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ALL'ITALIA VA STRETTA L'EUROPA

di Carlo Pelanda

 il Giornale 9 aprile 1995

 

 

Fino a pochi anni fa è stato facile rispondere alla domanda "Europa per che cosa?" Negli anni 60 e 70 l'integrazione europea era una necessità strategica. Negli anni 80 era un business. E negli anni 90? Non è chiaro.

In particolare, si comincia a dubitare che l'Unione Europea, come disegnata nel trattato di Maastricht, possa continuare ad essere un buon affare per tutti i soci. In meno di un decennio le condizioni nazionali ed internazionali dell'economia sono cambiate. Il mercato è diventato più potente dello Stato: la volontà del mercato può muovere più capitale di quanto lo possano fare gli stati o raggruppamenti regionali di essi (la crisi del Sistema monetario europeo nel 1992, e le successive, sono un esempio di questo fatto); la circolazione internazionale del capitale e le nuove tecnologie permettono di produrre le merci dove i costi sono inferiori oppure in modi che richiedono un minore impiego di manodopera; la competizione è aumentata e si è globalizzata.

Questo è noto. Meno note sono le conseguenze. La nuova turboeconomia (così la definisce Luttwak) sta provocando una riduzione della base industriale nei paesi sviluppati. La gente che è espulsa dai settori manifattuirieri cerca lavoro nei servizi, ma non ne trova abbastanza o lo trova a condizioni aleatorie. In breve, si sta andando verso uno scenario dove le società si spaccherranno tra una metà fatta di ricchi che diventeranno sempre più ricchi e dall'altra metà fatta di poveri sempre più poveri, tutte e due le metà comunque sempre più incerte. La ricchezza complessiva crescerà, ma porterà con se disoccupazione e, soprattutto, sottoccupazione. Giulio Tremonti ha trovato un'espressione molto efficace per indicare l'oste con cui dobbiamo fare i conti in ogni discorso sul nostro futuro: il fantasma della povertà.

Di fatto sembrano esaurirsi le condizioni che negli ultimi 50 anni hanno permesso l'affermazione del capitalismo di massa, cioè della ricchezza a portata di tutti. Questo già accade negli Stati Uniti e sta per accadere in Europa e Giappone, pur nella diversità dei rispettivi sistemi economici..

Dobbiamo chiederci quale architettura europea possa permettere di ottenere una grande reindustrializzazione e quindi un nuovo capitalismo di massa nei suoi Paesi. L'Europa è diventata ormai troppo piccola in riferimento alla scala dell'economia mondiale. Sarebbe più proficuo pensare ad una integrazione sufficiente del vecchio continente per poi ottenere un'ulteriore integrazione con il mercato nord-americano, e, successivamente, con quello asiatico.

Le fasi potrebbero essere le seguenti: (a) stabilizzazione del Mercato unico europeo come area di libero scambio fortemente integrata per tutte quelle quelle regole che favoriscono il ciclo economico comune (diritti di proprietà, polizia criminale europea, per esempio), ma gestita come "democrazia tra nazioni", pur semplificata, ovvero come sistema molto flessibile ed aperto a successive riconfigurazioni; (b) elaborazione di un trattato euro-americano per la costruzione nel tempo di un'area economica comune (e riadattamento della NATO per fornire le funzioni di difesa al nuovo mercato bi-continentale); (c) evoluzione, passo dopo passo, di un regime di accordi utili ad integrare i Paesi emergenti dell'area asiatica e dell'America latina man mano che raggiungono le condizioni di omogeneità con le economie più avanzate.

In questa visione il disegno di Maastricht sarebbe sostituito da quello di una integrazione sufficiente per ottenere ulteriori integrazioni con le aree extra-europee. L'Europa deve andare oltre se stessa per riconquistare la ricchezza.

Questa impostazione sembra essere più favorevole all'interesse nazionale italiano che non l'idea di Europa fissata dal trattato di Maastricht. Con una struttura industriale leggera e molto più innovata ed internazionalizzata di quanto comunemente si pensi infatti, l'Italia dovrebbe cedere sovranità decisionale, monetaria, fiscale e culturale a nazioni (Germania e Francia) che hanno un diverso, e molto più rigido, assetto produttivo. Questo penalizzerebbe il potenziale di ricchezza della nostra nazione. Per noi è molto meglio che l'Europa sia un'area di libero scambio che procede verso ulteriori integrazioni di mercato su scala mondiale. Con questo modello, che ne favorisce la competitività, l'Italia potrebbe mantenere vive le proprie speranze di ottenere un capitalismo di massa per i suoi cittadini. Nella burocratica ed astratta Europa franco-tedesca di Maastricht difficilmente lo potrebbe.

La discussione è aperta e sarebbe opportuno concluderla prima della conferenza intergovernativa del 1996 che stabilirà il disegno europeo in modo, probabilmente, finale.