Carlo Pelanda

Futurizzazione

Introduzione

 

Cronogenesi

La storia in atto ci fa intravedere la possibile nascita di un’era dove i limiti del passato potranno essere superati. La scarsità è sostituibile con l’abbondanza. La malattia è sempre più contrastabile da una medicina che va a più fondo nelle nostre strutture genetiche profonde. La vita potrebbe essere allungata. La tecnologia promette un dominio crescente della materia, informazione ed energia. Complessivamente, si riescono già ad intuire le possibilità concrete per una futura traiettoria di pieno riscatto dell’umanità dalle costrizioni biologiche, ecologiche, oltre che di quelle politiche, sociali, culturali ed economiche che la hanno compressa nei millenni e che ancora la soffocano. Il futuro si sta aprendo all’ambizione antropica più ardita, la salvazione terrena? Non ancora, ma certamente ci sta mostrando una strada in quella direzione, con delle stazioni intermedie in vista che appaiono miglioramenti formidabili della condizione umana in relazione al presente.

E nel dare un’occhiata indietro, con negli occhi la visione di questo futuro possibile, esplode nella mente un’emozione. I nostri antenati più coraggiosi e visionari hanno costruito la strada che ci ha portato a poterne tracciarne una che andrà ancora più avanti e più in alto. Non hanno trasferito lungo l’asse del tempo solo biologia, la speranza ridotta a mera riproduzione, ma cultura e risultato. Una speranza operativa ed attiva. E se siamo arrivati fin qui, oltre i limiti che apparivano insuperabili millenni, secoli e decenni fa, allora vuol dire che tale cultura, comunque variata ed espressa, è mossa dall’ambizione di superare ogni barriera. Prevale in questa direzione della nostra storia il desiderio consapevole di salvezza o la curiosità istintiva di muovere le cose? Altri stendano fiumi di inchiostro su quale sia il motore antropologico più profondo, a me basta poter sostenere senza essere smentito dai fatti che sia possibile un’alleanza tra curiosità e miglioramento. Tra audacia e soluzione. Tra futurizzazione e costruzione di un tempo più conveniente.

Ma l’eccitazione non può nascondere una difficoltà che forse gli antenati futurizzanti non hanno avuto, pur superando altre enormi, e che la nostra generazione dovrà trovare un modo per gestire. E’ la prima volta nella storia nota che vediamo la possibilità di superare dei limiti finora ritenuti assoluti.

Quello della vita è il più impressionante oltre che il più mobilitante. Potremo modificarla e forse crearla. Ma nessuno ci ha insegnato come. Perché non era previsto che si potesse fare fino a poco fa, tutta la nostra cultura evoluta entro questo limite fisso, o endodestino. Molti miti hanno cercato di portare il sogno oltre, verso esodestini, ma nessuna tecnica ci è mai riuscita nei fatti. E così abbiamo nelle mani un sapere che promette di poterlo fare, con certa facilità, ma che scotta perché non riusciamo ad inquadrarlo entro un universo morale basato su esperienze cumulate. Ed infatti ci stiamo dividendo tra chi rifiuta per paura e chi vuole tentare in ogni caso, tra conservatori e futurizzanti. Qui scrivo per i secondi, avendo già le mie emozioni fattomi scegliere per impulso il campo dove militare. Ma non sono emotivo al punto da dimenticarmi gli insegnamenti di zia Ragione. Dobbiamo costruire una teoria, ora mancante, che rielabori la morale per renderla propulsione e non freno per la tecnica. Alleata e non nemica. E dovrà essere una teoria piuttosto solida perché deve convincere e non solo vincere, oltre a non perdere contro gli assalti dei movimenti conservatori. E, soprattutto, trasformarsi in politica che sappia governare un nuovo così nuovo.

Ma è anche impressionante il compito di rendere compatibile lo sviluppo capitalistico, e le sue conseguenze espansive ed artificializzanti, con i limiti dell’ecologia naturale. La storia passata ci mostra che non abbiamo mai avuto questo problema in forma così pressante. La natura è stata sempre piegata ai nostri interessi quando serviva. Il pianeta che oggi abbiamo ereditato ha ben poco di "naturale", inteso come indipendente da antropos. Per esempio, l’agricoltura lo ha ristrutturato, a seguito dell’espansione demografica, in una sorta di ecologia artificiale. E tale è la direzione storica. Ma questa volta i passi di sviluppo umano rischiano di andare oltre ciò che la natura può sostenere. E ci porta al dilemma se fermarci noi o prendere in mano la natura e rielaborarla. La seconda appare direzione inevitabile per non creare un disastro umano. Ma sarà di una complessità infernale evitarlo senza pagare il prezzo di una catastrofe ambientale. La tecnologia potrà darci sia un’ecologia artificiale raffinata sia strumenti con meno impatto sui cicli della vita naturale è ciò creerà nuovi spazi antropici in equilibrio con una natura rielaborata per resistere meglio al dominio planetario della nostra specie. Tuttavia, ci vorranno enormi cambiamenti per arrivarci senza disfare il tutto.

Non nascondiamoci che il lato più ambiguo della futurizzazione sia il creare nuovi problemi più grossi nel momento in cui risolve via progresso quelli precedenti. Senza armi si era mangiati dalle belve, con quelle siamo a noi a mangiarle, ma le usiamo anche per distruggerci l’un l’altro. D’altra parte, di fronte al nuovo problema da noi stessi generato poi troviamo una nuova soluzione. E qui c’è la forza del salto nel futuro: risolve i problemi anche se ne crea di nuovi mentre il fermarsi ne crea meno sul momento, ma di più e con minore capacità di gestirli poi.

Tuttavia, anche tale forza potrà vacillare di fronte ad orizzonti che si avvicinano e paiono perfino indicibili. Per esempio, se avremo successo nel passo ecofuturizzante, il problema successivo che genereremo sarà quello di arrivare ad un confine non facilmente valicabile. Il pianeta diventerà comunque troppo piccolo per ospitarci, come forse la stessa forma umana evoluta entro i suoi vincoli ristretti. Quindi nel tracciare un sentiero di futurizzazione tecnologica dovremo anche predisporre le prossime generazioni ad affrontare un salto ancora più acrobatico: la continuazione dell’evoluzione umana attraverso esodestini. Questi intesi come sviluppi da costruirsi al di fuori della dimensione ecologica e biologica complessiva dove è iniziata la nostra specie. Già oggi si comincia a sentire la tensione tra umano e post-umano per questioni di minore portata. Per gestire queste e quella più grossa, forse non così remota come potrebbe apparire, sarà sensato cominciare il prima possibile un’apertura della cultura a tali prospettive.

Infatti il punto, sia tecnico sia ideologico e metodologico, di questo libro è che la speranza di risolvere con successo i problemi futuri che noi stessi generiamo con il progresso dipenderà prima di tutto dal come mobilizziamo la società di oggi, in ogni presente, per prepararla al domani. L’idea è di superare con aumenti di velocità e non rallentamenti i problemi. La teoria della "società veloce" sceglie l’opzione di accelerare la rincorsa di fronte ad un ostacolo per superarlo meglio. La teoria, implicita, della "società lenta" tende, al contrario, al rallentamento o rinuncia al salto come metodo generale. E la seconda ha molta diffusione sia come ideologia che ammira la lentezza come stile di vita e politico sia come accettazione passiva, anche non voluta, delle inerzie. E ciò sta creando una dannata complicazione ai velocisti. La cultura che c’è, la forma degli Stati che esiste, la loro architettura internazionale e la capacità dell’economia globale di creare ricchezza per un numero crescente di persone non sono di velocità sufficiente. Non solo per superare gli ostacoli futuri, che richiedono più qualità e quantità nei fattori detti. Ma neanche per fare manutenzione del nostro presente, cioè saltare le siepi del percorso quotidiano della salute. Si osserva, infatti, un rallentamento delle capacità politiche ed economiche di modernizzarsi, cioè di adattarsi alle nuove condizioni attraverso innovazioni dinamiche. Come se il sistema occidentale, pur basato sul capitalismo tecnologico e sulla sua teoria velocizzante (implicita), fosse in un momento di pausa. Come se la società ricca non riuscisse più a trovare quella forza che la rese tale nel recente passato. Non so se ciò sia solo sbandamento temporaneo di cui non esagerare la portata oppure l’avvio di una biforcazione dei sentieri dove aumenta la probabilità di una degenerazione del sistema.

Ma sono certo, qui in base a dati precisi, che molte componenti del nostro sistema sociale soffrano di vecchiaia e rallentamento. Quindi bisogna collegare l’atto di futurizzazione remota con la manutenzione del presente, dinamizzandolo.

Cosa fare: tentare di disegnare di più il nostro presente e futuro o confidare nella buona sorte, cioè avere grande fiducia nella provvidenza e nell’emergere di soluzioni spontanee? Io tale fiducia la ho. Ma penso che siamo in mezzo ad un tempo che finisce ed uno che nasce. E per il secondo siamo senza esperienza. Quindi le soluzioni spontanee, che comunque trovano origine nel sapere e nelle caratteristiche di un ciclo storico specifico e non in qualche capacità magica, potrebbero non arrivare a dimostrarsi efficaci. C’è odore di cronogenesi, di creazione di un nuovo tempo, e non me la sento di prendere il rischio. Non credo, per altro, nemmeno nella possibilità di poter pianificare e prevedere i futuri. Ma ritengo fattibile e razionale orientarli con un progetto di massima e con formule istituzionali e culturali che sappiano gestire l’imprevisto cogliendone l’opportunità e minimizzandone i pericoli. Lo vedo come una sorta di ponte provvisorio gettato tra la sponda del tempo che finisce e quella del tempo che nasce.

Per questo, alle avvisaglie di una possibile cronogenesi sento che dobbiamo rispondere senza mezzi termini dando al presente una direzione storica futurizzante.

Fortificazione

E anche senza mezzi termini va fortificato il modello di capitalismo tecnologico per permettergli di esprimere meglio il proprio potenziale di motore concreto di qualsiasi futurizzazione. Certamente andrà perfezionato inserendolo in un’architettura politica migliore, sia nazionale che internazionale. Ma senza deprimere la sua forza motrice, quindi dando a tale architettura forza propulsiva e non solo stabilizzatrice. E’ ovvio che il mutamento distruttivo-creativo comporti la continua generazione di differenze. Per esempio, l’invenzione e diffusione del computer ha tolto valore di mercato alle macchine da scrivere ed a chi le costruiva e riparava. Ma tale modernizzazione ha reso l’economia più produttiva o comunque generato nuova domanda di manodopera in altri settori. Si è creato un problema, ma allo stesso tempo una nuova opportunità. Quindi il punto più importante non è quante persone cadano nel problema, ma bensì quante colgano il più velocemente possibile nuove occasioni di ricchezza. E ciò dipende da tre cose: la mobilità intellettuale e fisica degli interessati; che ci sia o meno una funzione politica che incentivi e sostenga i transiti occupazionali; e una forma del mercato internazionale che non deprivi di opportunità un territorio, ma ne aggiunga. Quindi l’equità sociale del capitalismo tecnologico è raggiungibile, o per lo meno approssimabile, attraverso una continua modernizzazione della politica. In particolare: più investimenti educativi, istituzioni a sostegno di una mobilità che corrisponde alla dinamicità del continuo mutamento capitalistico e capacità di ogni governo nazionale di mantenere competitivo il proprio territorio, possibilmente entro standard globali che aiutino a fare questo e non il contrario. Ciò serve a dire che non è per nulla un mistero come il capitalismo possa diffondersi armonicamente su tutto il pianeta, cancellando differenze in basso, creandone di nuove in alto, ma sempre con meno sofferenze. La formula è semplice: futurizzare costantemente, sempre di più.

Ma i conservatori, in particolare le sinistre occidentali o i protezionisti di qualsiasi colore, invece di accettare la soluzione futurizzante, esasperano la conservazione di garanzie immobiliste. Che sono sia irrealistiche sia controproducenti per l’efficacia sociale del capitalismo tecnologico stesso in quanto, minandone l’efficienza, ne fanno lavorare più lentamente e malamente i meccanismi. In sintesi, la cosa più assurda che si nota in questa fase storica è che tutti i problemi economici e loro conseguenze sociali hanno una soluzione non troppo difficile da praticare, almeno concettualmente, in termini di futurizzazione, ma questa non viene attuata per la resistenza politica di una parte della società che resta arretrata, passiva, pigra e, per tali motivi, impaurita dal nuovo.

E qui si nota un paradosso che indica un cortocircuito della cultura. La soluzione migliore viene contrastata e demonizzata come immorale alla luce di una dottrina tecnicamente inconsistente. E trova simpatia diffusa. Per esempio le tesi antiglobalizzanti, la dottrina difensiva delle garanzie della sinistra e del più dei sindacati. Alle quali si aggiungono altri soliti noti conservatori tipo gli ambientalisti mistici e i cultori del pensiero debole. Creando così un impasto dove temi sociali si mescolano con dottrine cognitive, le seconde dando alle prime un apparente dignità scientifica, le prime offrendo alle seconde la loro, ancor più illusoria, grande tradizione morale. Per esempio, l’idea di una sinistra che lavora sempre a favore dei deboli. La considerazione che così i deboli resteranno tali, e lenti, non tocca queste eccelse menti e pertanto il capitalismo in realtà buono perché risolutore diviene demonio solo perché mobilizzatore.

Alcuni mi hanno consigliato di cosmetizzare le asperità del mutamento competitivo capitalistico, cioè delle teorie velocizzanti. Io, invece, penso che sia meglio contrattaccare non solo mostrando l’inconsistenza della pretesa di superiorità etica delle teorie difensive ed immobiliste, ma, soprattutto, generando in chiaro una teoria politica delle soluzioni futurizzanti ed esibirne la maggiore solidità sia tecnica sia morale.

Questo libro, che vuole andare al sodo con meno fronzoli possibile, è scritto in forma di raccomandazioni progettuali, articolate in sette missioni di futurizzazione:

1. Rinforzare il modello capitalistico

2. Avviare la rivoluzione cognitiva

3. Costruire lo Stato delle garanzie attive

4. Dare al mercato globale un’architettura politica propulsiva

5. Gestire la rivoluzione tecnologica con un pensiero forte e non debole

6. Governare l’ecologia artificiale

7. Aprire la cultura dell’umanesimo all’evoluzione degli esodestini

Sette passi di rincorsa per compiere un grande balzo.


Quello di Pelanda e Savona è un libro complesso, pieno di stimoli in mezzo a una miriade di libri, almeno in lingua italiana, che affrontano questi temi con una superficialità spesso disarmante.

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ISBN-10: 8820034743
ISBN-13: 978-8820034740