario per la risoluzione della crisi. La minimizzazione delle perdite e del tempo costituiscono condizioni fondamentali per il successo di qualsiasi intervento di pacificazione, anche per evitare che i media erodano progressivamente il sostegno delle opinioni pubbliche.

La logica che dovrebbe presiedere gli interventi esterni dovrebbe in sostanza essere molto simile, se non addirittura identica, al concetto di force in being che ha consentito il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale nei periodi della pax augustea e della pax britannica. Lo stesso ordine e la stessa stabilità internazionale dipendono sempre maggiormente dalla propensione dell'impiego della forza da parte delle potenze favorevoli al mantenimento dello status quo. E' in un certo senso quello che capita all'interno degli Stati, in cui il regno del diritto deriva dalla forza che si dispone per imporlo, cioé dal monopolio della forza da parte dello Stato.

In sostanza la stabilità internazionale presuppone una maggiore propensione e volontà dell'Occidente di impiegare la forza, quando lo riterrà indispensabile. Se tali condizioni non esistono è inevitabile una proliferazione di crisi e comunque un costo maggiore ed un'efficacia minore degli interventi di organismi come l'ONU.

La gamma di azioni che potrebbero essere chiamate a svolgere le Forze Armate dell'Occidente è molto ampia. Non si tratta più di opporsi ad una sola minaccia, tutto sommato conosciuta nella sua entità, qualità, tempi di preavviso. Si tratta invece di approntare le forze necessarie per far fronte a minacce o nemici non conosciuti, con capacità quantitative e qualitative estremamente variabili, che potrebbero essere impiegate in tempi indeterminati, con modalità operative differenti, generalmente asimmetriche rispetto a quelle delle forze di intervento.

Un altro fattore che rende gli attuali interventi militari del tutto diversi da quelli della guerra fredda è l'influsso che i media esercitano sulle decisioni politiche, strategiche e operative. Nell'attuale società dell'informazione globale e in tempo reale, i media hanno aumentato l'influsso delle opinioni pubbliche sui processi decisionali. L'influsso degli attuali media sulla politica produce la cosiddetta videopolitica. Innanzitutto, le decisioni politiche sono influenzate non dalla realtà, ma dalla percezione della realtà provocata dai media sulle opinioni pubbliche. Un avvenimento esiste in quanto viene comunicato. In secondo luogo, i media esercitano un'enorme pressione sui responsabili politici, obbligandoli a reazioni immediate, con conseguente diminuzione dei tempi disponibili e quindi della razionalità delle decisioni, che, una volta prese, divengono condizionanti e difficilmente reversibili. In terzo luogo, i media, soprattutto la televisione, si prestano enormemente per le loro caratteristiche tecniche alla creazione di effetti e di realtà virtuali, alla manipolazione non solo delle informazioni, ma anche dei sistemi di valore con cui vengono interpretate. Questo influisce sul consenso delle opinioni pubbliche, essenziale in tutti i paesi occidentali. Esso è influenzato dalla diffusione di una cultura distorta della realtà e degli imperativi dell'impiego della forza: ad esempio, dalla convinzione che le operazioni di pace siano differenti da quelle militari tradizionali, ovvero che siano possibili interventi a zero morti. Per ultimo, la presenza diffusa ed intensiva dei media, soprattutto in caso di operazioni a bassa intensità, pone delicati problemi per la condotta operativa ed anche tattica, provocando un intervento diretto della politica in campi considerati precedentemente di esclusiva competenza militare. Si possono produrre ingerenze ed interferenze continue. Oltre che creare confusione ed intasamento delle reti decisionali e delle telecomunicazioni, esse rischiano di deresponsabilizzare i comandanti militari.

L'effetto operativo tattico della presenza dei media è quindi contrastante con le linee guida della Rivoluzione negli Affari Militari o Rivoluzione Tecnico-Militare o Rivoluzione dell'informazione. Le operazioni basate sull'informazione e la conoscenza tendono ad appiattire le strutture gerarchiche tradizionali, introducendo strutture a rete, proprio perché esse ottimizzano l'autonomia e l'iniziativa dei livelli subordinati. Invece, l'effetto dei media tende a comprimere questa autonomia.

E' questo un punto essenziale che dovrà essere affrontato da tutte le società democratiche, in cui il diritto all'informazione è sacro e tentativi di manipolazione, anche per proteggere il segreto militare, non solo sollevano gravi problemi di costituzionalità o quanto meno di principio, ma - se scoperte - possono provocare campagne stampa contro i responsabili politici e militari, delegittimandoli e privandoli del consenso delle opinioni pubbliche. Occorre che le istituzioni sviluppino un'expertise particolare, che le ponga nelle migliori condizioni per affrontare le esigenze di questa vera e propria guerra mediatica parallela, utilizzandone le possibilità anche per diminuire la coesione e la volontà di battersi dell'avversario o per facilitare i processi di pace specie sulla operazione di peacekeeping e di peace-building.

L'influsso dei media è destinato ad aumentare allorquando gli attuali mezzi, che sono di massa, si demassificheranno, specializzandosi, ad esempio, con le televisioni in cavo per agire sui singoli segmenti omogenei di audience, di cui possono essere più facilmente manipolate le percezioni e gli stessi valori di riferimento.

Al soldato-guerriero della dissuasione nucleare e della difesa avanzata, si è sostituito non solo il soldato-diplomatico degli interventi di pace - che, nella loro sostanza tecnica, sono analoghi alle operazioni di colonizzazione, di decolonizzazione o alle operazioni di controguerriglia dei precedenti decenni.

La condotta della guerra comunicativa deve tener conto delle rilevanti capacità di disinformazione di cui dispongono gli stati del Terzo Mondo o di cui hanno dato prova i responsabili dei vari conflitti combattuti nella ex-Jugoslavia. Essi sono pervenuti - soprattutto nella Campagna di Slovenia dal 25 giugno al 3 luglio 1991 - a deformare completamente la realtà, in modo coerente con i fini e obiettivi politico-militari di volta in volta perseguiti.

Non si esagererà mai l'impatto dei media sulla condotta delle operazioni future. Una delle principali vulnerabilità dell'Occidente è costituita proprio dalla volatilità delle sue opinioni pubbliche. Un impiego accurato dei media da parte degli Stati perturbatori può confondere le acque, suscitando dubbi sulla natura e sulle finalità dell'aggressore o sulla reale responsabilità dei conflitti interni. Ciò provocherà contrasti nelle opinioni pubbliche e, al limite, il blocco delle capacità politiche di decidere o di continuare un intervento.

Anche in questo caso, il conflitto del Golfo non può essere considerato un paradigma valido. L'inequivocabilità dell'aggressione è stata rafforzata dalla politica comunicativa seguita da Saddam Hussein, che si è autodemonizzato e reso odioso alle opinioni pubbliche occidentali (ostaggi, minacce di ricorso ad armi di distruzione di massa, ecc.), verosimilmente perché i suoi messaggi non erano diretti all'Occidente, ma alle opinioni pubbliche dei paesi islamici.

La guerra comunicativa parallela al conflitto reale dovrà essere condotta in maniera coerente ai livelli politico-strategico, operativo e tattico. La sua preparazione deve essere molto accurata e richiede innanzittutto un consolidamento della cultura militare, cioé delle realtà e degli imperativi dell'impiego della forza, dei suoi limiti, condizionamenti e possibilità. Sembra opportuno sottolineare ancora una volta il parallelismo esistente fra questa dimensione dei conflitti - non tanto nuova in se stessa, come si può rilevare leggendo Sun Zu e Clausewitz, quanto per la sua importanza senza precedenti in campo politico e militare - e l'essenza delle trasformazioni dei concetti di impiego delle forze, basate sulla rivoluzione dell'informazione e sul collegamento in tempo reale dei sistemi di rilevamento e d'acquisizione obiettivi con i mezzi di fuoco in profondità.

La rivoluzione dell'informazione, che permette di estendere nella profondità del tutto il campo di battaglia la distruzione anche di obiettivi duri e puntuali prima limitato ai combattimenti di contatto e ai tiri diretti, sta modificando integralmente, come di seguito verrà approfondito, il ritmo delle operazioni, sostituendo la simultaneità alla sequenzialità delle manovre e delle azioni di fuoco; la letalità delle armi e quindi la dispersione delle forze. Sta, in particolare, cambiando il tempo delle operazioni che è divenuto il fattore critico del successo, sottoponendo il dispositivo avversario ad azioni contemporanee su tutta la profondità del suo dispositivo in modo da bloccare i suoi meccanismi decisionali e le sue possibilità di reazione. Parallela alla guerra dei media è quella ai sistemi C3I dell'avversario, che mira a paralizzarlo, impedendogli manovre d'insieme, per sottoporre poi le sue forze, trasformatesi da sistema coerente ad insieme di obiettivi statici sconnessi tra di loro, ad una distruzione di dettaglio con il fuoco di profondità, riducendo al minimo il contatto diretto.

Nelle guerre della "terza generazione" avrà il sopravvento chi dominerà il campo di battaglia informativo e controinformativo. Il software ha sostituito l'hardware e l'informazione l'acciaio.

Peraltro tali sistemi militari non esprimono eguale efficacia contro tutti i possibili tipi di guerra futura. Sono efficaci contro forze armate organizzate gerarchicamente, come quelle della 2° generazione, cioé sugli eserciti industriali di massa, che sono simili a macchine. Sono invece molto meno efficaci qualora l'avversario combatta guerre della 1° generazione - quella agricola - tipiche dei conflitti di bassa intensità, come quelli etnici e, più in generale, le guerre del Terzo Mondo. Ma sono proprio questi gli avversari più probabili delle forze di intervento occidentali.

In sostanza, le forze armate del futuro devono essere strutturate, organizzate ed addestrate per operare contro avversari molto diversi. Da un lato, contro quelli che dispongono di un'organizzazione, mezzi e dottrine d'impiego che le rendano idonee a condurre combattimenti tecnologici, ad alta intensità. Da un altro lato, contro avversari che non siano in condizioni di utilizzare appieno la rivoluzione dell'informazione, ma, come l'esercito iracheno, combattano in modo tradizionale, proprio dell'era industriale. Infine, contro avversari che, come nei conflitti etnici, adottino procedimenti operativi di carattere primitivo, con le tecniche e tattiche proprie delle guerre territoriali e della guerriglia, pur utilizzando anche sistemi d'arma sofisticati, come lo stinger ampiamente utilizzato dai guerriglieri afgani.

Nelle campagne coloniali del secolo scorso e nei conflitti di decolonizzazione di questo secolo, le strutture militari europee comprendevano due tipi di forze. Il primo, proprio delle unità metropolitane, era caratterizzato da elevata potenza e rigidità. Il secondo, proprio delle unità coloniali, era dotato di elevata flessibilità e ridotta potenza. Tale bipartizione non è più praticabile se non altro per ragioni finanziarie. Occorre quindi tendere alla costituzione di forze multiruolo, caratterizzate insieme da potenza e da flessibilità, cioé da requisiti che finora sono stati considerati contrapposti, se non inconciliabili. Lo sviluppo tecnologico renderà possibile in futuro conciliare tali due caratteristiche, se le nuove tecnologie verranno adeguatamente utilizzate. Finora non lo sono state, anche se negli Stati Uniti sono in corso studi per valutare la compatibilità delle nuove tecnologie, per la loro piena utilizzazione in quelle che vengono denominate operations other than war o operations short of war.

Una vera rivoluzione negli affari militari (RMA) sarà possibile allorquando le nuove tecnologie potranno essere utilizzate completamente per tutta la gamma di conflitti possibili. Ciò comporterà l'introduzione di nuovi mezzi tecnici (armi non letali, mezzi per accrescere la flessibilità operativa, ecc.), e prima ancora l'elaborazione di adeguate dottrine strategiche e tattiche ed una riorganizzazione integrale delle forze d'intervento occidentali. Solo allora si potrà veramente parlare di Rivoluzione negli Affari Militari e non solo di Rivoluzione Tecnico-Militare. Per ora, solo talune anticipazioni sono state attuate, ad esempio con l'introduzione del principio di modularità e con la differenziazione fra le catene di comando organico da quelle di comando operativo.

 

2.3. Gli indicatori di capacità militare e il significato di vittoria

Nel periodo della guerra fredda gli indicatori della capacità militare erano chiaramente definibili. Il nemico era conosciuto. Era noto anche il campo di battaglia futuro. L'addestramento delle Forze Armate e la preparazione dei comandanti dovevano riferirsi a standard di efficienza/efficacia che potevano essere definiti con sufficiente approssimazione. Gli obiettivi di forza, qualitativi e quantitativi, potevano essere determinati in modo affidabile. Anche il significato di vittoria era chiaro. Esso consisteva nel dissuadere un'aggressione e, in caso di attacco sovietico, di ripristinare quanto prima, la situazione quo ante.

La pianificazione era threat-oriented ed aveva riferimenti certi. L'introduzione di nuove tecnologie non aveva un impatto rivoluzionario, di discontinuità rispetto al passato. Si limitava ad un processo evolutivo delle capacità esistenti, ma non ne comportava un'integrale cambiamento.

Esisteva infine una certa simmetria fra le misure e contromisure adottate dai due blocchi. Tra i quattro elementi fondamentali di qualsiasi decisione - quelli esterni, cioé le minacce e le opportunità, e quelli interni, cioé le vulnerabilità ed i punti di forza - la pianificazione generale e operativa era incentrata soprattutto sugli elementi esterni, similmente al concetto delle cosiddette strategie competitive (derivato dalle strategie imprenditoriali elaborate da Michael Porter) in cui azioni e reazioni erano parzialmente asimmetriche, mirando ogni avversario a contrastare le minacce e ad approfittare delle opportunità offerte dalla situazione. I rapporti di forza avevano un grande significato poiché il principio ispiratore era quello dell'equilibrio delle forze, in termini più generali si potrebbe dire della balance of power, e non dell'intervento effettivo. La politica di sicurezza e di difesa era ridotta sostanzialmente alle sue dimensioni tecnico-militari. Il consenso delle opinioni pubbliche alla difesa dei territori dell'Occidente poteva essere dato per scontato. L'importanza degli interessi in gioco rendeva accettabile anche un'elevato tasso di perdite.

Ora l'incertezza domina in sede sia di pianificazione delle forze sia di loro impiego effettivo. In sede di pianificazione delle forze, non si conosce né il tipo di guerra che si dovrà combattere, né il nemico, né il teatro operativo, né i tempi in cui si dovrà intervenire. Non si conoscono neppure i compiti effettivi che si dovranno svolgere, né gli alleati che faranno parte di coalizioni, poiché esse saranno generalmente di circostanza, temporanee e specifiche. Tutto è divenuto più incerto ed indeterminato.

Scomparso il paradigma della minaccia, quale nuovo paradigma può essere utilizzato per la pianificazione delle forze?

Quando l'obiettivo di un intervento non è la sconfitta sul campo dell'avversario, ma il ristabilimento di un'adeguata situazione di pace, come si fa a decidere che l'intervento abbia avuto o no successo?

Quando si può considerare concluso e si possono ritirare le forze?

Come decidere il proprio livello di partecipazione e di impegno negli interventi? Come decidere se convenga intervenire o no? Obbediscono le operazioni di pace a meccanismi ed a principi diversi da quelli considerati nelle dottrine militari tradizionali e normalmente indicati come principi generali dell'arte militare? In caso negativo, quali nuovi principi vanno adottati? Qualora non vi fosse sostanziale differenza, come convincere le opinioni pubbliche ed i responsabili politici che gli interventi di pace non vanno concepiti e condotti - ovviamente con gli opportuni adeguamenti dovuti alle differenze di situazione - in modo diverso da quello delle tradizionali operazioni di guerra?

Si tratta di interrogativi di fondo.

In caso di pianificazione delle forze, il paradigma di riferimento non può più essere costituito dalle minacce, ma dalle capacità operative e logistiche da approntare per far fronte all'incertezza dei compiti che potrebbero essere devoluti alle forze armate. L'essenza della pianificazione non è più concepibile in riferimento ai fattori esterni, ma a fattori interni, cioé alle vulnerabilità e ai fattori di potenza. La pianificazione delle forze non è più collegabile con una pianificazione strategico-operativa ben definita, anche se nei limiti del possibile occorrerà sempre tener conto anche degli scenari possibili di intervento, le cui esigenze vanno valutate in relazione all'apporto delle coalizioni di cui si presuppone di far parte nei singoli casi.

Ne fa fede il processo seguito nella Bottom-Up Review del 1993 sulla futura pianificazione delle forze degli Stati Uniti. Essa mira a porre a disposizione del Presidente USA una gamma diversificata di capacità, a cui attingere contingentemente per fronteggiare gli impegni possibili che le forze statunitensi potrebbero essere chiamate a fronteggiare. Nell'ambito di ciascuna capacità o componente delle forze si mira a determinare la gamma di minacce - estremamente variabili a seconda dei casi - che potrebbero essere rivolte contro ogni nostra singola capacità. Ad esempio, il sistema "sorveglianza, acquisizione obiettivi, fuoco di precisione in profondità" può essere oggetto di contromisure sia difensive che offensive che ne limitino l'efficacia, colpendo le sue vulnerabilità.

La pianificazione in altre parole deve essere rivolta a salvaguardare l'efficienza delle capacità operative critiche, al fine di salvaguardare le potenzialità. Si tratta di un nuovo approccio concettuale alla pianificazione, che si ispira sempre alla logica delle strategie competitive, ma che la utilizza in un contesto radicalmente diverso da quello precedente, in cui si dovevano fronteggiare un nemico determinato o quanto meno caratterizzato da un elevato tasso di prevedibilità, che conoscevano gli amici e soprattutto che di loro ci si poteva fidare, data la coesione propria delle alleanze.

Il problema da risolvere è già estremamente difficile da parte di una superpotenza come gli Stati Uniti, che intende disporre della capacità d'intervenire unilateralmente nelle varie crisi a livello globale e che, se anche prevede un sistematico ricorso a coalizioni multilaterali, mira ad assumerne la leadership. Il problema è invece molto più complesso per una media potenza. Le trasformazioni geopolitiche sono state tali, che nessuna media potenza può più essere regionale, ma necessariamente ha interessi e deve quindi disporre di capacità globali. Ovviamente i suoi interessi, come la sua capacità di proiezione di potenza, subiscono il fenomeno, così denominato dal Boulding, dell'attenuazione con la distanza, secondo un gradiente estremamente complesso e comunque variabile a seconda delle circostanze. Inoltre, mentre gli Stati Uniti possono per la loro autonomia politico-strategica, pensare di dotarsi delle forze necessarie per fronteggiare due crisi regionali maggiori (tipo Golfo, per intendersi) pressoché contemporanee, per una media potenza tale elemento di riferimento non ha significato. Una media potenza non può proporsi di agire autonomamente o unilateralmente se non in situazioni del tutto marginali. Negli altri casi parteciperà in modo più o meno consistente a seconda degli interessi nazionali diretti ed indiretti, dei rischi che intende assumere e del livello di consenso interno che ha tale intervento.

A parte la tutela di pochissimi interessi vitali - quale la difesa antimissili - non esistono parametri tecnici che consentano la definizione degli obiettivi di forza da conseguire. Lo stesso processo di ripartizione dei compiti e degli oneri consolidatosi nella guerra fredda nell'ambito di alleanze, come la NATO, non trova elementi solidi ed affidabili di riferimento, soprattutto sotto il profilo quantitativo, ma in parte anche sotto quello qualitativo. Le risorse finanziarie disponibili non consentono ad una media potenza di dotarsi dell'intera gamma di capacità operative necessarie, con l'eccezione di interventi puntuali di piccola consistenza e di breve durata, come l'azione antiterroristica, ritorsioni e rappresaglie in caso di attacco aereo o marittimo e così via. Si è quindi confrontati ad una contraddizione da un lato una maggiore politicizzazione degli interventi; dall'altro lato l'impossibilità di collegare la pianificazione delle forze ad obiettivi politici ben definiti, che dovrebbero tra l'altro indicare la consistenza degli interventi.

Le tendenze prevalenti nelle medie potenze sono di dotarsi di un complesso bilanciato ed equilibrato delle varie capacità, che corrisponda alla maggiore autonomia di intervento che ad esse è derivata dalla scomparsa della rigidità geopolitica della guerra fredda. Però le risorse finanziarie realisticamente disponibili alle medie potenze non consentono di realizzare strategicamente tale autonomia. Si impongono delle scelte che sono anche rinunce. Anche a livello europeo, la diminuzione dei bilanci della difesa rende impossibile l'acquisizione di tutta la gamma di capacità (in termini di intelligence umana e tecnologica, di trasporti strategici, di mezzi di fuoco di precisione a lunga gittata, di proiezione di forze d'intervento, ecc.) indispensabili per una reale autonomia. Solo gli Stati Uniti dispongono dell'intera gamma delle capacità necessarie. Ma, come si vedrà in seguito, l'inserimento delle capacità nazionali in un coerente contesto di capacità collettive diventa meno accettabile che nel passato, dato il mutamento della natura delle alleanze permanenti nella guerra fredda, sostituite da coalizioni a geometria variabile.

La costituzione delle CJTF (Combined Joint Task Forces) con doppio cappello NATO e UEO, accresce le capacità autonome di intervento nel solo ambito europeo, ma presenta strutturalmente forti limitazioni e condizionamenti, specie per quanto riguarda un'effettiva autonomia europea, rendendo impossibili interventi non sostenuti o quantomeno approvati dagli Stati Uniti. Ad una maggiore autonomia politica ed a una maggiore esigenza di interventi da parte delle medie potenze, fa quindi riscontro una diminuzione della capacità di intervento reale. L'intero sistema di sicurezza occidentale e l'interconnessione delle istituzioni collettive che la presiedono (NATO, UEO, CSCE, ONU, ecc.) vanno ripensati integralmente. La formula delle interlocking o delle mutually reinforcing institutions esprimono delle aspirazioni, non delle realtà e neppure dei progetti ben precisi.

Ma la definizione delle capacità necessarie o comunque auspicabili da parte dei singoli paesi richiederebbe la preventiva soluzione di tale problema. In caso contrario, è inevitabile un impiego non ottimale delle scarse risorse disponibili, con la creazione di duplicazioni e con la permanenza di vuoti. In sostanza, con l'inefficienza dell'insieme.

Anche in caso di coalizioni ad hoc per risolvere una particolare crisi, specie nel caso di interventi di pace, in caso di destabilizzazione interna degli Stati, è estremamente difficoltoso definire un concetto di vittoria, cioé quali obiettivi militari ci si debba proporre per raggiungere un determinato scopo politico. Giova ricordare al riguardo che le relazioni fra la politica e la strategia sono molto complesse e che sono influenzate dall'andamento reale delle operazioni. Non possono essere definite a priori con certezza, a parte casi del tutto eccezionali come nelle operazioni volte a facilitare un processo di pace già esistente. I sistemi di sicurezza e di difesa collettiva non posseggono organicamente la capacità di gestire operazioni militari. Solo gli Stati possono farlo. In una coalizione collettiva, come quella del Golfo, solo la presenza di una leadership dominante può garantire efficacemente tale gestione, una volta che sia stata delegata a tal fine dagli organismi internazionali, come il Consiglio di Sicurezza dell'ONU. In assenza dell'unitarietà permessa dall'esistenza di tale leadership è estremamente probabile che le coalizioni si disintegrino, per le differenze e le divergenze fra i vari Stati che partecipano all'intervento, soprattutto se esso si prolunga nel tempo, se comporta perdite o se muta il contesto internazionale.

E' questa una realtà di fatto di cui la pianificazione militare, in sede sia di preparazione delle forze sia di gestione operativa degli interventi, deve tener conto. Il problema può essere affrontato solo in modo pragmatico e contingente. L'incertezza e l'imprevedibilità dei fattori che lo influenzano non rendono possibili risposte soddisfacenti di carattere più sistemico.

D'altro canto esiste anche una profonda incertezza sulle priorità temporali da considerare nella pianificazione delle forze. L'esistenza di una discontinuità tecnologica, nella struttura e nell'equipaggiamento delle forze (lo si voglia o no attribuire alla cosiddetta Rivoluzione negli affari militari, ha poca importanza) impone degli adeguamenti molto profondi delle organizzazioni militari dell'Occidente, nonostante le contrazioni dell'entità complessiva delle forze e dei bilanci della difesa, spesso motivate dalla vuota retorica dei cosiddetti "dividendi della pace". In linea teorica sono possibili due scelte. Quella di privilegiare il futuro rispetto al presente, accettando un gap sulle capacità operative immediate; oppure quella di concentrare gli sforzi e i fondi per l'adeguamento ottimale dell'esistente, in modo da ottimizzare le capacità di intervento attuale delle Forze Armate, riconvertendole dalla difesa del territorio all'intervento esterno. Fra le due soluzioni estreme dovrà essere sempre deciso un compromesso, dato che le Forze Armate non possono rinunciare completamente né al presente né al futuro. La scelta si pone quindi in termini di priorità o di gravitazione dei programmi a favore del presente o del futuro.

Tali scelte non possono essere delegate alle tecnostrutture militari, poiché sono di competenza esclusiva delle autorità politiche. La logica interna delle burocrazie comporta la conservazione dell'esistente ed il privilegiare il breve rispetto al futuro e al lungo termine. In tale contesto è evidente che le possibilità offerte dalle nuove tecnologie non potranno essere adeguatamente sfruttate.

La pianificazione militare, da fatto prevalentemente tecnico, come era nel periodo del confronto fra NATO e Patto di Varsavia, sta trasformandosi in un'attività che deve coinvolgere i massimi livelli politici degli Stati. Gli indicatori di efficienza-efficacia non sono più tecnico-militari, ma politici. Si deve tener conto che le resistenze a cambiamenti integrali sono rafforzate dal fatto che non sono scomparsi completamente i precedenti tipi di guerra, ma che essi si sovrappongono sulla realtà strategica attuale. Ad esempio, anche se come ipotesi estrema, non è scomparsa l'eventualità di dover provvedere alla difesa delle frontiere terrestri. Ciò costituisce una ottima scusa, che fanno valere i fautori della continuità, per sostenere l'esigenza di procedere solo a modificazioni estremamente graduali, dilazionando nel tempo i cambiamenti più traumatici. Praticamente ogni programma di riforma viene così svirilizzato e trasformato in un processo. Appare invece sempre più necessario ricorrere all'elaborazione di un obiettivo futuro, di un'architettura ben precisa delle strutture delle forze e delle capacità auspicate, procedendo subito con determinazione alla riqualificazione culturale e professionale dei quadri e allo sviluppo dei nuovi materiali.

E' questo il rilievo fondamentale che si deve muovere all'attuale situazione della pianificazione italiana, cioé al cosiddetto Nuovo modello di difesa, oltre a quello che gli obiettivi di forza considerati sono stati elaborati autonomamente dalle tecnostrutture militari, anziché essere il risultato di scelte politiche e strategiche di fondo.

Gioca al riguardo in Italia anche il ridotto grado di integrazione interforze. L' informazione è il paradigma secondo cui andrebbero organizzate le Forze Armate del futuro. Essa è per sua natura dematerializzata e poco legata all'ambiente naturale, la cui differenziazione ha esaltato in passato la specificità delle tre Forze Armate, rispettivamente terrestre, marittima e aerea. La mancanza di un centro decisionale integrato impedisce di elaborare una concezione d'insieme e quindi l'unitarietà dello sforzo militare. Le singole Forze Armate sono naturalmente portate ad una visione settoriale, corrispondente ai loro interessi corporativi, dell'impatto dell'evoluzione tecnologica. Con la riduzione delle risorse finanziarie la competizione si fa più serrata e si traduce in dispersioni sempre meno accettabili, dovute proprio alla carenza di una pianificazione interforze.

 

2.4. Modifica del significato della difesa e sicurezza collettiva.

Nel corso della guerra fredda esisteva una minaccia contro l'Occidente immanente, unitaria e prevalentemente militare. Ad essa corrispondeva una struttura di difesa unitaria, che aveva sviluppato al suo interno solidi meccanismi di coupling fra le difese avanzate europee e il deterrente nucleare strategico degli Stati Uniti. Si trattava sostanzialmente di misure antidefezione, che garantivano che al momento dell'emergenza - o se vogliamo nell'ora della verità - nessuno degli Stati membri si chiamasse fuori con i più svariati pretesti.

La NATO costituiva la base della difesa occidentale in un'area ristretta. Nelle aree esterne la situazione era più incerta. Comunque intervenivano gli Stati Uniti. Ogni tentativo serio di difesa integrata europea fu abbandonato a partire dalla prima metà degli anni Cinquanta. Non era logico costituire un'alleanza nell'alleanza. Una volta che la sicurezza dell'alleanza era stata fondata sulla dissuasione nucleare e sulla tutela degli Stati Uniti, non esistevano più ragioni sufficienti per dar luogo a forze armate convenzionali consistenti, quindi integrate europee. Esse avrebbero presupposto trasferimenti di sovranità ad un'Europa politica e strategica tutta da inventare. In pratica, il sistema di dissuasione nucleare estesa americana aveva eliminato ogni incentivo a superare le resistenze all'integrazione esistenti nei vari stati. C'è da chiedersi se tali motivazioni ancora sussistano o siano da considerare superate, soprattutto alla luce di quanto previsto dal Trattato di Maastricht.

Il sistema militare della NATO, soprattutto per le forze terrestri e per l'intero sistema logistico, era scarsamente integrato. Era però interoperabile in quanto a mezzi, sistemi d'arma e organizzazione di comando, controllo e addestramento. L'integrazione si arrestava a livello Corpo d'Armata. Al di sotto le formazioni erano prettamente nazionali. Nel caso della Regione Meridionale della NATO - a cui appartiene l'Italia - tale integrazione era però praticamente nulla a livello difese terrestri: Italia, Grecia e Turchia provvedevano alla difesa del proprio territorio con forze quasi esclusivamente nazionali. Ora tali tre Paesi si trovano perciò in condizioni molto peggiori di quelle dei Paesi dell'Europa centro-settentrionale più abituati all'integrazione multinazionale. Non è quindi vero che l'Esercito italiano sia stato sprovincializzato dalla NATO. Deve farlo ora, poiché gli interventi non saranno più nazionali ma quasi esclusivamente multinazionali.

Diversa è la situazione della Marina e dell'Aeronautica, che per la specificità del loro impiego agivano in modo molto più integrato in ambito atlantico. L'addestramento ad operare in complessi multinazionali, in cui l'integrazione venga spinta fino a livelli ordinatori inferiori a quelli della Grande Unità, presenta notevoli difficoltà, che si accrescono con la complessità delle operazioni che sono chiamati a svolgere. Gli interventi esterni comportano quindi delle difficoltà ben più grandi di quelle che si verificano per la difesa avanzata NATO. Il successo dell'operazione Desert Storm è derivato dall'omogeneità realizzata con un intenso addestramento delle forze, permesso dal lungo periodo concesso dall'inattività di Saddam Hussein. Non è pensabile che tali favorevoli condizioni si verifichino in futuro.

Il dispositivo di difesa della NATO era fondamentalmente statico. La difesa avanzata, attuata in corrispondenza delle frontiere orientali dell'Alleanza, non implicava l'effettuazione di grandi trasporti strategici. Talune componenti particolarmente sofisticate (come l'intelligence, i satelliti da sorveglianza, ecc.) erano forniti alla NATO dagli Stati Uniti, che avevano sistemi nazionali di comando, logistici e di telecomunicazioni sovrapposti a quelli della NATO in tutta l'Europa. La struttura delle forze NATO era sovra-adattata alla difesa dell'Europa contro un'aggressione sovietica. Era caratterizzata da una notevole rigidità che ne rende ancora impossibile l'impiego nel nuovo contesto operativo degli interventi esterni senza adeguamenti strutturali e addestrativi profondi.

Gli Stati Europei hanno perso a partire dalla fine degli anni Cinquanta le capacità di intervento esterno. La Francia e la Gran Bretagna dopo Suez ridussero la loro capacità di proiezione di potenza. Solo gli Stati Uniti l'avevano mantenuta e la possiedono ora. A partire dalla fine degli anni Settanta, avevano creato una poderosa forza di intervento rapido, orientata a fronteggiare crisi nel Golfo Persico dopo la rivoluzione in Iran, che fino ad allora aveva rappresentato il loro campione di stabilità nell'area.

Con la scomparsa della minaccia sovietica, la situazione si è completamente trasformata. Si è modificato lo stesso significato di alleanza permanente e di difesa collettiva. Non sono più minacciati interessi vitali occidentali. L'impiego delle forze armate europee non è più statico, ma dinamico. Esse devono poter intervenire sia ad Est che a Sud. Inoltre, non sono più normalmente destinate ad operazioni ad alta intensità, ma anche a quelli di bassa e di media intensità. Tali interventi non coinvolgono più interessi vitali e diretti, ma interessi secondari (o strategici, come taluni li definiscono), di importanza spesso indiretta e comunque differita. La precedente coesione dell'Alleanza è grandemente diminuita. E' diminuita anche la sua credibilità, anche se le sue strutture hanno mantenuta piena efficienza. Un'istituzione viene giudicata non per quello che è, ma per quello che fa. Per vari motivi l'intervento della NATO in Bosnia ha avuto risultati insoddisfacenti fino allo sblocco deciso unilateralmente dagli Stati Uniti Se non si provvede rapidamente la NATO rischia di divenire irrilevante. Le sue potenzialità militari, ai fini del mantenimento della stabilità ad Est e a Sud, non potrebbero essere utilizzate pienamente. Si eroderebbe il consenso dell'opinione pubblica soprattutto americana. Non si potrebbero fronteggiare le esigenze di sicurezza dell'Est Europeo. E' proprio in tale senso che la NATO può trovare una nuova ragione d'esistenza.

E' pericoloso per l'Alleanza qualificarsi soprattutto come braccio armato disponibile all'ONU per il Peacekeeping. Tra l'altro le direttive presidenziali americane sul peacekeeping, sopra ricordate, subordinano l'impiego di forze combattenti americane alla esistenza di interessi nazionali degli Stati Uniti. Se la strategia americana nel settore sta divenendo più unilaterale che multilaterale, c'è da chiedersi come un'alleanza a leadership americana quale è la NATO possa riacquistare legittimità proprio estendendo i suoi compiti nel settore del peacekeeping.

Il ruolo della NATO si è esteso dalla difesa diretta dei territori degli Stati membri ad interventi di stabilizzazione, per il ripristino della pace e dell'ordine internazionale nelle aree esterne e quelle per cui agisce l'art.5 del Trattato e per evitare l'espandersi di crisi e di conflitti locali. L'Alleanza Atlantica non è più in grado strutturalmente di garantire per tali interventi esterni l'unitarietà e la coesione esistente nella guerra fredda. La comunanza di interessi e di valori di fondo non può evitare che gli interessi contingenti e le percezioni dei singoli Stati siano diversi. Differiscono e in taluni casi addirittura divergono quelli dell'Europa rispetto a quelli degli Stati Uniti e quelli degli Stati Europei fra di loro. Lo si rileva chiaramente nel conflitto nella ex-Jugoslavia. La gestione degli interventi é attuata dai singoli Stati in relazione anche alle particolarità della loro politica interna e alle reazioni delle opinioni pubbliche. In tali condizioni è estremamente difficile una gestione collettiva. Ciò provoca enormi difficoltà e disastrosi insuccessi politici, come è avvenuto a Beirut o in Somalia.

In sostanza, la NATO mantiene l'intera sua forza per la difesa dei territori degli Stati membri, cioé per l'effettuazione dei compiti previsti dall'art.5 del Trattato di Washington. Poiché nessuno minaccia più i territori NATO, il suo sovradattamento a tali missioni sta divenendo un fattore di debolezza più che di forza dell'Alleanza.

Il problema è prima politico e, solo subordinatamente, militare.

Sotto il profilo politico la NATO ha cercato di modificare il proprio ruolo, proponendosi come braccio armato della CSCE ( ora OSCE) e dell'ONU e di flessibilizzare la propria struttura interna, dando maggiore rilievo alla cosiddetta Identità Europea di Sicurezza e di Difesa.

Si è trattato di semplici palliativi, se non di espedienti per posticipare la vera decisione sull'adeguamento della NATO: quella della sua espansione verso Est, inglobando i paesi dell'Europa Centro Orientale ed eventualmente gli Stati Baltici nel dispositivo di difesa occidentale. Finora tale soluzione, fortemente sostenuta dalla Germania, che non vuole farsi carico da sola dell'instabilità dell'Europa Centro-Orientale, non è stata presa per non urtare la sensibilità di Mosca, che si sentirebbe esclusa dall'Europa e dovrebbe rinunciare al suo progetto di un sistema di sicurezza paneuropeo. Esso dovrebbe fornire un tetto comune di sicurezza alla casa comune europea, assorbendo nell'OCSE parte delle funzioni assolte dalla NATO.

I compiti assunti dalla NATO verso Est, con il Consiglio di Cooperazione Nord atlantico (NACC) e con il Partenariato per la Pace (PFP) hanno un rilievo solo marginale. Dovrebbero comportare una progressiva convergenza e compatibilità con la NATO dei sistemi di sicurezza degli Stati che partecipano a tali iniziative e rendere possibili azioni congiunte nel settore del peacekeeping e degli interventi umanitari. Si tratta di poca cosa. Secondo taluni la PFP è un semplice escamotage per mascherare la scarsa risolutezza o volontà della NATO di assumersi oneri e responsabilità a garanzia all'Europa Centro-Orientale. L'Occidente si accontenterebbe di aver creato una zona cuscinetto fra le proprie frontiere orientali e la Russia, lasciando gli Stati dell'Europa Centro-Orientale a sbrigarsela da soli.

In realtà gli effetti, specie del PFP, sono ancora peggiori. L'iniziativa comporta contatti diretti fra l'insieme dell'Alleanza con i singoli Paesi dell'Est Europeo, ponendoli quasi in competizione fra di loro, per maturare le condizioni che ne consentirebbero l'associazione o l'entrata a far parte della NATO. Contrasta quindi con la possibilità di accordi di sicurezza tra gli Stati dell'Europa Centro Orientale fra di loro. Quelli che si ritengono più eleggibili all'ammissione alla NATO, come la Cekia, non vogliono legarsi le mani associandosi con altri Stati la cui ammissione all'Alleanza potrebbe essere più differita.

Comunque è probabile che prima o poi la NATO si estenda verso Est. Un'azione parallela è svolta dall'Unione Europea. Il cosiddetto Patto di Stabilità, o piano Balladur, ha associato all'UEO i paesi dell'Europa Centro Orientale e gli Stati Baltici. Poiché l'UEO è anche il pilastro europeo della NATO - lo è molto più di quanto sia braccio armato dell'Unione Europea - il sistema di sicurezza NATO si sta estendendo indirettamente verso Est.

Se non si vuole che si tratti di un semplice bluff, destinato ad avere la tragica sorte delle garanzie date da Francia e Gran Bretagna alla Cecoslovacchia prima di Monaco, occorre approntare quanto prima gli strumenti necessari per dare concretezza a tale garanzia. La proiezione della stabilità dei sistemi di sicurezza occidentali verso Est, per mantenere la pace in Europa, non può consistere in semplici dichiarazioni di principio, ma deve consistere in misure concrete e in un'adeguata disponibilità di forze.

Questa evoluzione coinvolge grandemente gli interessi politici italiani.

Ad Est l'Italia ha grandi interessi, anche perché la sua industria leggera sta penetrando nell'area, spessso di concerto con l'industria pesante tedesca. Con la Quadrangolare, Pentagonale ed Esagonale (ora Iniziativa Centro-Europea) l'Italia è stata una promotrice dell'integrazione del Centro-Europa. Con la fine del confronto bipolare si è spostato anche il baricentro geopolitico dell'Italia, che è sempre meno uno stato mediterraneo e sempre più uno centro-europeo. Una gravitazione a Sud rischierebbe comunque di sottoporre ad ulteriori tensioni l'unità del Paese e di marginalizzare ancor più l'Italia dall'Europa e dal suo centro geopolitico costituito dalla Germania. E' indispensabile che l'Italia si doti degli strumenti operativi, anche militari, destinati a sostenere questa naturale e comunque inevitabile espansione dell'Europa ad Est.

Le sue esigenze militari non riguardano più la difesa diretta del territorio contro le minacce residue, né interventi da Sud nel quadro ONU, ma anche l'approntamento di forze e di capacità operative adeguate per un intervento ad est a protezione dell'area di sicurezza europea.

Le possibilità di una politica estera e di sicurezza comune europea, nonché di una politica di difesa in vista della costituzione di una difesa europea dell'Europa appare remota. Rimane tuttora evidente non solo l'inutilità ma anche il pericolo di costituire un'alleanza nell'Alleanza atlantica, qualora quest'ultima permanga, cioé che gli Stati Uniti mantengano, come sembra probabile anche nel medio termine, il loro impegno e la loro presenza militare in Europa. Le misure che possono essere adottate al riguardo - come l'Eurocorpo franco-tedesco cui hanno aderito la Spagna, il Belgio ed il Lussemburgo, o come la recente intesa italo-franco-spagnola per la forza aeromarittima e per quella intervento rapido per il Mediterraneo Occidentale - possono avere un significato solo marginale. Un'autonomia strategica dall'Europa non è relizzabile tecnicamente nel breve-medio periodo. Infatti l'Europa è priva di talune componenti militari fondamentali, come nel campo satellitare o dei sistemi C3I. Tale autonomia non sarà realizzabile neppure nel lungo periodo, a meno che non vengano adeguati i bilanci europei della difesa e non esista un accordo euro-americano globale, che consenta di conferire autonomia al pilastro europeo dell'Alleanza Atlantica. Le misure finora adottate per operare con un doppio cappello NATO e UEO, cioé per consentire all'Europa di utilizzare capacità operative proprie dell'Alleanza, non costituiscono che semplici palliativi. Se l'Europa intendesse proprio dotarsi di un'adeguata autonomia strategica, dovrebbe accettarne gli oneri, procedere ad un'armonizzazione delle pianificazioni militari degli Stati membri e, a premessa di tutto, stabilire con gli Stati Uniti una divisione di compiti in ambito NATO. Tutto questo però potrebbe incidere sulla solidità della struttura di comando militare integrata, che costituisce il fondamento stesso dell'efficienza della NATO.

Si accelererebbe in tal modo il processo di rinazionalizzazione della difesa degli Stati membri dell'Alleanza mettendo in pericolo la sua coesione e le stesse possibilità di sopravvivenza. Tale processo é per ora frenato dal ricorso sistematico alla costituzione di Corpi d'Armata o di Divisioni multinazionali (nel caso della Brigata franco-tedesca la multinazionalità è stata spinta a livelli inferiori, con una notevole diminuzione dell'efficienza operativa).

Tale multinazionalità rappresenta un ottimo accorgimento preparatorio per gli interventi esterni, dato che essi saranno generalmente effettuati su base multinazionale. Rappresenta anche una sfida per la preparazione e l'approntamento delle forze dell'Alleanza. La multinazionalità a livelli inferiori al Corpo d'Armata comporta infatti una più spiccata interoperabilità dei sistemi d'arma e dei mezzi, specie nel settore del C3I. Quest'ultimo dovrà fare il più ampio ricorso alla rappresentazione grafica degli ordini e delle informazioni, anche per superare le barriere linguistiche.

 

 

2.5. Il contesto futuro della sicurezza italiana

 

Con la fine della guerra fredda l'importanza strategica dell'Italia per l'Occidente è diminuita. Ciò ne rischia una marginalizzazione dai principali contesti della sicurezza occidentale, sia atlantica che europea e la sua singolarizzazione nel Mediterraneo. In altre parole l'Italia potrebbe essere costretta a pagare la sua partecipazione piena all'Unione Europea, assumendo il ruolo di stato cuscinetto dell'Europa Centro-Settentrionale contro le minacce da Sud.

E' un grosso rischio in quanto in tale scenario il nostro Paese sarebbe sottoposto a pesanti oneri nel campo della sicurezza, senza averne le capacità - né istituzionale, né politica, né militare - di poterlo assolvere convenientemente. Comunque, la perdita d'importanza geostrategica obbliga il nostro Paese ad una politica più attiva nell'ambito dell'Alleanza. L'Italia, come spesso si dice, deve trasformarsi da consumatrice in produttrice di sicurezza, anche per una buona ragione: che nessuno é più disponibile a produrre sicurezza che poi consumi l'Italia. La garanzia americana non può più essere pagata con la concessione di basi, ma con una capacità più attiva di partecipazione e di intervento e, più a monte ancora, con un recupero della capacità politica e operativa dello Stato.

Per sua collocazione geopolitica, l'Italia deve continuare a sostenere in ogni occasione l'esigenza di una dimensione mediterranea della politica estera e di sicurezza sia atlantica che europea. L'estensione dell'Europa verso nord e verso est, con la diminuzione oggettiva del suo interesse per il Mediterraneo, nonché le difficoltà, se non l'improbabilità, dell'emergere di una efficace difesa europea, costringono l'Italia ad attribuire molta maggiore priorità alla dimensione atlantica e ad attribuire un'importanza solo relativa a quella europea.

Gli Stati Uniti sono presenti in forze nel Mediterraneo, per i loro interessi in Medio Oriente ed in Turchia. Questi, al momento, coincidono con quelli italiani in modo completo, eccetto per quanto riguarda la Libia, considerata da Washington uno Stato fuorilegge, per i suoi presunti collegamenti con il terrorismo internazionale. Nei riguardi del radicalismo islamico - cioé di quello probabilmente sostenuto finanziariamente dall'Arabia Saudita, ma non di quello d'ispirazione iraniana o sciita - le politiche italiana e statunitense sono molto più moderate di quella francese, che appoggia invece la linea intransigente dei governi tunisino ed algerino. E' questo un aspetto che non va trascurato e che potrebbe servire da matrice per un più accentuato sostegno della politica americana in Mediterraneo.

Il processo di pace in Medio Oriente, pur non ancora stabilizzato, potrebbe consentire di riprendere il progetto di un sistema panmediterraneo di sicurezza, analogo alla CSCM proposta da Italia e Spagna nel 1990 nella conferenza di Palma di Majorca. Nell'elaborazione degli obiettivi di forza considerati nel nuovo Modello di Difesa potrebbe essere considerata una complementarietà strategica con gli Stati Uniti, parallela a quella che è stata adombrata per il Mediterraneo Occidentale con la Francia e con la Spagna.

Analogo approccio potrebbe essere seguito per i Balcani, specie nella loro sezione meridionale (Albania, Macedonia, con eventuale estensione alla Bulgaria).

L'italia, con la caduta delle rigidità del mondo bipolare, ha migliorato notevolmente la sua posizione geopolitica. E' caduto il muro interno, cioé la contrapposizione ideologica fra maggioranza ed opposizione (anche se perdura, dopo il 21 aprile 1996, con la posizione in maggioranza parlamentare di Rifondazione comunista e la sua linea di uscita dalla NATO) che impediva di elaborare progetti e programmi sulla base di interessi nazionali condivisibili da tutte le parti politiche. Più importante, si sono riaperte le tradizionali vie di traffico e di relazioni con l'Europa dell'Est. Però la crisi politica e istituzionale, nonché la scarsa efficienza degli strumenti informativi ed operativi, sia militari, che economici che comunicativi italiani, ha per ora fatto sì che tale miglioramento sia stato potenziale anziché effettivo.

L'Italia é una media potenza regionale. Economicamente, per la partecipazione al G7 e per l'ambizione di avere una posizione privilegiata nel Consiglio di Sicurezza dell'ONU, ha però anche interessi ad una presenza globale, oltre a quella sulla regione di suo più diretto interesse politico-strategico. Le sue obiettive potenzialità istituzionali, informative ed operative le impediscono e le impediranno anche in futuro di svolgere un ruolo autonomo nel settore della sicurezza, eccetto in casi del tutto particolari di interventi limitati e chirurgici, ad esempio contro sequestri terroristici di aerei, ovvero come prima reazione di ritorsione e rappresaglia in caso di attacchi missilistici o aerei al territorio nazionale, di protezione del traffico marittimo in prossimità delle coste nazionali e così via. Per il resto gli obiettivi di forza italiani devono essere determinati in funzione dell'integrazione delle nostre forze in coalizioni multinazionali, ad Est con la Germania e con la NATO, nel Mediterraneo Occidentale con la Francia e la Spagna ed in quello orientale con gli Stati Uniti.

La partecipazione e il conseguente peso politico dell'Italia sarebbero tanto più rilevanti, quanto maggiormente le capacità operative italiane fossero studiate per compensare carenze specifiche dei nostri alleati. Più sforzi, per esempio, dovrebbero perciò essere effettuati nel settore delle forze da combattimento terrestri creando sistemi in cui la mobilità strategica non sia sacrificata a favore della potenza di fuoco, o viceversa. Le nuove tecnologie consentono di costituire unità con caratteristiche intermedie fra le leggere e le pesanti. Gli sforzi e le risorse dovrebbero perciò essere orientati per costruire tali componenti oltre al reinvestimento per la modernizzazione complessiva delle tre armi, auspicabilmente integrate in configurazione interforze.

 

 

 

 

 

3. Il mutamento nei requisiti della guerra e nell'organizzazione delle Forze Armate

 

3.1. Differenza di paradigmi fra i conflitti industriali e quelli post-industriali

Per approfondire l'impatto della rivoluzione dell'informazione sui conflitti e le modalità con cui utilizzarla al meglio per realizzare effetti positivi da essa appare opportuno un cenno sulla struttura e sui meccanismi del campo conflittuale. Solo da tale analisi possono infatti emergere le differenze più significative fra le guerre industriali e quelle post-industriali.

Accenniamo prima brevemente a tali differenti paradigmi.

Il paradigma fondamentale delle prime ha un carattere meccanico, gerarchico, sequenziale sincronizzato, con poca integrazione fra le varie componenti in tempo di pace, dato che a ciascuna di esse era affidato un compito specialistico particolare. Esiste una netta distinzione fra i livelli strategico, operativo e tattico, dovuta proprio alla sequenzialità e gerarchizzazione delle operazioni. In linea generale il combattimento di contatto e i tiri diretti rivestono un'importanza determinante, così come la manovra rispetto al fuoco. I tiri diretti sono di saturazione e di neutralizzazione, dato che non esistono né mezzi di acquisizione obiettivi né sistemi d'arma in condizione di distruggere obiettivi duri e mobili. Il campo tattico è sempre dominato dall'incertezza e dalla variabilità, più che quello strategico, dato che gli avversari e i tratti di operazioni probabili sono conosciuti prima dei conflitti. In sostanza si tratta di guerre di massa, corrispondenti a società di massa e ad economie fondate sul lavoro serializzato della catena di montaggio. Il modello fondamentale del conflitto è quello del logoramento e dell'attrito. Il fattore strategico è lo spazio la cui utilizzazione obbedisce ad una legge dei rendimenti marginali decrescenti. Solo in particolari condizioni, come nella dottrina della blitzkrieg si procede ad un'integrazione più spinta delle componenti (radio, aereo e carro armato), che ha per effetto quello di dilatare il livello operativo - il livello in cui viene condotta una manovra in cui sono collegati strettamente la definizione e il perseguimento di obiettivi strategici e l'impiego tattico di consistenti formazioni di combattimento, cioé di Corpi d'Armata e di Armate in un conflitto convenzionale.

La manovra della guerra lampo tende ad evitare il logoramento, perseguendo obiettivi di annientamento con la proiezione di una forza specializzata all'interno del dispositivo avversario, per colpire i suoi gaugli vitali - di comando, di comunicazione e logistici - per determinarne il crollo, la resa o, quanto meno, la perdita di coesione e la sua trasformazione da insieme coerente in una serie di obiettivi separati tra di loro da eliminare poi successivamente.

Tali paradigmi sono in corso di superamento nelle operazioni dell'era post-industriale, che si stanno verificando in questo periodo. Essi, come già enfatizzato, non dipendono solo dall'innovazione tecnologica, se incorporata semplicemente nelle vecchie strutture e dottrine d'impiego. Provocherebbe solo un aumento - nel continuo - dell'efficienze con cui vengono eseguiti i vecchi compiti. Invece essa deve provocare un mutamento di dottrina e di struttura delle unità, che, da un lato, è contrastata, come si è già accennato, dal fatto che le esperienze del Golfo siano state assunte come il nuovo strategico, e dalle resistenze delle tecnostrutture militari, particolarmente vive allorquando vi è una ridistribuzione di compiti e di ruoli, e, dall'altro lato, é facilitata dal cambiamento del contesto politico-strategico e dalla conseguente esigenza di procedere comunque a ristrutturazioni profonde degli strumenti militari occidentali.

I paradigmi fondamentali di tali nuove operazioni sono i seguenti:

* le azioni sono più simultanee ed integrate;

* i risultati operativi e strategici non sono ottenuti con atti tattici successivi;

* il campo di battaglia è integrato, tridimensionale; l'attacco viene condotto contemporaneamente contro gli elementi avanzati e tutta la profondità del teatro d'operazioni;

*l'incertezza principale si è trasferita dal campo tattico a quello strategico;

*le operazioni sono continue e sono dirette sin dall'inizio sul centro di gravità del dispositivo avversario situato in profondità;

* per chi possiede la superiorità nel settore dell'informazione (acquisizione obiettivi compresa) è molto conveniente il combattimento in profondità rispetto a quello di contatto;

* i tiri indiretti sono più remunerativi rispetto a quelli diretti;

* si privilegia la manovra del fuoco rispetto a quella delle forze;

*il tempo è divenuto un fattore strategico più importante dello spazio, ed obbedisce alla legge dei rendimenti marginali crescenti, nel senso che un certo guadagno di tempo rispetto al sistema informativo e decisionale avversario ha maggior valore di quello di eguale durata che lo precede.

In sostanza la rivoluzione dell'informazione - nelle sue varie applicazioni militari, dalla maggiore precisione delle armi, alla molteplicità dei sensori, alla fusione in tempo reale delle informazioni, alle sue applicazioni sui sistemi esperti e sull'intelligenza artificiale - permettono una gestione molto più decentralizzata delle operazioni, cioé la loro demassificazione. restano tuttavaia accentuate le funzioni di pianificazione generale e centrale, ad esempio l'individuazione del centro di gravità dello sforzo. L'abbinamento fra i sensori informativi e le armi di precisione in profondità, determinano il cosidetto complesso intelligence-strike, che ogni comandante applica ad un determinato spazio della battaglia in cui realizza l'integrazione di tutti i sensori e di tutti i mezzi di manovra e di fondo, per intasare il sistema informativo-decisionale dell'avversario e bloccare ogni reazione coerente.

I sistemi gerarchici tradizionali, propri delle operazioni sequenziali, vengono compressi, pur senza potersi trasformare in sistemi completamente orizzontali, a rete. Il vantaggio della rete rispetto al sistema verticale è la rapidità, l'adattabilità, la responsabilizzazione conseguente all'autonomia e allo spazio d'iniziativa lasciato ai livelli inferiori. Le sue limitazioni derivano dal fatto che sistemi completamente orizzontali, a rete, non sono in grado di realizzare l'unitarietà e la concentazione degli sforzi, specie in caso di forti variabilità ed imprevedibilità delle situazioni.

A parte la tendenza a ridurre i livelli gerarchici, presenti in tutti i Paesi, e quella di intensificare le cooperazioni interforze, settore in cui l'Italia presenta notevoli ritardi, poco si è fatto se non sovrapporre alle reti gerarchiche dei sistemi informativi orizzontali che consentono ai comandi in sottordini di accedere in tempo reale a tutte le informazioni. Non è però da escludere che, a simiglianza di quanto sta capitando in taluni gruppi industriali si determini un'espansione delle strutture a rete rispetto a quelle gerarchiche tradizionali.

Un'interpretazione dell'impatto di tali cambiamenti può essere compiutamente intesa solo ampliando l'orizzonte e cercando di collegarli nelle strutture e meccanismi che operano nei conflitti. Se infatti le modalità con cui combattere sono cambiate, le cause e la natura dei conflitti non si sono modificate sostanzialmente

 

3.2. Natura e meccanismi del campo conflittuale

 

Qualsiasi conflitto comporta sempre due fatti diversi tra di loro: la prova di forza, che consiste nello scontro fra le forze dei due avversari, e il confronto di volontà, che è di natura psicologica e che consiste nel tentativo di ciascun contendente di indurre l'avversario a piegarsi alla sua volontà.

Il confronto di volontà è l'elemento determinante. Si impiega la forza infatti solo per convincere l'avversario a fare quello che vogliamo. Per inciso, questo comporta il fatto che dobbiamo aver deciso in anticipo quello che si vuole imporre all'avversario. In altre parole come debba essere la pace che segue il conflitto. Se non esiste soluzione politica del conflitto o dell'intervento o dell'impiego della forza, non può esservi neppure soluzione militare. E' quanto viene spesso criticato alle organizzazioni internazionali, che prima intervengono e poi decidono a quale scopo. Devono invece aver deciso i lineamenti della pace che segue il conflitto, cioé i confini e chi deve esercitare il potere.

Non averlo fatto nella ex-Jugoslavia ha determinato disastrosi effetti sulla stessa credibilità e coesione dell'Occidente.

Dall'obiettivo politico che ci si propone deriva la scelta degli obiettivi militari e della strategia da seguire per l'impiego della forza militare allo stato potenziale, utilizzandola come mezzo della diplomazia della violenza, a scopo di dissuasione o di coercizione. Si cercherà poi sempre di influire sulla volontà dell'avversario con pressioni psicologiche, con mezzi non militari (economici, finanziari, ecc.), con azioni di destabilizzazione interna, con la propaganda e con la contropropaganda.

La guerra in sostanza non può essere considerata in isolamento dalla società e dal contesto internazionale in cui si svolge. E' sempre stato così. Basta leggere Sun Tsu per rendersi conto come la soft-war è sempre esistita. Come la prova di forza, cioé l'impiego effettivo della potenza militare sia stato un mezzo di ultimo ricorso, poiché é più costoso e pericoloso degli altri. Ma parimenti, in determinati periodi storici, specie in quelli caratterizzata da una notevole turbolenza come gli attuali, la riluttanza ad impiegare tempestivamente la forza quando necessario è stata parimenti disastrosa e destabilizzante. Quello che è mutato è il collegamento fra gli ambienti esterni e i conflitti conseguenti allo sviluppo dei media moderni. Danno una copertura globale e in tempo reale. Le caratteristiche tecniche proprie del mezzo televisivo, in particolarequando si specializzerà per segmenti omogenei di audience, condizioneranno sempre più le dinamiche del confronto di volontà, influendo anche sull'impatto che sul primo ha la prova di forza, cioé le operazioni militari vere e proprie.

Inoltre, la diffusività dei media, specie nei conflitti a bassa intensità, è talmente elevata da poter condizionare l'azione a livello operativo e tattico, influenzando il comportamento dei comandanti militari. Diviene sempre più indispensabile, ai fini del mantenimento del consenso dellae opinioni pubbliche, utilizzare il supporto di veri e propri esperti di effetti e di realtà virtuali, che svolgono operazioni comunicative parallele e coerenti con quelle militari. Diviene anche necessario, per dare rispettabilità agli interventi, disporre di armi non-letali che riducano le perdite avversarie, specie nella popolazione civile, nonché utilizzare sistemi e mezzi particolarmente telegenici.

Dall'altro lato vi è la prova di forza. Essa mira al conseguimento di obiettivi militari che consentano di vincere il confronto di volontà, che siano coerenti con gli obiettivi politici che ci si propone.

La prova di forza non è indipendente dalla politica. Il processo politico-strategico è continuo e non viene interrotto dallo scoppio delle ostilità. L'andamento delle operazioni influisce non solo sulla volontà di continuare il conflitto, ma anche sugli obiettivi che ci si propone. Ciò presuppone l'esistenza ai massimi livelli istituzionali degli Stati di organismi di coordinamento politico-strategico, in grado di provvedere a tale gestione in tempo reale, data la variabilità, l'imprevedibilità e la rapidità d'evoluzione delle situazioni. La loro inesistenza ha pesato grandemente sull'efficacia della gestione anche di crisi minori, come quella avvenuta a Mogadiscio nell'estate 1993.

A seconda degli obiettivi perseguiti e del contesto politico-strategico generale, la prova di forza può assumere una natura completamente diversa. Da un lato, l'obiettivo militare può consistere nella distruzione dell'avversario, in vista della sua resa incondizionata, della sua debellatio, dell'annientamento delle sue capacità militari. E' quanto è capitato nelle guerre napoleoniche o nei due conflitti mondiali. Dall'altro lato, l'obiettivo può essere più limitato. La forza militare viene impiegata come un fioretto, semplicemente per indurre l'avversario a piegarsi alla nostra volontà, convincendolo che facciamo sul serio e che non si tratta di un bluff. E' questa la generalità dei casi d'utilizzazione della forza militare nella storia ed è il tipo di impiego che sembra affermarsi nelle attuali operazioni cosidette di pace o di stabilità, in cui non sono in gioco interessi vitali e la cui razionalità é strettamente condizionata dal contenimento delle perdite e dei costi.

Le modalità tecniche, tattiche e strategiche di impiego della forza non differiscono nei due tipi di conflitti. Per essere efficiente/efficace la forza deve essere sempre impiegata a massa, di sorpresa, con determinazione, in entità adeguata al tipo di resistenza che si presume di incontrare. Obiettivi limitati non comportano né un impiego frazionato o graduale della forza, né una limitazione all'entità delle forze da schierare. Quanto maggiore è la loro entità minori sono le perdite e più ristretti i tempi per ottenere una decisione. L'esistenza di una elevata superiorità può indurre il nemico a cedere senza combattere. Paradossalmente un attaccante è costretto a combattere quando è debole, non quando è forte. In questo secondo caso però realizzare i suoi obiettivi semplicemente con l'impiego potenziale della forza militare

Nella sua forma più schematica e semplificata, un conflitto consiste nello scontro fra un attaccante e un difensore, in cui le perdite di un contendente equivalgono ai guadagni dell'altro. Il gioco è a somma nulla. Nella realtà, le cose non sono così, ma molto più complicate. Infatti, guadagni e perdite trovano la loro definizione non in loro stessi, ma in relazione agli obiettivi particolari e generali che i due contendenti perseguono, ed ai sistemi di valore che determinano le loro valutazioni. Obiettivi e sistemi di valore sono sempre asimmetrici.

Ad esempio, un popolo che lotta per la propria sopravvivenza può accettare dei tassi di perdite molto elevati. Per un altro, che ha interesse solo marginale in un conflitto, le stesse perdite sarebbero inaccettabili.

Queste asimmetrie costituiscono elementi determinanti in ogni decisione strategica. Basti considerare quelle esistenti fra gli Stati Uniti e l'Irak. Esse hanno determinato una condotta strategica del conflitto del Golfo del tutto diversa.

Il conflitto si svolge in un campo che è determinato dagli orientamenti strategici dei due avversari e che è influenzato dalle loro decisioni. Gli elementi costitutivi di tale campo sono costituiti dalle forze contrapposte, dal tempo e dallo spazio.

Il campo conflittuale non è indipendente. I due contendenti sono interconnessi con i sovrasistemi politici che li hanno generati. Gli strumenti militari non perseguono fini propri e sono un'espressione delle società. Il conflitto non ha alcun significato in se, ma solo in relazione agli obiettivi politici che si intendono perseguire. I rapporti fra guerra e politica sono rapporti di mezzo rispetto a fine. La vittoria militare non ha alcun senso, se non in quanto consente di realizzare una condizione di pace più conveniente di quella che si produrrebbe qualora non si facesse ricorso alla forza.

Un esercito è poi espressione di una società. Le motivazioni che ne determinano la coesione non provengono dal suo interno, ma dalla società stessa.

Una guerra non la fa, non la perde o non la vince l'esercito, ma l'intera nazione. Questi rapporti di subordinazione e di dipendenza dei sistemi militari dai più ampi sistemi politico-sociali di cui fanno parte hanno un'importanza determinante nei conflitti. Essi si collocano al di sopra delle matrici conflittuali rappresentate dallo scontro vero e proprio fra i due sistemi armati.

La guerra è lo strumento di una visione politica. Una strategia concepita in termini puramente militari non ha significato. E' la politica che determina gli obiettivi da conseguire e le modalità generali con cui raggiungerli. Evidentemente chi definisce i fini deve farlo in modo commisurato a quanto si può mobilitare strategicamente. Se non vi è coerenza, si determinano delle vulnerabilità e la forza militare viene proiettata su direzioni che non conducono agli obiettivi fissati dalla politica o che non è in condizioni di raggiungere.

Ad esempio, un esercito può separare in un conflitto etnico due popolazioni omogenee, presidiando una fascia di terreno interposta fra di esse. Non può però imporre a loro di vivere assieme, se non lo vogliono fare.

Un esercito, poi, non è solo un sistema tecnologico, decisionale e informativo. E' un sociosistema. L'elemento umano gioca un ruolo determinante. Esiste coesione e volontà di combattimento solo in presenza di salde motivazioni psicologiche e morali. Essi si fondano sul consenso e sul sostegno della società. Se non esistono, si determinano delle vulnerabilità inabilitanti dell'efficienza militare.

Determinante al riguardo è la percezione delle minacce, che giustifica il ruolo e l'impiego della forza militare. Quando l'avversario si presenta come un non nemico, il sistema si depolarizza. Un soldato rifiuta di uccidere o di farsi uccidere da uno che non considera nemico. Ma la distinzione nemico-amico è fatta, all'esterno dell'esercito, dal sistema sociale.

Quanto è capitato in Cecenia all'esercito russo è una chiara dimostrazione dell'importanza della coesione e della motivazione dei soldati. Le guerre si fanno con le armi, ma si vincono con gli uomini. Gli eserciti non potranno mai essere trasformati in imprese o in macchine di distruzione. La componente morale è tanto più rilevante quanto più le operazioni sono a bassa intensità. Al soldato guerriero della dissuasione nucleare è subentrato il soldato-samaritano degli interventi di pace.

Nella fascia confinaria fra sistema militare e sovrasistema sociale esistono sempre vulnerabilità e opportunità che, al di fuori del campo conflittuale vero e proprio, influiscono in maniera rilevante sulle capacità operative di un esercito e soprattutto sugli esiti dei conflitti. E' per questo che la strategia militare non è indipendente, ma va guidata da una strategia globale, che incorpori anche altri elementi: politici, psicologici, economici e sociali.

3.3. Le forze

Le forze sono sia materiali-tecnologiche, sia morali-psicologiche. Queste ultime sono importanti al pari delle prime. Conferiscono infatti coesione ad un esercito e sono alla base della sua capacità di combattere. Se un contendente è molto più debole dell'altro, l'aspetto psicologico costituisce l'elemento principale, la base stessa della sua capacità operativa. Fa accettare privazioni e tassi di perdite enormi, compensando la superirità materiale dell'avversario. E' quanto capita per i guerriglieri nei confronti di un esercito regolare.

Determinante è poi il livello tecnologico degli armamenti. La rivoluzione delle informazioni ha modificato non solo le dimensioni spazio-temporali dei conflitti, ma lo stesso modo ed accettabilità dell'utilizzazione della forza militare come strumento della politica degli Stati.

La tecnologia può determinare un divario qualitativo fra i due sistemi contrapposti. Al limite, esso impedisce al contendente più debole una resistenza frontale a uno scontro diretto che lo obbliga a scegliere procedimenti di azione più indiretti, nei quali l'avversario non possa esercitare appieno la propria superiorità tecnologica.

La guerra è sempre un fenomeno asimmetrico. Ciascun lato cerca di ottenere un vantaggio competitivo sull'avversario, colpendone le vulnerabilità, coprendo le proprie e utilizzando al meglio i fattori di potenza di cui si dispone.

3.4. Il tempo

La seconda dimensione strategica fondamentale è costituita dal tempo. Esso assume significato diverso per il difensore rispetto all'attaccante. Per il primo si tratta di guadagnare tempo, per poter contromanovrare efficacemente e, a livello più generale, per poter mobilitare le proprie forze, cercare alleati, logorare anche psicologicamente l'avversario. Per l'attaccante, accade esattamente il contrario. Quanto minori sono i tempi dell'azione, tanto più egli può concentrare le proprie forze, far valere la propria superiorità, impedire ogni contromanovra, raggiungere di sorpresa i propri obiettivi, evitare reazioni del sistema internazionale.

L'evoluzione tecnologica ha compresso enormemente le dimensioni temporali. La comparsa dell'aereo e del cingolo ha accresciuto in misura impressionante la velocità di movimento delle forze, conferendo un vantaggio all'attaccante rispetto al difensore. I tempi accettabili per una reazione sono diminuiti in modo rilevante. Le decisioni devono essere prese in tempi brevissimi rispetto al passato. Il tempo può non essere più il santo protettore della difesa, come diceva Clausewitz. La sua importanza è rimasta però determinante, soprattutto in caso di conflitti di tipo non tradizionale, come quelli di guerriglia.

La sola durata del conflitto comporta un logoramento progressivo delle forze regolari e può provocare la sconfitta. Infatti, il costo della prosecuzione delle operazioni di controguerriglia tende a superare ed a divenire incompatibile con gli obiettivi che si intendono raggiungere, mentre il prolungarsi delle operazioni, senza il conseguimento di risultati decisivi, provoca un progressivo logoramento del sostegno dell'opinione pubblica.

Ciascun contendente tende a plasmare il tempo secondo i propri intendimenti, generando per la controporta delle situazioni di vulnerabilità (attacco a sorpresa, velocità dell'azione, prolungamento del conflitto, ecc.). La rivoluzione delle informazioni è soprattutto il complesso intelligence-strike in profondità consente all'attaccante di comprimere al massimo i tempi della decisione, colpendo sin dall'inizio tutta la lunghezza del dispositivo nemico e distruggendo il suo centro di gravità (in linea di principio, il suo sistema C3I) senza la mediazione di successivi attacchi e di progressive penetrazioni in profondità. La manovra delle forze e i combattimenti di contatto, che svolgevano nella blitzkrieg un ruolo determinante, possono svolgere un ruolo solo accessorio, di eliminazione delle unità nemiche ormai disarticolate. L'attacco contemporaneo, nonché la possibilità di continuare il combattimento anche di notte, può bloccare i sistemi informativi e decisionali dell'avversario, determinandone la paralisi e l'inazione. Possono essere ottenuti risultati decisivi prima che il nemico abbia il tempo di metabolizzare l'effetto dell'attacco.

3.5. Lo spazio

Nello spazio si muovono le forze contrapposte, che si attaccano o si difendono. In secondo luogo, lo spazio, al pari del tempo, rappresenta un fattore moltiplicatore della potenza della difesa. La cessione di spazio da parte del difensore logora l'attaccante, che deve montare successivi attacchi senza poter agganciare e distruggere le forze del difensore che si sia sottratto all'offesa con un ripiegamento. Le linee di comunicazione dell'attaccante si allungano: i rifornimenti diventano più onerosi; una maggiore quantità di forze deve essere impiegata per l'occupazione del territorio conquistato e per la sicurezza dei movimenti. Quanto più un contendente è debole rispetto all'avversario, tanto più deve fare affidamento sullo spazio per rinforzare le proprie capacità difensive sviluppando la sua azione in profondità per logorare l'avversario e per guadagnare tempo. Se è troppo debole, una difesa frontale diviene impossibile. Il difensore deve allora diluire le sue forze sul territorio, in modo da rendere impossibile all'attaccante il loro aggancio e la loro distruzione. per mantenere il controllo del territorio occupato l'avversario dovrà dividere le proprie forze in piccoli nuclei, determinando così dei punti deboli che possono essere attaccati con successo attraverso azioni di guerriglia.

Il progresso tecnologico ha dilatato in maniera sensibile gli spazi strategici e tattici, o, se vogliamo, gli spazi di dominio degli organismi militari moderni. Il concetto di spazio di battaglia dovrebbe costituire il paradigma di riferimento per l'attribuzione a ciascun livello ordinato di determinate capacità di direzione integrata dei sensori e dei sistemi erogatori del fuoco (indipendentemente dal fatto che le piattaforme siano terrestri, aeree o navali), nonché delle forze di manovra che possono operare in tale spazio.

La gittata, la potenza e la precisione dei moderni mezzi di fuoco, unite alle capacità di sorveglianza e di acquisizione obiettivi hanno mutato l'importanza relativa del combattimento di contatto rispetto al fuoco indiretto. Il primo dipende dalla manovra delle forze, che devono essere portate a massa e di sorpresa a distanza balistica delle forze che presidiano i settori in cui si intende esercitare lo sforzo. Il secondo salta le difese confinarie del dispositivo avversario, colpendo anche gli elementi schierati in profondità. I combattimenti da successivi e seriali divengono simultanei.

La gittata delle armi è aumentata da qualche kilometro dell'artiglieria all'inizio del secolo alle dimensioni intercontinentali dei moderni missili. Anche gli spazi dell'azione si sono enormemente accresciuti, con la motorizzazione, la meccanizzazione e l'aeromobilità da un lato; con la maggior portata dei sensori informativi, dall'altro.

Come accade con il tempo, ciascun contendente cerca di sfruttare lo spazio per amplificare la propria potenza e per ridurre la propria vulnerabilità.

Lo spazio è polarizzato e quindi organizzato nell'ambito di ciascun piano di operazioni. Ciascuno tende ad estendere il proprio spazio di dominio. Quando un contendente lo ha esteso in maniera non compatibile con le proprie forze si determinano delle vulnerabilità. Clausewitz menziona in proposito il punto culminante della vittoria, superato il quale un attaccante perde la sua superiorità e può venire contrattaccato con successo dal difensore. La maggiore gittata delle armi, unita alla loro precisione e potenza, svincola in parte la profondità dell'azione dalla distanza, appiattendo il gradiente di diminuzione della potenza con la distanza che ha costituito una delle caratteristiche fondamentali dei conflitti svoltisi fino ad ora. Parallela a questa attenuazione è quella dell'importanza dello spazio come componente strategia, ora di rilievo rispetto al tempo, come prima è stato posto in evidenza. Inoltre si é accennato l'importanza della dispersione, della mobilità, dell'incisibilità alla detezione avversaria.

Il campo di battaglia sta divenendo molto più vuoto che nel passato, mentre diminuisce l'apporto che il terreno dà alla potenza del difensore rispetto a quella dell'attaccante. Anche questo modifica notevolmente la situazione precedente, dando un netto vantaggio all'offensiva rispetto alla difensiva. Infine va notato che la diminuzione dell'importanza dello spazio -alla cui differenziazione era ed è tuttora legata la differenza fra le piattaforme dei sistemi d'arma terrestre, aerei e navali - costituisce un poderoso stimolo per l'integrazione interforze, spinta anche ai minori livelli e per il passaggio dal concetto delle combined arms a quello delle joint arms. Le operazioni terrestri divengono pertanto estremamente instabili, assumendo in parte le caratteristiche proprie nel passato delle sole operazioni navali. Le formazioni da combattimento terrestri saranno ulteriormente diradate in task force mobili, che manovreranno con ampia autonomia, connesse fra di loro da reti informative e decisionali, che consentiranno di far intervenire nello spazio di battaglia di ciascuna formazione tutti i mezzi di fuoco in grado di operare efficacemente in tale spazio stesso.

3.6. Le strutture informative decisionali

 

Ogni sistema militare è articolato in varie componenti collegate fra di loro da una rete di comunicazione.

La configurazione più o meno gerarchica o più o meno a rete della struttura definisce le caratteristiche di ciascun sistema e, in particolare, il suo grado di centralizzazione e di decentramento. In questo secondo caso, le singole componenti godono di maggiore autonomia. Possono così reagire più rapidamente nei micro-campi conflittuali, mentre le nuove strutture a rete informative e decisionali permettono la loro concentrazione nel tempo e nello spazio più del fuoco che delle forze per svolgere un'azione unitaria. Le decisioni strategiche possono aumentare o diminuire il grado di autonomia dei sottosistemi.

Ogni sottosistema svolge una sua funzione specifica che si articola sempre, indipendentemente dal livello, in tre componenti: sensori informativi (I), organi decisionali (D) e forze per l'azione (A). L'input è costituito da flussi informativi provenienti dal campo e relativi sia alle azioni avversarie che ai risultati conseguiti dalle proprie azioni, legati da un processo continuo di causazione reciproca. Esistono delle vulnerabilità specifiche di ciascuna componente ed altre relative alla rete di comunicazione che le collega.

Occorre approfondire tali vulnerabilità, in particolare quelle dei sistemi informativi e di quelli decisionali. Esse diverranno obiettivo privilegiato nella battaglia dell'informazione e dell'anti-informazione, che costituiranno aspetti decisivi delle future operazioni belliche e, in particolare, delle fasi iniziali dei conflitti, come si è peraltro verificato nella guerra del Golfo.

L'informazione ha un carattere centripeto. E' un segnale dato dai sensori che attiva, dopo essere stato interpretato e valutato, gli organi decisionali. Questi ultimi elaborano le informazioni trasformandole in ipotesi circa le possibilità e le intenzioni avversarie, caratterizzate ciascuna da una specifica probabilità, implicita od esplicita. All'inizio di un conflitto, quando i sistemi C3I avversari sono perfettamente efficienti, le possibilità di manovra dell'avversario sono molteplici. In termini generali, sono limitate solo dalle sue possibilità tecnologiche-materiali e dai vincoli posti dal campo. Man mano che i due sistemi vengono a contatto, l'azione dei due contendenti si precisa e le strategie possibili diminuiscono di numero. Esisterà, comunque, sempre un notevole livello di indeterminazione per il fatto che il comandante avversario può mutare il dispositivo e cambiare direzione di attacco.

In situazioni di completa incertezza, occorre mantenere aperta la più vasta gamma possibile di opzioni, per poter attuare quella che consenta di raggiungere l'obiettivo con il massimo rendimento in relazione alla situazione specifica. Quando la situazione nemica è completamente determinata o quando i sistemi C3I avversari sono stati neutralizzati o distrutti, paralizzando la libertà d'azione avversaria, si possono invece adottare tutte le predisposizioni che ottimizzano l'impiego delle proprie forze, secondo una linea d'azione che, pur essendo completamente rigida ed immutabile, polarizzi la loro potenza sulle vulnerabilità ormai certe dell'avversario. Anche il comandante avversario farà la stessa cosa. Ne risulta il valore determinante:

* da un lato, dell'informazione, che permette la previsione di cosa farà il nemico e quindi di pianificare la propria azione;

* da un altro lato, della tempestività delle decisioni, per la mutevolezza continua del dispositivo avversario, e della flessibilità organizzativa, per poter reagire rapidamente e sfruttare le opportunità contingenti;

* infine, dei canali di comunicazione fra le tre componenti informativa, decisionale ed operativa. Se essi sono bloccati, il sistema diventa incoerente ed entra in collasso, anche senza avere subito perdite. Le comunicazioni costituiscono l'apparato nervoso del sistema.

Il sistema informativo presenta delle vulnerabilità specifiche. Esse possono derivare sia dalla carenza sia dall'eccesso di dati informativi. Nel primo caso, il nemico e il campo conflittuale restano indeterminati. Nel secondo caso, si determina l'impossibilità di discriminare le notizie rilevanti da quelle prive di significato.

L'avversario può agire sul rendimento del sistema informativo, da un lato, con l'inganno e con lo stratagemma, cioé la diffusione di segnali e di notizie false. Dall'altro, con il mantenimento del segreto, con la sorpresa, con l'imprevisto, con l'occultamento, con il mascheramento e così via. Infine, con la creazione di disturbi sui sensori informativi e sui canali di comunicazione. Queste vulnerabilità del sistema informativo si ripercuotono sul sistema decisionale, deviandolo o paralizzandolo. Le nuove tecnologie accrescono la gamma degli stratagemmi e degli inganni possibili, dalla cui interazione in futuro, come nel passato, sarà caratterizzato ogni conflitto.

3.7. Il sistema decisionale

Ciascun conflitto è costituito di una sequenza di decisioni e di azioni. La coerenza nello spazio e nel tempo delle decisioni assunte viene realizzata con un piano di operazioni. Nello stesso modo in cui il sistema informativo mette a fuoco progressivamente le componenti del campo conflittuale, in particolare le ipotesi circa la linea di azione contrapposta, anche il piano di operazioni si precisa nel corso del conflitto.

Le principali vulnerabilità del sistema decisionale risiedono nel modello disponibile per l'interpretazione delle informazioni, nella metodologia per l'elaborazione degli ordini e nelle capacità di adeguamento alla varietà, cioè di autoregolazione del sistema. Allorquando modello e metodologia sono rigide, si adottano decisioni stereotipate, da manuale, completamente scollate dalla situazione reale. Quando sono invece labili, l'incertezza e incapacità decisionali possono amplificarsi fino a produrre la paralisi. Se i tempi imposti dall'avversario non consentono di riprendersi, l'intero sistema entra in collasso.

Solo in caso di assoluta superiorità qualitativa e quantitativa delle forze e nel caso che l'avversario non adotti strategie asimmetriche, le operazioni si possono svolgere secondo una pianificazione preconfezionata, come nel caso della Guerra del Golfo. A mano a mano che la situazione diventa più bilanciata ed incerta, acquistano invece importanza crescente la flessibilità e la capacità di sfruttare le opportunità e di contrastare le minacce contingenti. In ogni caso occorre tendere all'ottimizzazione temporale del ciclo IDA. Essa consente un vantaggio decisivo sull'avversario.

Ma per far questo occorre modificare le strutture decisionali ed organizzative interne ed anche i sistemi di relazioni umane e di valutazione/remunerazione del personale, per aumentare lo spirito d'iniziativa, il dinamismo e la tenuta morale e psicologica. L'organizzazione a rete del sistema informativo e la possibilità anche dei livelli in sottordine di avere accesso in tempo reale a tutte le informazioni necessarie sulla situazione propria e nemica, conferisce al sistema decisionale una notevole flessibilità di azione e di reazione. La salvaguardia dell'unitarietà dell'azione, da cui dipendono la realizzabilità degli obiettivi e l'economia delle forze rappresenta l'elemento critico dell'organizzazione a rete. Non sarà solo necessaria una pianificazione centralizzata, specie in fatto di definizione del centro di gravità dell'azione, ma anche una particolare capacità dei comandanti nel settore della cosiddetta disciplina delle intelligenze, in cui i livelli inferiori sono in condizioni di interpretare correttamente gli intendimenti operativi di quelli superiori e di adottare le conseguenti decisioni.

In altre parole, per esprimere le sue intere potenzialità, la rivoluzione dell'informazione non deve dar vita a sistemi centralizzati, caratterizzati da un elevato livello di rigidità e da un'incapacità strutturale di adeguarsi rapidamente all'imprevisto e di sfruttare tempestivamente le opportunità che via via si manifestano.

 

3.8. Le forze operative ed i meccanismi interni di un conflitto

 

Ai fini dell'esplorazione dei nuovi paradigmi che caratterizzano le operazioni belliche post-industriali appare particolarmente utile concepire ciascun avversario contrapposto come un sistema.

Ogni sistema è caratterizzato da confini, da un insieme di sottosistemi interni in parte analoghi ed in parte specializzati in particolari ruoli operativi (sorveglianza; acquisizione obiettivi; strike in profondità; difese antiaerei e antimissili; forze marittime di pressione di potenza; forze speciali; forze di manovra; organi logistici; ecc) e da una rete di relazioni sottosistemiche interne, che in sostanza è costituita dal C3I, che taluni ora denominano C4I2, aggiungendo il coordinamento e l'informatica. Tale rete dà coerenza all'insieme e costituisce il cuore ed il centro nervoso del sistema. In caso di conflitto si può agire sui confini, sui sottosistemi e sulla rete delle relazioni sottosistemiche interne. Sui confini si stabiliscono le difese confinarie: o per distruggervi con combattimenti di contatto e in tempi successivi le forze nemiche o per crearvi una breccia per penetrare all'interno del sistema nemico al fine di colpirne i punti deboli o per sfruttarne con attacchi indiretti i varchi esistenti e fare penetrare all'interno del sistema una massa specializzata d'attacco, anche di dimensioni ridotte, ma tendente a colpire il cuore del sistema avversario. Tale possibilità è ora consentita dal complesso intelligence-strike senza coinvolgimento delle difese confinarie.

In sostanza la rivoluzione dell'informazione ha prodotto in campo militare effetti analoghi a quelli che ha provocato in campo economico: la diminuzione dell'importanza delle frontiere e la dematerializzazione della ricchezza. L'informazione è potenza, come in economia è un fattore produttivo, la cui piena utilizzazione consente di gestire in modo più efficiente, a parità di risultati, l'utilizzazione degli altri fattori produttivi (capitale, lavoro e materie prime).

Le forze disponibili sono tradizionalmente ripartite in tre aree: due con finalizzazione offensiva e la terza a protezione dei propri punti deboli, cioé delle proprie vulnerabilità. Una prima parte delle forze viene impiegata in manovre preparatorie, intese a disorientare il comandante avversario e ad indurlo a reazioni che determinino i punti deboli da attaccare. Una seconda quota è destinata all'attacco vero e proprio. Una terza parte è impiegata per coprire i propri punti deboli, al fine di impedire all'avversario reazioni che potrebbero consentirgli il successo, prima che l'attacco abbia conseguito risultati decisivi.

La componente più importante è quella destinata all'attacco. Pur essendo tale, essa non comprende necessariamente la massa delle forze disponibili. Infatti, può essere costituita solo da una loro aliquota specializzata, la cui potenza è esaltata dall'imprevedibilità e dalla rapidità dell'azione contro punti vitali del sistema avversario. Con la rivoluzione tecnologica e con la capacità dei tiri indiretti di distruggere anziché solo di neutralizzare, l'attacco non è più effettuato solo dalle forze di manovra che si concentrano nel combattimento di contatto, ma con l'attacco in profondità sia con il fuoco convenzionale sia con mezzi elettromagnetici, per la distruzione dei sistemi C3I avversari.

Tentazione costante di molti comandanti è quella di proteggere tutti i propri punti deboli. Essa comporta una dispersione delle proprie forze e una diminuzione della propria capacità di proiezione di potenza sull'avversario. Se obbedisce a tale approccio conservatore, un comandante perde progressivamente la sua libertà di azione, determina ed irrigidisce il proprio dispositivo, diviene incapace di reagire all'imprevisto, di contrapporre alla concentrazione dell'avversario proprie concentrazioni di potenza e di sfruttare i punti deboli dell'attacco dell'avversario per metterlo in crisi. Le forze disponibili vengono concentrate sulle difese confinarie. Volendo essere forti dovunque, si diviene deboli in ogni punto.

La linea d'azione che l'esperienza storica dimostra più saggia è invece quella di destinare alle difese confinarie dei propri punti deboli le forze strettamente indispensabili per resistere ad un attacco avversario per il solo tempo necessario all'afflusso di rinforzi tratti da una riserva centrale; di limitare la difesa statica, quindi soggetta all'iniziativa avversaria, alla protezione dei soli punti deboli vitali; e di mantenere le altre forze disponibili per colpire dinamicamente le vulnerabilità dell'avversario, al fine di squilibrarne il dispositivo e di indurlo a sospendere l'attacco. Questa tendenza è incrementata dalla rivoluzione dell'informazione.

La decisione circa la ripartizione delle forze fra le aliquote destinate alle manovre preparatorie, all'attacco e alla protezione costituisce l'elemento essenziale di ogni decisione strategica e tattica. Evidentemente essa non può essere presa una volta per tutte. Evolve nel tempo a seconda della situazione, in continuo mutamento per il gioco delle azioni e delle reazioni dei due contendenti. Il tutto è caratterizzato da una estrema mobilità, da una manovra continua, in cui i dispositivi contrapposti e i loro punti di forza e di vulnerabilità si spostano in continuazione nel tempo e nello spazio. In tale contesto, una vulnerabilità non è significativa se il nemico non ha la possibilità di colpirla prima che venga protetta, con l'afflusso di riserve o con un ripiegamento tempestivo. La velocità di azione e di reazione è determinante più ancora della potenza materiale delle forze. L'intelligence strategica e l'efficacia dei sistemi di comando e controllo, che permettono una reazione tempestiva al mutare dell'ambiente e dell'azione avversaria, assumono importanza cruciale. L'avvenimento non è subito, ma provocato.

In sintesi, le forze che attaccano rappresentano lo stress che incide sul sistema avversario. Il rapporto fra intensità dell'attacco e danneggiamento subito dal sistema colpito non è lineare, dato che un ruolo amplificante degli effetti dannosi è giocato dalla vulnerabilità e che, a sua volta, il danno subito amplifica quest'ultima. A parità di potenza dell'attacco, sistemi con diversa vulnerabilità presentano gradi di danno diversi. Nella forma più schematica il danno è rappresentato dall'entità delle perdite. La riduzione di vulnerabilità ad opera della difesa è diretta al massimo contenimento dei danni. La difesa può essere però effettuata, non solo riducendo la propria vulnerabilità, ma soprattutto colpendo la vulnerabilità e riducendo così l'intensità dello stress. Un'azione diviene conveniente quando il rapporto esistente fra danni arrecati e danni subiti è favorevole rispetto alle linee di azione e agli obiettivi complessi perseguiti. Tutte queste tendenze si sono accresciute nei conflitti post-industriali, proprio perché le frontiere hanno perso gran parte delle loro tradizionali capacità di difesa. La migliore difesa, anzi l'unica difesa possibile, rimane spesso ormai solo l'attacco, la dinamicità e variabilità del dispositivo, per confrontare l'avversario con situazioni impreviste ed impedirgli di utilizzare i suoi mezzi di fuoco in profondità.

3.9. Strategia di logoramento e strategia d'annientamento

Quando si attacca una vulnerabilità, si produce un danno all'avversario. Il danno aumenta la vulnerabilità del sistema che l'ha subito. Una prosecuzione dell'attacco provoca quindi effetti amplificanti di danneggiamento. Se questo supera un determinato livello, il sistema attaccato entra in collasso.

La scienza militare considera in proposito due soglie. La prima è quella della neutralizzazione. Quando l'ha raggiunta, un complesso militare diventa inabile a proiettare sul nemico una potenza offensiva e deve concentrare sforzi e risorse per la propria sopravvivenza. Solo con rinforzi esterni e dopo un certo tempo può riorganizzarsi e riacquistare capacità operativa. La seconda è la soglia della distruzione. Quando l'ha superata, un reparto precipita verso il collasso completo. Non è più in grado di agire come un sistema coerente e neppure di riorganizzarsi nel corso dell'azione, assorbendo rinforzi esterni. Deve perciò essere sostituito e fatto ripiegare per recuperare i suoi elementi residui, al fine di sottrarli ad una totale distruzione. In caso di danni molto concentrati nel tempo, qualora cioè non esista nessuna possibilità di riorganizzazione del sistema nel corso dell'azione, si considera che le soglie di neutralizzazione e di distruzione vengano superate allorquando un reparto abbia perso rispettivamente il 30% e il 50% delle sue forze iniziali. Allorquando vengono raggiunti i valori di soglia si determinano delle discontinuità, cioé un'amplificazione delle vulnerabilità e dei danni. Dall'analisi storica delle battaglie emerge chiaramente tale effetto amplificante delle perdite, a cui corrisponde anche un'accelerazione del combattimento, illustrata, ad esempio, dall'aumento della velocità di penetrazione nel dispositivo avversario, fino a che quest'ultima non viene frenata da fattori logistici.

Il significato delle soglie di neutralizzazione e di distruzione è tipico della strategia dell'approccio diretto, del logoramento, dell'attacco dal forte al forte e alle difese confinarie. Esso mira a vincere il piano di operazioni del nemico mediante la distruzione materiale delle sue forze. Gli elementi del dispositivo avversario in tale caso vengono considerati sostanzialmente indifferenziati, come se, anziché costituire un sistema fossero un semplice insieme di obiettivi puntuali e sistematicamente distrutti. La loro distruzione comporta delle perdite elevate anche per l'attaccante. La strategia del logoramento si basa sull'urto brutale e sull'attacco sistematico.

Ad essa si contrappone un altro modo strategico, più raffinato ed economico: la strategia dell'annientamento, detta anche strategia dell'approccio indiretto o dell'attacco dal forte al debole. Essa mira a conseguire la vittoria non a mezzo della distruzione delle forze nemiche, ma producendone il collasso con la vulnerazione di un loro punto critico. L'obiettivo non sono tanto le forze, quanto il piano di operazioni nemico. In ogni caso, le componeneti del dispositivo avversario non sono considerate eguali. Ciascuna è differente dalle altre e va considerata per il suo valore sistemico. Quando sono parti essenziali, il loro collasso produrrà quello dell'intero sistema. Altre componenti, se distrutte, potranno invece essere sostituite, e il loro danneggiamento non si ripercuoterà amplificandosi all'interno del sistema.

Tale tipo di attacco era fondato (ed è tuttora fondato nei conflitti tradizionali) più sulla rapidità delle mosse, sulla sorpresa e sull'adozione di una linea d'azione a cui il nemico non abbia predisposto una contromanovra adeguata, che sulla potenza. Ora, con l'attacco elettronico è possibile conseguire i medesimi risultati colpendo il cuore del sistema avversario trascurando le difese confinarie e colpendo i sottosistemi che gli conferiscono coerenza sistemica. La blitzkrieg può essere attuata con il fuoco e non con la manovra.

3.10. Morfogenesi delle strutture nel corso del conflitto

Un sistema militare non è mai unitario. E' sempre suddiviso in componenti elementari complementari fra di loro ed in parte intercambiabili.

La possibilità del comandante di muovere le componenti elementari nel tempo e nello spazio conferisce un'elevata flessibilità al sistema ed evita che il collasso di una componente si ripercuota disastrosamente sul tutto.

Questa flessibilità, conseguente alla particolare struttura degli organismi militari, li rende particolarmente suscettibili, rispetto ad altri sociosistemi, di reagire dinamicamente e in tempi molto rapidi ai mutamenti di situazione e al variare dell'azione avversaria. Ciascuna componente elementare è dotata di una propria autonomia. Ma il collasso o la distruzione di una componente possono essere compensati, più facilmente che in altri casi, mediante l'impiego di altre. La stessa struttura cellulare propria dei sistemi militari è finalizzata a realizzare la massima elasticità. Ciascuna componente elementare non ha importanza in sé, ma solo nei riguardi del sistema nel suo complesso. Essa può essere sacrificata deliberatamente, per evitare danni al livello superiore. Anche quando viene ad essa conferita elevata autonomia, il grado di centralizzazione permane molto elevato. L'autonomia è concessa di volta in volta, a seconda dell'azione che ciascuna componente deve svolgere. Il conflitto è il regno dell'imprevisto. L'autonomia di una componente consente una reazione più rapida di quella di un sistema più centralizzato, in cui i tempi di risposta dipendono da quelli di risalita delle informazioni e di discesa degli ordini.

Di fronte ad un mutamento della situazione o all'azione avversaria, il sistema si adegua modificando le sue strutture e la disposizione relativa delle sue componenti elementari. Nel complesso tutti i fattori in gioco nel campo conflittuale, compresi il tempo e lo spazio, vengono plasmati nel corso delle operazioni, generando dinamicamente mutevoli strutturalità. Lo stesso danno, entro i limiti determinati dalla potenza complessiva del sistema, è reversibile, nel senso che i rinforzi possono riprodurre la struttura danneggiata o distrutta.

La vulnerabilità è in continuo movimento, nel gioco dell'esposizione delle forze all'attacco, nei ripiegamenti e, in generale, in tutte le modifiche del dispositivo.

La tempestività dell'adeguamento delle strutture alle esigenze della situazione è determinata dalla cultura, non solo della classe dirigente, ma dell'intera organizzazione. Essa non è facile da cambiare e richiede una dottrina capace di adeguarsi alla mutevolezza delle circostanze, di metabolizzare il cambiamento, di imparare retroattivamente dall'esperienza dei combattimenti in corso.

E' in questo senso che negli Stati Uniti si parla di learning doctrine che richiede un'elevatissimo grado di flessibilità strutturale e di una notevole rapidità di azione e di reazione. A questo riguardo, le risposte organizzative che sono state adottate sono diverse. Alcuni mirano a ridurre la vulnerabilità delle componenti critiche del dispositivo, ad esempio trasferendo quanto più possibile nello spazio extra-atmosferico le componenti critiche del sistema C3I. Altre che verranno di seguito approfondite, riguardano la distinzione fra la catena di comando organica e quella operativa, nonché la strutturazione modulare delle unità in modo da calibrare la potenza degli interventi alla situazione contingente.

 

3.11. Organizzazione delle Forze Armate

A) Multinazionalità.

L'integrazione multinazionale sarà attuata a livelli inferiori di quelli a cui ci si arrestava nella guerra fredda. Da un lato ciò rappresenta una reazione alle tendenze alla rinazionalizzazione della difesa. Dall'altro lato è una misura addestrativa per la preparazione agli interventi che avranno un sempre più spiccato carattere multinazionale. Corrispondono infatti ad interessi comuni a più stati e, quindi, nessuno stato intende assumerne in proprio gli oneri.

La multinazionalità pone gravi problemi di interoperabilità,a livello organizzazione di comando e controllo, e ancor più logistico, qualora i mezzi in dotazione non abbiano comuni le parti di consumo. Di fondo, è la necessità di risolvere problemi di natura linguistica e di differenti abitudini di vita. Comporta la revisione del ciclo formativo degli ufficiali e la disponibilità adeguata di fondi per addestramenti all'estero.

B) Integrazione interforze

L'informazione non è collegata con la specificità dell'ambiente naturale che ha caratterizzato sinora una differenziazione più o meno rigida fra le tre componenti - terrestre, navale e aerea - delle Forze Armate. L'integrazione interforze non può essere un fatto occasionale, da attuare solo contingentemente solo in caso d'impiego. Deve essere resa strutturale. Ciò presuppone l'elaborazione di una dottrina interforze, di una pianificazione interforze, di una elaborazione interforze dei concetti tattici e di una soluzione delle tecnologie da utilizzare. Attualmente in tutti i Paesi, ma in misura particolarmente accentuata in Italia, il livello d'integrazione interforze è particolarmente limitato, né si può ritenere che possa essere migliorato senza un robusto stimolo politico.

Non è prevedibile che la situazione possa migliorare in misura notevole. Quanto meno si dovrebbe tendere ad aumentare il livello d'interoperabilità, riservando allo Stato Maggiore Difesa una certa percentuale dell'investimento complessivo delle Forze Armate per finanziare programmi finalizzati a tale obiettivo.

C) Distinzione tra dipendenze organiche e dipendenze operative. Modularità delle unità.

L'imprevedibilità e la mutabilità delle situazioni in cui possono intervenire le Forze Armate non permette la costituzione di unità calibrate per esigenze operative standard, come è stato normalmente praticato da tutte le Forze Armate dei paesi avanzate a partire dal secolo scorso. Le formazioni operative e tattiche, soprattutto negli interventi di peacekeeping, di peacebuilding, ecc, cioè in tutte quelle che negli Stati Uniti vengono denominate operations short of war o operations other than war, sono generalmente diverse dalle unità organiche.

Tale pratica ha dei riflessi negativi sulla coesione delle unità, che decise anche dalla stabilità dei contatti personali con i comandanti e dall'esistenza di fattori intangibili dell'efficienza militare come lo spirito di corpo. Tuttavia diviene indispensabile per la necessità di graduare le capacità alle esigenze.

Le modularità per gli interventi esterni è una diretta conseguenza dei seguenti fattori:

* variabilità della potenza, della mobilità e di capacità tecniche particolari (ad esempio, nel campo del genio) a seconda delle esigenze particolari dell'intervento;

* progressività di impegno, a mano a mano che le unità affluiscono nel teatro operativo;

* attribuzione di capacità totali, a giro d'orizzonte, alle prime formazioni che affluiscono in zona e che, a differenza di quanto è capitato nel conflitto del Golfo in cui lo schieramento è stato del tutto indisturbato, senza interferenze irakene, possono essere destinate ad entrare immediatamente in azione per superare resistenze o contrasti;

* capacità di escalation e de-escalation realizzando un livello di potenza variabile a seconda delle circostanze e della gestione politico-strategica dell'intervento;

* esigenze connesse con la rotazione periodica delle unità utilizzate negli interventi esterni.

Alla modularità organica e al ricorso a strutture operative diverse da quelle esistenti in tempi normali deve corrispondere una modularità del supporto logistico che deve essere adottato anche ai livelli superiori a quello del singolo modulo in modo da non appesantire eccessivamente quest'ultimo riducendone la mobilità. Il settore logistico è presumibilmente quello più complesso. Comporta maggiori difficoltà, data la ricca gamma di mezzi in dotazione e l'esigenza di livelli di specializzazione molto più elevati per procedere alla manutenzione e riparazione dei mezzi rispetto a quelli necessari per il loro impiego.

 

3.12. Integrazione tra i livelli strategico, operativo e tattico

Le forze terrestri tradizionali, a partire dal secolo scorso, sono state organizzate in una articolata serie di livelli (dalla squadra al gruppo d'armate) che venivano schierati sul terreno in scaglioni successivi parte con compiti predeterminati, parte in riserva per consentire ai comandanti di far fronte ad imprevisti o di sfruttare occasioni favorevoli, e che effettuavano manovre e combattimenti, coordinati e armonizzati ai livelli gerarchici superiori. La manovra delle forze era in un certo senso separata dai combattimenti, anche perché si svolgeva al di fuori di massicce interferenze nemiche. Tutto il supporto logistico e di comando era sottratto all'azione diretta del nemico. Tutt'al più esso poteva sviluppare un'azione di disturbo in profondità, ma quella di distruzione era concentrata sulle forze avanzate avversarie successivamente a contatto, sia per la ridotta precisione dei sistemi d'arma sia per l'indisponibilità di sensori informativi che consentissero un'informazione globale ed in tempo reale nella profondità del dispositivo nemico.

In sostanza la sequenzialità dei combattimenti era dovuta all'assoluta preminenza delle azioni di contatto con quelle in profondità. Ciò separava in maniera netta i livelli strategico, operativo e tattico; i combattimenti sono sequenziali; il livello operativo collega quello tattico con quello strategico senza sovrapposizioni; la profondità della battaglia è limitata.

Con la blitzkrieg il livello operativo si sovrappone in parte a quello strategico e a quello tattico, coordinandone direttamente parte delle attività, per adeguarsi all'andamento delle operazioni e per utilizzare le opportunità che si presentano.

Nei futuri scenari di guerra, come anticipato da quella del Golfo, le organizzazioni e le tecnologie che consentono un combattimento simultaneo e continuo su tutta la profondità della battaglia (che quindi coincide con quella dell'intero teatro operativo), i tre livelli si fonderanno.

Il livello operativo non sarà più di collegamento o di coordinamento fra quello tattico e quello strategico ma di integrazione fra i due.

C'è da chiedersi se la funzione dei vari livelli intorno ad un sistema informativo/decisionale ottimizzato allo sfruttamento del complesso intelligence-strike, non debba provocare nelle forze terrestri una compressione della catena gerarchica, con la riduzione di ulteriori livelli di comando.

Molti eserciti stanno studiando tale situazione, ma non risulta che siano stati adottati al riguardo delle soluzioni concrete, anche perché in nessun Paese è sinora stata applicata la cosiddetta Rivoluzione negli affari militari, pur in corso di studio. Ciò non è derivato solo dalle resistenze delle strutture burocratiche al cambiamento, ma anche alla riduzione delle forze e dei bilanci. Nessuna Forza Armata può rinunciare alle capacità operative immediate per dedicarsi al futuro. Caso mai normale è proprio la tendenza contraria. La rivoluzione delle forze e delle risorse finanziarie aumenta ulteriormente le difficoltà a trasformazioni rapide. I nuovi mezzi sono allora introdotti nel contesto dei concetti e delle strutture esistenti, e non vengono utilizzati al massimo delle loro potenzialità.

 

 

4. Valutazione del cambiamento nei sistemi militari indotto dalle nuove tecnologie

 

 

4.1. Parametri di valutazione del mutamento negli affari militari

Il concetto di rivoluzione ingloba quello di soluzione di continuità. Richiamando quanto detto in premessa, ogni epoca storica è caratterizzata da un modo particolare di fare la guerra, parallelo a quello con cui viene prodotta ricchezza. Esistono perciò tre tipi di guerra: agricola, industriale e post-industriale. L'avvento di un tipo, tuttavia, non elimina quelli precedenti, per cui i vari tipi di guerra convivono dando luogo a conflitti disomogenei.

Una rivoluzione negli affari militari non può essere ridotta ad un semplice rapido sviluppo tecnologico nel settore degli armamenti, ma può derivare dalle seguenti cause:

* da trasformazioni politico-sociali, come ad esempio quelle avvenute con la Rivoluzione Francese che, trasformando i sudditi in cittadini, permise l'introduzione della coscrizione obbligatoria e la costituzione di eserciti di massa, che dettero a Napoleone un vantaggio decisivo, finché analoghe riforme politico-sociali non furono adottate anche negli stati della coalizione antinapoleonica;

* dall'utilizzazione di mezzi civili come le ferrovie e il telegrafo, che trasformarono completamente le operazioni militari a partire dalla guerra di secessione americana o dalla guerra franco-prussiana;

*.da innovazioni dottrinali e organizzative, come quelle adottate per la blitzkrieg, che integrarono tre sistemi già esistenti - la radio, il carro armato e l'aereo - in un insieme operativo coerente, destinato a penetrare in profondità colpendo i punti critici del dispositivo avversario;

* infine, dall'introduzione di nuove tecnologie nel settore dei sistemi d'arma e dei mezzi militari. Generalmente esse vengono utilizzate per migliorare l'efficacia delle organizzazioni e delle dottrine operative e tattiche in vigore, finché con la loro progressiva diffusione provocano dei mutamenti più profondi. In realtà la guerra del Golfo, assunta come paradigma dell'attuale rivoluzione negli affari militari è stata una guerra intermedia fra quelle industriali e quelle post-industriali, che si verificheranno allorquando saranno completamente cambiate le dottrine e le organizzazioni esistenti e che saranno integrati nella battaglia terrestre i sistemi parziali, non solo di telecomunicazione, osservazione e posizionamento, ma anche di combattimento (ad esempio laser e raggi X)

Ciò che é importante a fini operativi (e filosofici) è l'integrazione delle tecnologie in sistemi; dei sistemi in reti che assolvano funzioni complementari, e delle reti in un architettura globale interforze. Solo allorquando si potrà pervenire a tale unitarietà, si sarà effettuata una vera e propria rivoluzione rispetto agli assetti ora esistenti.

Quello che invece è cambiato integralmente è il contesto politico-strategico. La vera rivoluzione negli affari militari attualmente in corso deriva, prima ancora che dalla rapida evoluzione della tecnologia militare, dal mutamento di compiti e funzioni degli strumenti militari: dal ruolo statico di dissuasione a quello dinamico di intervento esterno in una gamma di missioni che vanno da quelle umanitarie, di peace-keeping, di peace-enforcing e di concorso alla stabilità e sicurezza nell'Est europeo.

Di tale fatto si è ampiamente trattato nella prima sezione del presente studio. In questa sede, si tratterà del secondo aspetto, cioè di quello propriamente tecnologico e delle capacità militari conseguenti all'utilizzazione delle nuove tecnologie dei sistemi d'arma e degli altri mezzi militari. Giova riaffermare ancora che a breve-medio termine non si tratterà di rivoluzione, ma di evoluzione, se non altro perché mancano i fondi per un'introduzione massiccia dei nuovi sistemi nelle strutture militari di tutti i Paesi, anche degli Stati Uniti. Una vera e propria discontinuità rispetto alla situazione attuale si verificherà prevedibilmente entro 15-25 anni, a meno che le contromisure che saranno sicuramente adottate non stabilizzino la situazione, erodendo la superiorità tecnologica di cui fruivano gli Stati Uniti nel corso della guerra del Golfo. E' da sottolineare in proposito che una delle principali aree di conflittualità futura è il Sud-Est asiatico. I paesi della regione hanno dimostrato di possedere ottime capacità di utilizzare in campo civile le tecnologie dell'informazione, che costituiscono la base del miglioramento delle prestazioni dei sistemi d'arma esistenti. Di conseguenza, dovrebbero essere in condizioni di sfruttarle anche nei settori militari. Il mantenimento della superiorità qualitativa degli Stati Uniti comporterà un'accelerazione dello sviluppo tecnologico che verosimilmente l'Europa, in generale, e l'Italia, in particolare, non saranno in grado di seguire. Ne deriverà una dipendenza strategica più accentuata dagli Stati Uniti, che disporranno del monopolio dei sistemi d'arma e dei mezzi delle ultime generazioni.

Questo gap determina un problema politico-strategico molto rilevante, anche in termini di integrabilità delle forze europee con quelle americane in ambito NATO, o per le CJTF a doppio cappello NATO e UEO. Poiché una condizione di completa subordinazione politico-strategica non appare accettabile in quanto diminuirebbe l'autonomia dell'Europa. Non sembra esserci alternativa allo sviluppo di capacità e di tecnologie simmetriche, per lo meno in alcuni settori critici, rispetto agli Stati Uniti.

Ad esempio in campo spaziale militare, a cui gli Stati Uniti dedicano risorse 15-20 volte superiori a quelle europee, l'Europa non può evidentemente pensare di dotarsi di capacità speculari con quelle americane, ma deve puntare a soluzioni diverse, ad esempio rinunciando a satelliti dedicati, e ricorrendo in tempi normali alla rete satellitare civile, da integrare in caso di emergenza con minisatelliti d'opportunità.

 

4.2. Forze terrestri

Le componenti terrestri sono quelle più influenzate dalle nuove tecnologie. La manovra del fuoco di precisione in profondità, capace di distruggere obiettivi puntuali e protetti e il centro di gravità del dispositivo avversario, cioé il suo sistema C3I, all'inizio delle operazioni, ha sostituito la manovra delle forze o, almeno, è divenuto un elemento determinante della battaglia.

Ne risultano modificati profondamente tutti gli aspetti del combattimento terrestre, vi viene integrato quello aereo e per la parte relativa all'osservazione e alle telecomunicazioni anche la dimensione spaziale. Esse vanno non solo coordinate ma integrate in un sistema unitario. E' evidente che la manovra del fuoco non potrà sostituire integralmente la manovra delle forze, soprattutto nelle operazioni a bassa intensità. Tuttavia chi dispone della superiorità tecnologica nel settore dell'informazione tenderà sempre più a privilegiare i tiri indiretti a distanza, rispetto a quelli a distanza ottica, di contatto. Potrà in tal modo limitare notevolmente le perdite proprie e con una serie di manovre di fuoco simultanee distruggere gli elementi critici del dispositivo avversario, paralizzandone le reazioni. Quando si parla di fuoco, ci si riferisce anche alle azioni di guerra elettronica e di attacco ai sistemi informativi e decisionali avversari (ad esempio, con la diffusione di virus nei sistemi informatici avversari). Le aree maggiormente interessate riguardano i seguenti settori.

1°. Mobilità e dispersione delle forze connesse con gittata e letalità dei mezzi di fuoco avversari. La densità delle forze sul campo di battaglia e la loro dispersione sul terreno sono sempre dipese nella storia dalla letalità del fuoco avversario. Il suo attuale aumento diminuisce la densità delle forze, obbligando anche a prevedere una maggiore potenza a livello delle minori unità, non solo in termini di armamenti organici, ma anche di capacità di utilizzazione tempestiva dei mezzi di fuoco di cui dispongono sia i livelli superiori sia le unità laterali. La fusione delle informazioni, la trasmissione in tempo reale della situazione propria e avversaria e l'utilizzazione di supporti alle decisioni, basati sulla simulazione e sulla realtà virtuale, consentiranno una notevole flessibilità, autonomia e potenza operativa ai comandanti in sottordine, ben superiore a quella consentita loro dai mezzi di cui dispongono in proprio. Si eviterà così anche un eccessivo appesantimento delle unità, che potranno conservare un elevato grado di mobilità.

2°. Volume, precisione e gittata delle armi brilliant, a testata autocercante, rispetto a quelle smart attuali che richiedono sempre una assistenza da parte dell'operatore. La precisione fa sì che il fuoco indiretto assuma caratteristiche simili a quello diretto e che la manovra del fuoco sostituisca in gran parte quella delle forze. La manovra del fuoco è simultanea, mentre quella delle forze è sequenziale. I ritmi del combattimento si accelerano. L'unica cosa che la manovra del fuoco non può effettuare rispetto a quella delle forze è di occupare il terreno e di far svelare con il contatto diretto forze nemiche che sono riuscite a sfuggire alla detezione dei sensori dei sistemi RISTA (Reconnaissance, Intelligence, Surveillance and Target Acquisition).

3°. Integrazione sistemica. Di essa si è già ampiamente parlato. A parte l'integrazione intelligence-strike vi è quella fuoco-manovra e l'attribuzione ai comandanti anche ai minimi livelli di una maggiore capacità di utilizzare nel proprio spazio di battaglia, enormemente dilatato rispetto al passato, tutti i mezzi che possono intervenire. Dal concetto di armi combinate si passa a quello di armi congiunte, in senso interforze. Il ciclo IDA (Ideazione, decisione, Azione) viene ottimizzato con la trasmissione digitalizzata, da computer a computer, della carta delle informazioni e di quella della situazione. Il livello d'integrazione sistemica facilita sia la centralizzazione della pianificazione, sia l'autonomia e la decentralizzazione nell'esecuzione e nella gestione dello spazio di battaglia.

4°. Invisibilità, riduzione della capacità di detezione da parte dell'avversario; inganno. Il futuro combattimento è innanzittutto rivolto ad acquisire la superiorità nell'informazione. Come si deve sapere tutto sul nemico, occorre far sì che quest'ultimo non conosca nulla su di noi. Non solo intervengono al riguardo azioni di guerra elettronica, il mascheramento, l'utilizzazione di tecnologie furtive, ma anche misure di inganno. Esse possono essere sia passive che attive. Estremamente utili al riguardo potranno essere le tecnologie della realtà virtuale, le simulazioni effettuate con il sostegno di competenze specialistiche nelle scienze morbide, che riescano a superare le barriere culturali, a penetrare nella psiche del nemico e ad individuarne i sistemi di valore ed i centri di razionalità che presiedono alle sue valutazioni e scelte. Le psicotecnologie avranno la stessa utilità di quelle hard..

Poiché gli obiettivi individuati anche a notevole profondità potranno essere distrutti, la loro protezione va più ricercata nella taglia ridotta e nella mobilità, che nella corazzatura. Grandi sviluppi si dovranno prevedere nei mezzi di mascheramento, adeguati alla neutralizzazione delle sofisticate tecnologie impiegate dai sensori che non sono più ottici, ma infrarossi, elettromagnetici, acustici, ecc. Si determinerà una vera e propria lotta fra i sensori e i mezzi di mascheramento, che dovranno essere utilizzati per tutta la profondità del teatro operativo. La maggiore letalità delle armi moderne sta provocando la tendenza ad un impiego massiccio di robot sia aerei (UAV o RPV) sia terrestri. Per ora, almeno, nessuno pensa all'impiego di androidi, sostitutivi dell'uomo e multiruolo, ma all'utilizzazione di robot per svolgere compiti particolarmente pericolosi (ad esempio, mine intelligenti) in un periodo in cui la riduzione delle perdite è diventata imperativa per tutti gli eserciti occidentali.

5°. Massa: gli effetti della manovra sia del fuoco che delle forze sono sempre esaltati dal loro impiego a massa e di sorpresa. La massa sarà realizzata non semplicemente con la superiorità numerica e qualitativa, ma sarà selettiva, diretta in contemporaneità contro tutti gli elementi costitutivi del centro di gravità del dispositivo avversario. In tal modo si impedisce all'avversario di metabolizzare l'attacco. Perdendo la sua coerenza sistemica gli elementi nemici separati devono essere investiti senza soluzioni di continuità per impedire che si raggruppino. La massa è finalizzata ad un concetto complessivo di manovra integrata del fuoco e delle forze. Non si identifica con la distruzione massiccia di tutti i sistemi e sottosistemi avversari.

6°. Battaglia dell'informazione. Poiché l'informazione è divenuta un elemento essenziale, data anche l'imprevedibilità e variabilità delle situazioni, occorre che i servizi informazione militari vengano ristrutturati e notevolmente potenziati. La stessa integrazione dei livelli strategico, operativo e tattico, rende indispensabile la costituzione di un servizio o corpo delle informazioni militari, distinto dagli organi che provvedono all'intelligence generale politico-strategica. A tale organismo deve essere attribuito non solo il compito della raccolta, analisi, valorizzazione, fusione e distribuzione delle informazioni, ma in un contesto unitario anche la lotta contro i sensori e contro i sistemi informativi e decisionali avversari. L'azione deve essere organizzata unitariamente e deve potersi avvalere di mezzi di guerra elettronica, di mezzi di fuoco, in un contesto unitario con la gestione dei sensori propri.

7°. Armi non letali. Le nuove tecnologie permettono una discriminazione degli effetti della forza militare. L'impiego di armi non letali potrebbe essere una risposta alla richiesta politica di un impiego rispettabile, cioé proporzionale e soprattutto discriminato della forza, specie nelle operazioni di peacekeeping e peacebuilding. Di armi non letali ne esistono due tipi ben distinti. Il primo è complementare alle armi letali. Armi non letali sono quelle destinate alla guerra elettronica, all'introduzione di virus nei calcolatori dell'avversario, dell'impiego dell'EMP (impulso elettromagnetico) per smagnetizzare le memorie elettroniche, e così via. Il secondo tipo è sostitutivo di quelle letali e comporta l'inabilitazione temporanea, più o meno lunga, del personale. Si tratta di laser a debole potenza, di ultrasuoni per provocare extrasistole, di agenti batteriologici per provocare malattie temporanee, di prodotti chimici incapacitanti, ecc. Questo secondo tipo di armi non letali ha un grosso limite. Esse potrebbero essere impiegate fino a che non è in pericolo la vita dei propri soldati. In caso contrario, diventa imperativo impiegare le tradizionali armi da guerre. Inoltre, la sola predisposizione di armi non letali può eliminare l'effetto dissuasivo provocato dalla presenza della forza, obbligando ad utilizzare poi un livello di violenza superiore a quello che sarebbe stato necessario senza le armi non letali (che comunque sono dotate di un potenziale intrusivo e inabilitante tanto quanto quelle letali). In sostanza, si ritiene che questo secondo tipo di armi sia soprattutto utile per legittimare l'impiego della forza in operazioni a bassa intensità, umanitarie e di mantenimento della pace. Invece le armi non letali della prima categoria avranno un impiego molto più diffuso, ed un'utilità più accentuata, in corrispondenza all'aumento degli aspetti soft rispetto a quelli hard dei combattimenti o dei conflitti.

 

4.3. Forze navali

Sul futuro delle forze navali gioca molto più il cambiamento dei compiti delle marine occidentali che lo sviluppo tecnologico.

Come è stato illustrato dall'Ammiraglio Mariani al CASD, nel giugno del 1994, le marine occidentali non hanno più come compito principale quello del sea control e neppure hanno assunto un compito di sea denial. Svolgono ora un ruolo di power projection a terra. La strategia navale della guerra fredda ha lasciato spazio alla maritime strategy, propria della flotta britannica del secolo scorso, mentre le marine da blue water si sono trasformate prevalentemente in marine brown water.

Ciò comporta una concezione del tutto diversa della flotta, con predominanza della componente anfibia e di quella leggera. Il progresso tecnologico, che in termini di armi stand-off e di mine marine sofisticate, accrescerà le capacità delle difese a terra, mentre consente di aumentare la potenza degli armamenti a parità di dislocamento, consiglierà di ridurre le dimensioni delle navi o di attribuire ad esse funzioni polivalenti, quali quelle di trasporto anfibio e di trasporto elicotteri armati. Particolarmente utile sarà l'installazione a bordo di RPV pesanti - per la ricognizione, per la guerra elettronica e per l'attacco - e di cruise con testate avanzate, per conferire alle marine una notevole potenza di fuoco, senza dover fare avvicinare troppo le navi alle coste, ponendole a rischio.

 

4.4. Forze aeree

Il progresso tecnologico anche nel settore aereo, come in quello navale, si coniugherà con l'impatto del cambiamento dei ruoli delle forze aeree conseguente alle trasformazioni intervenute nel contesto politico-strategico.

Diminuzione della marcatura radar, armamento stand-off di precisione, aumento del raggio d'azione con il sistematico ricorso al rifornimento in volo, integrazione delle forze terrestri, ricorso più spinto a RPV o UAV per compiti di ricognizione ed attacco a più breve raggio, diffusione dei dispositivi di autoprotezione degli aerei anche alle componenti trasporto, armamento specializzato anti-C3I/RISTA per bloccare il processo informativo e decisionale dell'avversario, diventeranno requisiti sempre più diffusi nelle forze aeree occidentali.

 

 

 

 

5. Conclusioni

 

5.1. In generale

Esiste un'evoluzione della guerra dovuta:

* alla rivoluzione dell'informazione;

*al mutamento del contesto strategico, dalla dissuasione all'intervento esterno;

* all'esigenza dell'Occidente, e in particolare degli Stati Uniti, di mantenere la superiorità qualitativa, posseduta attualmente, di fronte a competitori, per lo più Paesi emergenti ed autoproliferanti che cercheranno di neutralizzarla.

Una vera e propria rivoluzione militare (RMA) conseguente alla rivoluzione tecnologica in atto, cioé una completa soluzione di continuità rispetto al passato, è ostacolata, nel presente e nel prossimo futuro, dai seguenti fattori.

1°. Dalla diminuzione delle dimensioni delle forze occidentali, che dovranno sempre mantenere una capacità operativa permanente e che quindi potranno convertirsi solo gradualmente alle dottrine, alle strutture e all'addestramento (compreso il leader development) necessarie, al pari dell'utilizzazione delle nuove tecnologie, a dare contenuto concreto alla RMA;

2°. dalla contrazione dei bilanci della difesa, che rendono impossibile dedicare ai nuovi investimenti l'entità dei fondi necessari per raggiungere livelli critici significativi (ad esempio, in fatto di armi "brilliant" o di sistemi C3I/RISTA;

3°. dalla permanenza di vari tipi di guerra molto diversi tra loro. Di fatto è un settore che meriterebbe un notevole approfondimento. Esso è finora mancato perché gli studi sono stati essenzialmente rivolti alle operazioni ad alta intensità, o tutt'al più a quelle a media intensità, contro un avversario che abbia a disposizione forze dell'età industriale e che sia privo di strumenti in grado di contrastare i megasistemi integratori delle nuove capacità militari post-industriali.

La sicurezza nel mondo post-bipolare è divenuta un concetto molto più pluridimensionale e multifunzionale di quanto fosse prima. Le Forze Armate devono essere in condizioni di assolvere una pluralità differenziata di compiti, che richiedono, però, sempre l'imposizione della propria volontà ad un'avversario, cioé l'esercizio di una forza proporzionale a quella del contrasto incontrato. Per questo i principi dell'arte militare (massa, sorpresa, obiettivo politico, economia delle forze, libertà d'azione, ecc.) trovano completa validità nelle operazioni sia di guerra vera e propria, sia di quelle di peacekeeping. Non sono mutati la natura ed i meccanismi interni dei conflitti, ma le modalità e l'intensità con cui viene utilizzata la forza. Queste modalità ed intensità avranno un livello di imprevedibilità e di variabilità molto più rilevanti che nel passato: non si conoscono il nemico, il teatro d'operazioni, gli obiettivi politici da perseguire, gli alleati ed il loro grado di affidabilità, ecc. Questo impone alle Forze Armate un'accentuata flessibilità per poter dar luogo a complessi di forza dalla potenza variabile a seconda delle situazioni, integrabili in campo multinazionale ed interforze. Tale flessibilità sarà perseguita soprattutto con una differenziazione fra la catena di comando organico e quella di comando operativo, con la strutturazione modulare delle unità e del rispettivo supporto logistico e con la predisposizione di strutture di integrazione sistemica con architettura aperta, in condizioni cioé di integrare complessi di forze di dimensione variabile.

Le caratteristiche principali della nuova RMA, con le cautele circa la possibilità di una sua rapida realizzazione a cui si è prima accennato, appaiono essere le seguenti:

* le strutture di comando e controllo tradizionali gerarchiche verranno più appiattite, con la progressiva introduzione di architetture a rete, che garantiscano la massima rapidità di decisione e una spiccata autonomia dei livelli in sottordine. L'unitarietà dell'insieme verrà realizzata con la centralizzazione della pianificazione, in particolare con l'indicazione del centro di gravità dell'azione, che corrisponde ad elementi critici del dispositivo avversario;

* sostituzione delle operazioni seriali con operazioni simultanee e sincronizzate, svolte in tutta la profondità del teatro operativo, per paralizzare l'avversario, sovraccaricando o distruggendo il suo sistema informativo e decisionale.

* maggiore importanza delle componenti soft rispetto a quelle hard e l'esigenza di prevedere operazioni unitarie sia contro-C3I/RISTA sia contro-contro-misure a tutela delle proprie capacità nel settore. L'informazione svolge un ruolo analogo di un fattore produttivo: diminuisce, a parità di effetti, l'entità del capitale, manodopera e materie prime necessarie. E' un integratore sistemico, moltiplicatore di potenza;

* maggiore importanza del tempo rispetto allo spazio, come fattore strategico determinante dell'esito delle operazioni. La simultaneità delle manovre e delle azioni di fuoco svolte per tutta la profondità del dispositivo, ed il combattimento H-24, richiedono non solo l'introduzione di sistemi e mezzi particolari, ma anche una riorganizzazione profonda delle unità, del loro addestramento e soprattutto del processo di leader development. I comandanti saranno sottoposti a stress non tanto fisici quanto psicologici, superiori a quelli del passato. Devono essere in condizioni di affrontarli adeguatamente. In caso contrario, la flessibilità del sistema non potrà essere utilizzata è l'accelerazione del tempo consentita dalla tecnologia dei mezzi sarà di fatto inoperante.

* uno sforzo particolare dovrà essere rivolto alla riflessione circa le potenzialità e le modalità d'utilizzazione ottimali delle nuove tecnologie nelle operazioni a bassa intensità. L'accrescimento della flessibilità potrà essere ottenuto anche con l'utilizzazione di armi non letali e con la dotazione di apparecchiature RISTA di caratteristiche diverse da quelle utilizzate nelle operazioni ad alta intensità;

* determinanti per le future capacità operative saranno l'utilizzazione dello spazio extra-atmosferico, dove verranno ad essere schierati componenti essenziali dei sistemi C3I/RISTA nonché i servizi di intelligence strategico-operativa, che dovranno condurre anche le operazioni elettromagnetiche o convenzionali contro quelli dell'intelligence nemica, e la guerra elettronica;

* l'integrazione delle capacità operative richiede un concetto integratore che ne costituisca la matrice. Sempre più irrinunciabile sarà l'esigenza di disporre di una dottrina interforze e di una capacità di elaborare concetti tattici e operativi unitari e di determinare la priorità delle tecnologie e degli approvvigionamenti;

* vi sarà un sempre maggiore ricorso a misure di protezione, sia elettronica che fisica, all'inganno con creazione di effetti e utilizzazione delle tecnologie della realtà virtuale, un'ampia utilizzazione della simulazione, a scopi sia addestrativi sia per migliorare ed accelerare la presa delle decisioni tattiche.

 

5.2. In riferimento all'Italia

A) L'attuale situazione politica, istituzionale, economico-finanziaria e militare italiana non è tale da consentire al nostro Paese veri e propri spazi di autonomia. Può intervenire solo in nicchie nell'ambito di coalizioni multinazionali prevalentemente a leadership statunitense. L'instabilità e la variabilità delle attuali architetture di sicurezza e istituzioni di difesa dovrebbe comunque consigliare di non concentrarsi troppo sul presente, ma di considerare che è possibile governare l'evoluzione della guerra solo con una visione del futuro a più lungo termine.

B) Per gestire le crisi e gli interventi anche a breve termine è necessario che l'Italia si doti di una specie di Consiglio nazionale di sicurezza, che costituisca il centro decisionale nazionale, con adeguati supporti informatici, a livello politico-strategico, e all'integrazione interforze a livello militare delle funzioni operative e di pianificazione generale, compreso il settore tecnologico.

C) Come misura di breve periodo si potrebbe riservare un'aliquota di fondi dell' investimento per promuovere, su decisione del vertice interforze, misure per una maggiore interoperabilità ed integrazione dei sistemi, specie in campo del C3I/RISTA e in quello logistico. La carenza pressoché completa esistente ora nel settore della simulazione operativa dovrebbe indurre a costituire un centro interforze di simulazione di operazioni integrate, avvalendosi dei supporti esterni e delle esperienze fatte da altri paesi nel particolare settore.

D) Irrinunciabile è l'elaborazione di una dottrina interforze che costituisca la matrice di riferimento per l'elaborazione dei vari concetti operativi e tattici, per l'organizzazione strutturale delle forze e per la definizione della priorità dei programmi di approvvigionamento e di ricerca e sviluppo. Tale evoluzione dottrinale può essere perseguita solo con la costituzione di una specie di Tradoc (Training and Doctrine Command) interforze, che abbia anche il potere di controllare la coerenza delle dottrine e pianificazioni di Forza Armata con il contesto globale.

E) L'indeterminatezza, l'imprevedibiltà e la variabilità delle situazioni impongono una ristrutturazione e potenziamento dei servizi di intelligence non solo generale, ma strategica-operativa. A tale fine è indispensabile adottare provvedimenti analoghi a quelli francesi per la DRM (Direction du Reinseignement Militaire), che provveda con struttura unitaria interforze, articolata ai vari livelli di comando, al servizio informazioni operativo, da quello strategico a quello tattico. Non dovrebbe essere esclusa la costituzione di un'arma o specialità interforze ad hoc, che possa sfruttare, specie negli interventi umanitari e di peacekeeping anche la ricca gamma di competenze civili, esistenti soprattutto nei settori delle scienze morbide (antropologia, sociologia, storia, geografia politica e umana ecc.), nei riguardi delle specifiche zone d'intervento.

F) Occorre promuovere al massimo l'integrabilità in campo multinazionale e interforze, agendo in primo luogo sui quadri, ufficiali e sottoufficiali, rivedendone criteri di formazione e di gestione, dando importanza determinante alla conoscenza delle lingue, alla mobilità personale e alla riqualificazione professionale e, prima ancora, culturale.

G) Nella priorità della pianificazione tecnologica e degli approvvigionamenti, la Rivoluzione negli Affari Militari non può costituire un riferimento nella concreta situazione italiana caratterizzata da carenze organizzative e addestrative molto rilevanti. Senza una ristrutturazione integrale ed un miglioramento considerevole della preparazione dei quadri non appare logico puntare sull'introduzione in servizio di componenti particolarmente avanzate, eccetto nel settore C3I/RISTA, che può costituire la matrice per un più cospicuo, integrato e coerente miglioramento futuro. Questa ristrutturazione in senso efficientistico deve soprattutto essere indirizzata al miglioramento delle capacità immediate. Ciò può sembrare in contrasto con quanto precedentemente affermato circa le tendenze della RMA o MTR in atto nei paesi più avanzati. Sta di fatto che le capacità presenti possono legittimare agli occhi del potere politico, dell'opinione pubblica e degli stessi militari, i miglioramenti futuri, che non saranno, evidentemente, indolori né poco costosi.

H) In relazione alla situazione esistente e alle effettive disponibilità sembra logico prevedere la seguente priorità negli investimenti:

• forze speciali

• armi guidate di precisione per i cacciabombardieri pesanti

• sistema C3I/RISTA, compreso segmento spaziale

• forze intermedie fra le leggere e pesanti, che sono fra le più versatili in quanto a capacità d'impiego (elicotteri armati e di trasporto)

• guerra elettronica e armi di precisione lanciati da aerei

• forze navali, in quanto comportano l'assunzione di minori rischi politici in caso di intervento multinazionale e quindi si prestano ad essere impiegate con maggiore facilità, consentendo sempre una certa presenza

• trasporti marittimi ed aerei, anche con l'utilizzazione delle disponibilità civili

• componenti di fuoco fortemente sofisticate da inserire nel quadro C3I/RISTA.

Tali priorità sono solo indicative e si riferiscono ad una previsione del mantenimento delle attuali disponibilità di bilancio, di un recupero del 25-30% dei fondi destinati alle organizzazioni di supporto in modo da poter finanziare, senza diminuzione dell'investimento, la maggiore indispensabile professionalizzazione delle Forze.

In sostanza si può affermare che, nel caso italiano, un vero e proprio salto di qualità per un miglioramento delle capacità militari esistenti non è dato tanto all'introduzione massiccia di nuove tecnologie, che non si avrebbe la possibilità di finanziare, quanto alla ristrutturazione dell'attuale organizzazione militare in Italia calibrando l'innovazione con il recupero di efficienza di quello che c'é.

Sarebbe già molto.